di Anna Petrozzi e Silvia Cordella - 23 maggio 2009
Roma. “Siamo qui per accertare la verità”. Con una semplice quanto ovvia dichiarazione il giudice Mario Fontana, che presiede il processo a carico del generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, interroga e lascia interrogare più volte dalle parti i collaboratori di giustizia Ciro Vara e Giovanni Brusca nel corso delle due udienze che si sono tenute a Roma, presso l’aula bunker di Rebibbia il 21 e il 22 maggio scorsi.
Accertare la verità in questo caso non significa soltanto stabilire, come sostengono a gran voce gli avvocati difensori dei due imputati, di chi sia la responsabilità della fallita cattura di Provenzano quel 31 ottobre 1995 a Mezzojuso, ma anche e soprattutto comprendere quali possano essere state le ragioni che potrebbero aver spinto uomini dello Stato a proteggere la latitanza del capo di Cosa Nostra, colpevole di decine di omicidi e delle peggiori stragi che hanno insanguinato la Sicilia e l’Italia.
Non è quindi materia semplice e nemmeno si può fingere di poter valutare il singolo fatto senza incastonarlo nell’enorme quadro che abbraccia il biennio più buio della recente storia della Repubblica. Tra il 1992 e il 1993 infatti non solo sono esplose le bombe di Capaci e via D’Amelio e poi “in continente”, ma sono mutati radicalmente gli equilibri politici del nostro Paese e Cosa Nostra ha gettato le basi per risorgere dopo un’apparente disfatta. E tutti questi eventi dopo anni e anni di faticosa ricostruzione sembrano essere più collegati di quanto si creda.
Non sorprende affatto perciò che le domande poste dal Pubblico Ministero, rappresentato in aula dai procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal sostituto Nino Di Matteo, a Giovanni Brusca si siano concentrate in modo particolare sulla cosiddetta “trattativa”, il dialogo avvenuto tra mafia e stato a cavallo delle stragi in cui morirono i due giudici simbolo della lotta alla mafia.
Giovanni Brusca collabora con la giustizia dal 1996. Si decise a “saltare il fosso” quando sentì dire da Salvatore Cancemi, altro collaboratore, che Riina, l’uomo che ammirava e serviva più di suo padre stesso, voleva ucciderlo.
L’ex boss di San Giuseppe Jato è stato sentito decine di volte sulle manovre che Salvatore Riina aveva pianificato per ottenere dallo stato nuovi interlocutori politici e soprattutto benefici carcerari e giudiziari. Dopo la sentenza di Cassazione del 31 gennaio 1992 l’allora capo di Cosa Nostra in carica aveva dato inizio al suo particolare modo di colloquiare facendo assassinare Salvo Lima, il grande interlocutore politico della mafia. Tanto per lanciare un segno chiaro ed inequivocabile. Poi toccò al grande nemico: Giovanni Falcone.
Fu dopo Capaci, secondo Brusca, che “qualcuno” dello Stato si era “fatto sotto” per chiedere una tregua in cambio della concessione di qualche privilegio.
“Quando vidi Riina aveva una faccia, un’espressione, di grande soddisfazione”, spiega il collaboratore, “mi disse, indicandolo con le mani, che gli aveva fatto un papello tanto, cioè tutta una serie di richieste per migliorare la nostra condizione”.
Solo in sede processuale, quindi dopo il suo arresto, Brusca apprese che il generale Mori e il capitano De Donno erano gli interlocutori di Riina che aveva come tramiti Vito Ciancimino e il dottore Antonino Cinà.
Se i nomi dei due fiancheggiatori non lo sorpresero affatto, poiché ne conosceva il ruolo, il pentito si scandalizzò invece di sapere che il suo capo stava trattando il nemico, che aveva fatto il patto con il “diavolo”, secondo la visuale distorta dei valori mafiosi.
In ogni caso se si sono individuati i tramiti resta da stabilire chi sia il “terminale”, cioè chi riceveva le richieste e decideva in merito.
Mori e De Donno hanno sempre negato che vi fosse qualsiasi altra entità dietro al loro operato e che il fine fosse quello della cattura dei latitanti, ma Brusca rivela di essere a conoscenza di quel nome. E quella confidenza gliela fece Riina in persona.Di fronte alle domande del Pubblico Ministero, degli avvocati e persino del Presidente, però, Giovanni Brusca tace, si avvale della facoltà di non rispondere; ormai avvezzo ai trucchi del dibattimento, non cede di un passo e si trincera nel più assoluto silenzio poiché specifica: “vi sono indagini in corso”.
Semplicemente concede un unico: “feci quel nome in tempi non sospetti”.
Ripercorrendo documenti e articoli inerenti le decine di deposizioni di Brusca ai tantissimi processi per i fatti di quell’epoca l’unico nome che sia mai emerso è quello dell’allora Ministro dell’Interno Nicola Mancino quale possibile ricevente ultimo delle richieste della mafia.
Brusca non lo ha mai fatto direttamente. Fu Francesco Viviano in un articolo del 2001 a scrivere il nome del politico che però ha sempre smentito di aver saputo di una qualsivoglia trattativa.
Non è dato di sapere se Brusca si riferisca a questa vicenda oggi, conforta apprendere che vi siano ancora indagini in corso in questo senso e si spera che approdino presto a fatti da poter accertare.
E’ possibile che la tanto attesa audizione a questo processo di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito e testimone diretto proprio degli episodi della trattativa, possa fornire quei riscontri finora mancanti.
L’eventuale coinvolgimento del ministro Mancino si ricollega anche con il mistero che avvolge la morte di Paolo Borsellino. E’ un dato storico assunto che il giudice si fosse guadagnato l’odio di Cosa Nostra con il suo operato, ma la tempistica così accelerata e le modalità esecutive, in parte ancora non individuate, con cui è avvenuta la strage di Via D’Amelio hanno sempre lasciato presagire responsabilità altre come il giudice stesso ebbe a confidare alla moglie e alle persone a lui più vicine. Sull’agenda del magistrato infatti è segnato l’incontro con il Ministro che oggi dice di non ricordare se tra le tante mani strette in quel giorno ci fosse anche quella del giudice simbolo della lotta a Cosa Nostra con il volto segnato dal brutale assassinio del suo amico e collega più intimo avvenuto poco più di un mese prima.
Delitti, terribili, di cui è intriso il nostro Stato e tutti connessi l’uno all’altro.
Allo stesso modo infatti non è stata affatto accertata la ragione dell’omicidio di Luigi Ilardo, il confidente del colonnello Riccio, freddato a Catania il 10 maggio 1996, ad una settimana esatta dalla sua formale richiesta di divenire un collaboratore di giustizia a tutti gli effetti.
Era stato lui infatti, con un’operazione rischiosissima di infiltrazione nelle famiglie del nisseno, tornando dopo anni di reclusione ad occupare il suo ruolo di vertice nella provincia di Caltanissetta, a portare il colonnello Riccio e gli uomini del Ros ad un passo dalla cattura di Provenzano a Mezzoiuso che per l’appunto non avvenne.
Sentita nell’ambito del medesimo procedimento, nell’udienza del 17 aprile scorso, il procuratore aggiunto Teresa Principato, che partecipò a quella riunione in cui Ilardo si presentava per la prima volta davanti ai magistrati, ha riferito di essere rimasta estremamente turbata dalla scelta dei procuratori capo di allora: Caselli per Palermo e Tinebra per Caltanissetta di non verbalizzare il contenuto dell’incontro con il confidente.
“Fu una decisione presa alla fine, io ero contraria a quel metodo ma mi fidavo dei due magistrati, considerata la loro caratura”.
Secondo la dottoressa Principato Ilardo doveva sistemare delle questioni personali e soprattutto voleva provare ad ottenere un ulteriore appuntamento con Provenzano. Il colonnello Riccio assicurò loro che si sarebbe occupato personalmente della protezione di Ilardo ma nello stesso giorno in cui questi ripartì per far rientro a Genova Ilardo fu assassinato.Da chi? E perché?
Il magistrato non ha fatto mistero dell’ormai diffusa consapevolezza che le istituzioni non diano quella garanzia di riservatezza che sarebbe d’obbligo, “le notizie volano da qualsiasi fonte”, ha specificato senza tanti giri di parole.
Brusca e Vara forniscono invece il quadro generale in cui potrebbe essere maturato il delitto.
Ciro Vara, uomo di spicco della famiglia di Vallelunga, racconta che in quegli anni vi erano rivalità molto accese all’interno dei diversi schieramenti interni a Cosa Nostra che si ripercuotevano anche negli equilibri locali.
In particolare Gino Ilardo era in aperto contrasto con Peppe Cammarata e quindi quando apprese dell’uccisione del primo ne ricondusse il movente alla violenta dialettica interna alle famiglie nissene.
Fu solo più tardi che comprese perché Pietro Balsamo, della famiglia di Catania, con lui detenuto nel carcere di Enna, apprese la notizia dell’omicidio con particolare soddisfazione e gli disse di prepararsi che sarebbe scoppiata una bomba.
“La bomba – ha spiegato il pentito – era il fatto che Gino Ilardo collaborava con i carabinieri, ma lo compresi solo dopo”.
Balsamo secondo Vara era sempre al corrente di quanto si muoveva negli ambienti giudiziari, “evidentemente – ha precisato – aveva qualcuno che lo informava”.
Brusca invece ha introdotto un interessante retroscena.
Già verso la fine del 1995 aveva ricevuto richiesta da Aurelio Quattroluni, della famiglia di Catania, di uccidere Luigi Ilardo. Una richiesta stranissima perché in quegli anni Brusca e Bagarella erano sostanzialmente su una posizione contraria a Provenzano, e Ilardo, nipote di Piddu Madonia, apparteneva invece proprio allo schieramento del vecchio padrino.
Brusca, insospettito di essere stato incaricato di quel delitto, ancor più perché il mandante risultava essere proprio Piddu Madonia, ne chiese conto a Provenzano il quale, “come suo solito”, disse di non saperne nulla e di attendere nuove disposizioni. Che arrivarono però troppo tardi. Ilardo infatti fu assassinato e la settimana successiva Brusca fu arrestato.
A mistero si aggiunge mistero.
Nonostante l’omicidio di Ilardo e nonostante questi avesse portato i carabinieri nella zona in cui Provenzano si nascondeva il padrino e i suoi protettori non cambiarono ne abitudini ne nascondigli. Rimasero a Mezzoiuso e dintorni fino all’arresto di Benedetto Spera nel 2001.
Nessuno andò a disturbarli.
Oggi, 23 maggio 2009, nel ricordo di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro noi italiani tutti abbiamo il dovere di ricordare sempre che abbiamo un debito nei confronti di questi servitori dello Stato: cercare e accertare la verità.
martedì 26 maggio 2009
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