di Gianni Barbacetto
Quando, fra dieci o vent’anni, si racconterà la storia di questi strani tempi nella Milano che aspettava l’Expo, si dovrà spiegare che il consiglio comunale nel 2009 votò all’unanimità la costituzione di una commissione antimafia, poi la maggioranza ci ripensò, ne impedì il funzionamento e infine votò di nuovo, decretandone a maggioranza l’eutanasia. Questa commissione non s’ha da fare. Bocciata, lo stesso giorno in cui i giornali riportano la cronaca dell’ultimo morto ammazzato di mafia, davanti al Bar Quinto di Quarto Oggiaro.
Perché bocciata? Perché non ha poteri, è inutile - spiega il centrodestra. L’ha detto anche il prefetto. Ci sono già i magistrati e le forze di polizia: è compito loro indagare sulla mafia. Eppure c’è un precedente, anzi due: la commissione comunale antimafia presieduta dal professor Carlo Smuraglia nel 1990 fece un ottimo lavoro; la commissione sulla corruzione nel commercio presieduta dal professor Nando dalla Chiesa nel 1995 ebbe buoni risultati. Certo, magistratura e polizie fanno le indagini, mentre una commissione comunale non può avere poteri giudiziari d’inchiesta. Ma anche l’amministrazione pubblica può (anzi deve) avere un ruolo nel contrasto alle infiltrazioni mafiose: può monitorare le situazioni a rischio, può aumentare la trasparenza nelle procedure, può alzare barriere amministrative alle infiltrazioni dell’illegalità. La sola presenza di una palese, decisa e proclamata attività amministrativa antimafia darebbe coraggio ai funzionari onesti che si oppongono a procedure illegali e scoraggerebbe i deboli con la tentazione di cedere… I giudici arrivano a cose fatte, come il chirurgo che asporta l’organo malato; la politica e l’amministrazione possono (e devono) arrivare prima, prevenendo l’estendersi della malattia.
Ma la maggioranza che governa Palazzo Marino non l’ha capito, o non l’ha voluto. Forse teme che troppo parlar di mafia infanghi l’immagine della città, che deve mostrare solo il suo volto scintillante - moda, design, soldi e finanza - e tenere nascosto il suo lato oscuro, che esiste fin dai tempi di Sindona, fin dall’assassinio di Giorgio Ambrosoli, fin dall’insediamento nell’hinterland delle cosche calabresi. E oggi, dice il magistrato antimafia Vincenzo Macrì, «Milano è diventata la capitale della ‘Ndrangheta».
O forse la politica teme che l’antimafia diventi un’arma politica, brandita da una parte contro l’altra. Il centrodestra a Palazzo Marino teme che il centrosinistra impugni l’antimafia come una clava contro la maggioranza? Peccato, perché le organizzazioni criminali, a Palermo come a Napoli, a Reggio Calabria come a Milano, cercano sempre rapporti con la politica, a destra o a sinistra non importa: l’illegalità è generosamente bipartisan. Non sempre lo è il contrasto all’illegalità. Eppure l’antimafia non è né di destra né di sinistra. Certo, chi è al governo, a Roma come a Milano, ha più possibilità di essere assediato e infiltrato dagli uomini delle cosche. Ma proprio per questo sarebbe stato più bello e più forte che Pdl e Lega e Udc avessero puntato con chiarezza sulla commissione antimafia: avrebbero così tutelato non solo la città, ma anche i loro stessi partiti, dai rischi futuri di indagini che - Dio non voglia - dovessero finire per sfiorare qualche loro esponente. Avrebbero isolato preventivamente eventuali “mele marce” e avrebbero potuto dire ai cittadini: vedete? noi siamo dalla parte della legalità. Così finisce invece per prevalere una difesa a oltranza della politica, anche nelle sue espressioni meno difendibili. Difesa in nome dell’appartenenza, invece che in nome della legalità condivisa.
A questo punto tocca alla città: continui il lavoro morto prima di cominciare, costituisca una commissione antimafia, non di parte, non strumentale, non contro i partiti, ma realizzata con chi ci sta della politica e della pubblica amministrazione, della cultura e dell’economia. Il meglio di Milano è già pronto a impegnarsi.
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