mercoledì 27 maggio 2009

L'Italia e la crisi

1. Com'è noto, la crisi economica che l'Italia sta iniziando a vivere e che la condurrà, secondo le previsioni, a un biennio di crescita negativa, diventando in tal modo la più lunga recessione del secondo dopoguerra, è stata innescata da una crisi finanziaria nata negli Stati Uniti e propagatasi nel resto del mondo. Negli ultimi 60 anni in Italia vi sono stati solo 2 anni con una crescita negativa, il primo nel 1975 (-3,5%) e il secondo nel 1993 (-1,2%), mentre nel 2003 la crescita è stata nulla. Le previsioni per il 2008 sono di almeno mezzo punto sotto lo zero, mentre per il 2009 organismi internazionali come l'OCSE e la BCE prevedono una crescita negativa attorno al punto e mezzo percentuale.

2. Sempre nel dopoguerra, la crescita media annua dell'economia italiana è gradualmente calata lungo i decenni (una cosa normale, condivisa con le altre economie europee) passando dal 5-6% degli anni 50 e 60, al 3,5% degli anni 70, al 2,2% degli anni 80, all'1,5% degli anni novanta, iniziando in tale decennio a divenire inferiore a quella media europea (2%), e allo 0,9% di questi primi otto anni del nuovo millennio. Ciò fa pensare che la crescita potenziale dell'economia italiana sia ormai pari all'1% se non più bassa, con un divario crescente rispetto a quella media europea, la qual cosa facilita il rapido passaggio ad una crescita negativa appena qualcosa non va. Se le previsioni che ho ricordato si avvereranno la crescita media del decennio risulterà vicina allo 0,7%, la metà di quella avutasi negli anni 90 del secolo scorso e più o meno la metà di quella media europea di quest'ultimo decennio.

3. Per quanto riguarda la crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti il ministro del tesoro americano Paulson ha dichiarato che cose così se ne vedono una ogni secolo. Se consideriamo che il capitalismo industriale ha un po' più di due secoli di vita e che nel primo secolo le crisi finanziarie, che pur hanno costellato il suo sviluppo, non possono essere paragonate per profondità ed ampiezza a quella attuale, possiamo tranquillamente dire che questa è la più grande crisi finanziaria del capitalismo. C'è da sperare che non determini anche la più grande crisi economica, superando quella della Grande Depressione degli anni '30, quando negli Stati Uniti la disoccupazione è gradualmente salita dal 3% del 1929 a più del 25% nel 1933, con una contrazione del PIL reale del 30% e degli investimenti del 90%. Dopo il 1933 il tasso di disoccupazione è poi rimasto mediamente superiore al 18% fino al 1939.

4. Le prime avvisaglie della crisi finanziaria si sono avute nell'estate del 2007, quando negli Stati Uniti, in misura crescente, in connessione con la riduzione dei prezzi degli immobili, sono iniziate a diffondersi le insolvenze nel pagamento delle rate dei mutui ipotecari subprime, mutui concessi anche a fronte di capacità di rimborso dubbie, il che aveva ovviamente favorito l'estensione della concessione dei mutui. Se non si ripaga un debito, il debito scompare e con esso il relativo credito posseduto da qualcun altro. Questo qualcun altro può essere messo in difficoltà da questa insolvenza e a sua volta può non ripagare un suo debito e così via. Per questo motivo, data l'interrelazione debitori/creditori su cui il sistema finanziario si fonda, insolvenze consistenti in un punto possono provocare una generalizzazione di insolvenze a livello sistemico.

5. In questo caso l'effetto propagazione lo si è avuto anche perché i mutui dati localmente negli Stati Uniti sono stati impacchettati in titoli di credito commerciabili sul mercato, con tanto di valutazione da parte delle società di rating - indubbiamente un po' troppo compiacenti o distratte - e venduti in tutto il mondo (un po' come hanno fatto le banche italiane nel 2000 impacchettando i loro crediti verso la CIRIO in nuovi titoli commercializzabili e senza rating). Questo meccanismo sollevava gli enti erogatori dei mutui da qualsiasi rischio insolvenza che era sopportato dagli acquirenti dei titoli - un meccanismo che a sua volta incentivava la concessione di mutui a chicchessia. Parte di questi titoli sono stati acquistati da privati ma una parte ingente era posseduta anche dalle banche - di qui l'inizio delle difficoltà del sistema finanziario internazionale. Gli individui e le banche di tutto il mondo hanno così finanziato gli acquirenti di case negli Stati Uniti e una parte cospicua dei loro crediti è andata persa. Questo processo ha iniziato a generare incertezza sui mercati ripercuotendosi negativamente, oltre che sulle previsioni future, sul valore delle azioni e sulla crescita mondiale già a partire dalla fine del 2007

6. Così in poco tempo è potuto capitare l'inimmaginabile. In un anno a livello mondiale il valore delle azioni è mediamente crollato del 50%, con punte del 70-80% su alcuni titoli, le più grandi banche e assicurazioni degli Stati Uniti e del mondo sono state salvate dall'intervento dello stato o da altre istituzioni, tranne la banca d'affari Lehman Brothers il cui fallimento credo sia stato il segnale dell'estrema gravità di quel che stava succedendo divenendo esso stesso un acceleratore della crisi. Il panico si è diffuso anche tra i semplici depositanti che, alla ricerca di un porto sicuro per i loro risparmi, hanno accresciuto la quota detenuta di titoli pubblici. In Italia vi è stata anche una consistente migrazione di fondi dalle banche agli uffici postali e le grandi banche hanno messo in vendita il loro patrimonio immobiliare per aumentare il loro grado di patrimonializzazione.

7. I canali attraverso cui una crisi finanziaria diventa crisi economica sono molteplici. C'è il cosiddetto effetto ricchezza, vale a dire l'effetto sulla spesa per consumi dovuto alla drastica diminuzione del valore di mercato delle azioni (la ricchezza finanziaria percepita ) e in questo caso anche delle obbligazioni bancarie. Ci sono l'aumento dell'incertezza e il peggioramento delle aspettative che, uniti alla riduzione dei consumi, portano dopo un po' di tempo alla contrazione della spesa per investimenti. In questo caso l'incertezza è risultata accresciuta perché non si sapeva, e non si sa ancora ora, a quanto ammontavano e ammontano le perdite delle varie banche - anche a causa dell'estrema diffusione di investimenti speculativi finanziari da parte delle banche sui mercati dei derivati. Le grandi difficoltà finanziarie del sistema bancario, impegnate ad evitare il rischio di insolvenza, possono tradursi in una limitazione del credito alle imprese che riduce le loro possibilità operative. La riduzione generalizzata della fiducia e della spesa provoca il calo dell'attività economica a cui segue l'aumento della disoccupazione e la contrazione dei redditi da lavoro, generando un processo cumulativo recessivo (minor spesa, minor produzione, minor occupazione, minor spesa e così via).

8. Gli aiuti alle banche e all'economia da parte degli Stati tramite ingenti stanziamenti di fondi (per far fronte alle enormi perdite stimate dal FMI attorno ai 2.800 miliardi di euro - ma probabilmente l'ammontare è maggiore) e un complesso di misure, come l'aumento della garanzie pubbliche sui depositi bancari, le promesse di assistenza in caso di problemi di insolvenza e vere e proprie iniezioni dirette di denaro (per rimanere in Europa, si considerino i 10 miliardi dati dal governo olandese all'Ing Direct, la banca del conto Arancio, salvataggi che non si limitano al solo mondo della finanza ma coinvolgono anche altri settori, come l'industria automobilistica USA), la rapida riduzione dei tassi di sconto, giunto quasi a zero negli Stati Uniti, e le eccezionali iniezioni di liquidità effettuate dalle banche centrali a favore del sistema finanziario sono le misure che hanno cercato e cercano di evitare il fatto che la più grande crisi finanziaria del capitalismo possa diventare anche la più grande crisi economica del capitalismo.

9. Negli Stati Uniti la Grande Depressione si è infatti approfondita anche perché molte banche sono state lasciate fallire da una politica monetaria inappropriata, che ha così consentito, con il fallimento delle banche, la distruzione a catena di potere d'acquisto delle famiglie e di capacità di credito del sistema bancario. E' stata anche amplificata da politiche di bilancio sbagliate, come nel 1932, quando il presidente Hoover ha aumentato le tasse pensando che la causa della crisi del settore privato fosse il disavanzo pubblico, con l'effetto di ridurre ulteriormente la capacità di spesa dell'economia. Da allora si è capito che, se possibile, in questi frangenti occorre fare sia politiche monetarie che politiche di bilancio fortemente espansive per sostituire e incentivare la spesa privata che si sta contraendo causando effetti deleteri sull'occupazione. Quindi le politiche che si stanno attuando derivano dalla lezione della Grande Depressione. Per quanto riguarda l'eurozona, vi sono state l'attenuazione del Patto di Stabilità per permettere politiche di bilancio più espansive e la politica monetaria espansiva della BCE (che senz'altro continuerà a gennaio).

10. Questo tipo di politiche, di forte stimolo della spesa e di iniezioni di liquidità fino a quando è necessario, sono un atto dovuto. Quali invece le valutazioni di più lungo periodo? Per rispondere credo occorra considerare che se la crisi si è originata dalle insolvenze dei subprime, essa è stata facilitata, se non addirittura causata, da politiche fiscali e monetarie statunitensi troppo espansive nel periodo 2003-2004 le quali hanno portato verso limiti insostenibili gli squilibri interni degli Stati Uniti, politiche in gran parte determinate dalle esigenze del ciclo politico americano e dal finanziamento della guerra in Iraq. E' dall'inizio degli anni '80 che gli Stati Uniti hanno iniziato a consumare più di quanto stavano producendo e quindi hanno importato più di quanto esportavano. Il disavanzo negli scambi con l'estero causa ovviamente un indebitamento generale dell'economia verso l'estero di pari ammontare. L'accumularsi di questo indebitamento annuo ha portato gli Stati Uniti, nel 1988, a diventare, da creditore, debitore netto nei confronti del resto del mondo. Si è così assistito al fatto che per trent'anni l'economia più ricca è stata finanziata dal risparmio mondiale - un fatto contrario a qualsiasi logica economica: il risparmio mondiale non finanzia lo sviluppo dei paesi meno ricchi ma quello del paese più ricco.

11. Negli ultimi anni i disavanzi negli scambi con l'estero statunitensi, già elevati, sono ulteriormente aumentati: tra il 2004 e il 2007 sono stati mediamente del 6% del PIL (equivalenti, agli attuali tassi di cambio, a circa 4.000 miliardi di vecchie lire al giorno), nel 2008 pare sia vicino al 7% e il debito estero sta viaggiando verso il 40% del PIL - dati che sono pari a quelli di un paese indebitato del terzo mondo. Negli Stati Uniti le famiglie sono indebitate con gli intermediari finanziari per 13.500 miliardi di dollari, un ammontare vicino al 100% del PIL americano. Non si può stare su un sentiero di crescita sostenibile continuando ad indebitarsi all'infinito. Prima o poi deve avvenire l'aggiustamento oppure ci si scontrerà con un periodo molto complicato. Tra le altre motivazioni alla radice della crisi non vanno assolutamente dimenticati i ritardi della regolazione sulla continua evoluzione dell'innovazione in campo finanziario, che ha consentito alla finanza un eccesso di comportamenti puramente speculativi, slegati da qualsiasi rapporto con la produzione. Anche l'operato delle agenzie di rating, che hanno valutato titoli troppo rischiosi con una doppia o tripla A, ha aiutato il formarsi della crisi e da ultimo, ma non meno importante, non va dimenticato l'aumento dei divari nella distribuzione del reddito favorito dal processo di globalizzazione, un fatto che ha reso più instabile il processo di sviluppo riducendo il reddito e quindi le capacità di spesa senza indebitamento di una buona parte dei lavoratori.

12. A fronte di questi fatti e considerando le valutazioni di più lungo periodo, non si può che trarre la conclusione che è entrato in crisi, se non addirittura finito, il ciclo neo-liberista affermatosi agli inizi degli anni 80, nato a sua volta dalla crisi del sistema di regolazione keynesiano verificatasi negli anni 70 del secolo scorso, neo-liberismo che così tanto ha influenzato le politiche economiche mondiali. Sono partite da questa ispirazione la spinta verso una forma di stato minimale, con le connesse deregolazioni e liberalizzazioni dei mercati, le privatizzazioni e le flessibilizzazioni del mercato del lavoro. La chiusura di questo ciclo significa che si dovranno definire i lineamenti del nuovo contesto di politica economica dello sviluppo mondiale. Compito non facile, se si pensa che occorre definirlo non riferito a economie chiuse, ma rapportarlo ad economie aperte globalizzate e che su alcune questioni da affrontare, come la necessaria regolamentazione e vigilanza prudenziale dei mercati finanziari, non vi è per ora una sufficiente convergenza teorica tra gli studiosi. Appare in ogni caso tramontata l'idea che il mercato sia sempre in grado di autoequilibrarsi, mantenendo un livello di occupazione accettabile senza l'aiuto e la partecipazione dello stato. Se fosse stato assente lo stato, come pure le pronte risposte della politica monetaria, la crisi avrebbe assunto dimensioni spaventose. Stato e mercato sono istituzioni complementari entrambe necessarie per governare la complessità dei processi economico sociali capitalistici avanzati. Lo stato può orientare la produzione verso obiettivi socialmente ed economicamente desiderabili a fronte di evidenze oggettive (come la riconversione energetica), lo stato può ripristinare un'accettabile equità economico sociale che quasi ovunque si è persa o si sta perdendo e che funge da stabilizzatrice del processo economico.

13. Se ora, per concludere, ritorniamo al nostro paese e guardiamo più da vicino l'Italia, i dati economici nazionali e anche quelli piemontesi ci rimandano ad una realtà che è stata descritta in via generale all'inizio. Le indagini sulle aspettative e sulla fiducia compiuti dall'ISAE testimoniano il progressivo deterioramento della situazione economica corrente ed attesa in tutti i settori: soprattutto nell'industria, ma anche nelle costruzioni, nei servizi, nel commercio e tra i consumatori. In particolare l'indice di fiducia delle imprese manifatturiere è prossimo a quello del 1993. Unioncamere ha rilevato come dal terzo trimestre di quest'anno in tutti i comparti produttivi piemontesi sia in atto una seria contrazione della produzione, con prospettive di netto peggioramento nel futuro. La cassa integrazione e le richieste di cassa integrazione stanno aumentando e molti contratti a tempo determinato non saranno rinnovati. La sfiducia inizia a divenire palpabile.

14. A livello di politica economica l'Unione Europea ha invitato gli stati a creare stimoli - vale a dire più spese - per l'economia, tramite politiche fiscali espansive, pari all'1,2% del PIL europeo, a cui avrebbe aggiunto un ulteriore stimolo dello 0,3% tramite i finanziamenti della BEI. Le politiche monetarie espansive possono essere utili per salvare le banche e per ridurre il costo del credito - ma in frangenti come questo, in cui l'incertezza è elevata e le aspettative sono volte al peggio, la riduzione del costo del denaro può essere inefficace per convincere le imprese a indebitarsi per effettuare nuovi investimenti produttivi. E' quindi indispensabile intervenire con la politica di bilancio che può influire sulla spesa aggregata con più certezza. Finora l'invito dell'Unione Europea è stato raccolto solo in parte. Sono stati previsti, da parte di 18 stati, stimoli per circa lo 0,8% del PIL. Su questo terreno la politica del governo italiano non ha fatto grandi cose - anzi ha praticamente fatto nulla - e il suo comportamento può essere definito come attendista. Il cosiddetto "decreto anticrisi" approvato da poco è, come impatto macroeconomico, irrilevante, ed è passato progressivamente dai famosi 80 miliardi promessi da Tremonti il 16 novembre a zero. I calcoli della commissione Bilancio della Camera mostrano infatti che il decreto si risolve in un aumento della spesa pubblica di 3 miliardi ed in aumento delle entrate di 3,4 miliardi - in pratica un effetto prociclico. E' vero che grava sulla politica di bilancio il debito pubblico accumulato nel passato, che limita oggettivamente la possibilità di attuare politiche di bilancio espansive di un certo peso che potrebbero creare disavanzi eccessivi, ma sarebbe grave se questo attendismo, anziché essere determinato da considerazioni comunque legate all'interesse generale, mascherasse invece mere considerazioni dettate da interessi di parte in un momento in cui è assolutamente necessario ripristinare al più presto la fiducia delle imprese e dei cittadini, base necessaria affinchè la situazione economica non corra il rischio di diventare ancor più pesante di quel che dicono attualmente le previsioni.


17.12.2008 Piero Garbero

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