Irene Panozzo
Marocco, Nigeria, Kenya: queste le tappe del viaggio che a fine aprile ha portato il presidente cinese Hu Jintao in Africa. Un viaggio salutato come importante, con soste non casuali, e che segue di pochi mesi quello del ministro degli Esteri di Pechino, Li Zhaoxing, che a metà gennaio aveva visitato Capo Verde, Senegal, Mali, Nigeria, Liberia e Libia. A fare da sfondo, gli accordi di cooperazione di ogni tipo, culturale tanto quanto economica, tecnica, militare e/o medica. Ma con un occhio particolare alle riserve africane di petrolio e gas, quelle già conosciute e quelle ancora da scoprire, necessarie per far mantenere al paese asiatico il rapido passo di una crescita economica in continua espansione.
L’attivismo economico e politico cinese nel continente africano, decollato senza far rumore e con molto pragmatismo una decina di anni fa, è ormai diventato un elemento rilevante e definitivo. Che ha attirato l’attenzione (e le preoccupazioni) del resto del mondo. L’interesse della Cina per l’Africa è “a tutto tondo”, anche se sicuramente la parte del leone nell’attrarre capitali cinesi nel continente l’ha avuta la ricchezza dell’Africa, le sue riserve naturali, energetiche e minerarie, e i suoi mercati di facile penetrazione, su cui riversare i manufatti cinesi, di buona tecnologia ma di poco prezzo. E la corsa cinese al petrolio africano non sembra arrestarsi, anzi. Tra gli appuntamenti previsti durante la visita di Hu Jintao in Nigeria, dieci giorni fa, c’era anche la formalizzazione dell’acquisizione da parte della China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) del 45% della concessione di proprietà della South Atlantic Petroleum che comprende importanti giacimenti offshore sia di petrolio che di gas. Un accordo da più di due miliardi di dollari, che era stato firmato, guarda caso, lo scorso gennaio, in coincidenza con la visita nel paese del ministro degli Esteri Zhaoxing, e che per poter diventare ufficiale attendeva solo il beneplacito delle autorità nigeriane.
L’accordo firmato dalla Cnooc per il petrolio nigeriano ha aggiunto un tassello importante al mosaico della presenza cinese nel settore petrolifero africano. La Nigeria, con circa due milioni e mezzo di barili prodotti quotidianamente, è il maggior produttore del continente e il sesto esportatore mondiale, nonché membro dell’Opec e quinto fornitore di greggio degli Stati Uniti. Che hanno la dichiarata intenzione di usare il petrolio africano per arrivare, entro il 2015, a coprire il 25% del fabbisogno complessivo interno, facendo soprattutto uso del petrolio del Golfo di Guinea. Quello nigeriano quindi, ma anche quello della Guinea Equatoriale e dell’Angola, secondo produttore petrolifero del continente.
Non sorprende quindi che la penetrazione cinese possa dare fastidio e creare degli allarmi. Anche se il fabbisogno petrolifero statunitense rimane molto più alto di quello cinese, quest’ultimo è in continua e rapida crescita. E Pechino usa ogni strumento a sua disposizione per assicurarsi nuove fonti di approvvigionamento. È quel che è successo negli ultimi anni con l’Angola, paese escluso dall’assistenza delle istituzioni finanziarie internazionali e dai crediti dei principali paesi donatori per l’alto indebitamento e la totale mancanza di trasparenza. Elementi non rilevanti per la Cina, che ha colmato il vuoto lasciato dai donatori internazionali garantendo al governo angolano una linea di credito di più di due miliardi di dollari. Da ripagare con forniture dirette di greggio, che nei primi mesi del 2006 hanno raggiunto la quota di quasi 500mila barili al giorno, una cifra che da sola basta a coprire il 15% del fabbisogno giornaliero cinese. L’Angola è così diventata il principale fornitore di greggio di Pechino, superando il Sudan, che aveva finora detenuto il record in Africa, ma anche Iraq e Arabia Saudita.
L’attenzione riservata agli altri paesi non ha comunque impedito alla Cina di continuare a tenere saldo il controllo di buona parte del petrolio sudanese. Il Sudan è una sorta di figlio primogenito, lo stato in cui Pechino ha messo a punto e ha verificato sul terreno la sua strategia di penetrazione nel continente. Il fatto che le compagnie cinesi non debbano rispondere delle loro azioni e del loro eventuale coinvolgimento in situazioni di guerra e di gravi violazioni dei diritti umani a un’opinione pubblica sensibile a questi temi ha sicuramente favorito la stretta collaborazione che si è creata tra Pechino e Khartoum. Il Sudan rimane quindi l’esempio a cui fare riferimento anche per quei governi, e non sono pochi, che preferiscono non dover sottostare a richieste politiche e a controlli troppo pressanti. Inoltre, dal punto di vista strettamente geografico, il Sudan offre un ottimo punto di partenza per allargare la sfera d’influenza e d’azione ai paesi confinanti, paesi dove il petrolio è ancora tutto (o quasi) da scoprire. Le tre principali compagnie petrolifere di stato cinesi, la Cnpc, la Cnooc e la Sinopec, si stanno ritagliando sempre più spazio nell’acquisizione di diritti per l’esplorazione e lo sfruttamento del greggio di questa regione dell’Africa. Mentre la Cnpc è impegnata in prospezioni nel Ciad sud-orientale e nell’Etiopia occidentale (entrambe, guarda caso, zone di confine con il gigante sudanese, nel cui settore petrolifero la Cnpc fa la parte del leone), la Cnooc ha concluso un accordo con il Kenya per la prospezione e l’eventuale trivellamento di uno dei tanti blocchi lungo la costa.
Il coinvolgimento della Cnpc da entrambe le parti del confine tra Sudan e Ciad potrebbe avere un ruolo importante anche nella crescente instabilità che dal Darfur, regione sudanese al confine con il vicino occidentale, si sta progressivamente espandendo all’ex colonia francese. Secondo alcune fonti, Pechino avrebbe garantito assistenza ai ribelli ciadiani che nelle settimane scorse sono arrivati fino alla capitale ‘Ndjamena. In cambio, forse, di un’assicurazione per il futuro: i diritti per lo sfruttamento del sottosuolo della regione da cui provengono, quella al confine con il Darfur.
mercoledì 27 maggio 2009
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