di Sandra Bonsanti, 06-04-2009
Sono passati due mesi dalla pubblicazione su “Repubblica” del manifesto “Rompiamo il silenzio”, che portava come prima firma quella di Gustavo Zagrebelsky, presidente onorario di Libertà e Giustizia. In poche ore sul sito di LeG e su quello di Repubblica.it più di 200.000 cittadini italiani si riconobbero in quello scritto e vollero sottoscriverlo. La denuncia contenuta in quel manifesto è arrivata oltre confine. Lo storico Paul Ginsborg lo ha presentato alla New York University, il circolo di Libertà e Giustizia di Londra lo ha tradotto in inglese e presto sarà illustrato anche là.
Le ultime cinquecento firme sono quelle di cittadini che partecipavano alla manifestazione della CGIL al Circo Massimo e si sono fermati al tavolino portato dai soci del circolo romano di LeG che hanno fatto un gran lavoro.
La raccolta di firme non si è interrotta. Quel testo rimane la più decisa e accorata radiografia di un’epoca, quella che stiamo vivendo, così caratterizzata da una sorta di storica preoccupazione per i segni premonitori di una nuova “incipiente legittimità”, un declino culturale, politico, economico e soprattutto istituzionale.
Quel testo rimarrà, io credo, nelle pagine di una storia che onestamente racconti gli anni di Berlusconi e di una opposizione che non fu all’altezza del compito. Sono fiera del lavoro compiuto e sono ancora grata a Zagrebelsky per averci creduto e averci messo l’impegno dello studioso e dell’uomo libero.
Ho passato questo tempo a presentare il manifesto in diverse città. E ancora in altre andremo, perché il senso di quella denuncia è tuttora vitale e purtroppo semmai sempre più attuale. Ho cercato di ascoltare le cose che ci venivano dette. Perché le persone che sono venute agli incontri, soci vecchi, soci nuovi e molti amici, tutti loro avevano qualcosa da dire e molto da offrire: fra l’altro rispondevano all’appello contenuto nel manifesto di aiutarci a “promuovere la cultura politica, il pensiero critico, una rete di relazioni tra persone ugualmente interessate alla convivenza civile e all’attività politica, nel segno dei valori costituzionali”.
Questa rete sta nascendo. Senza impazienze, ma con la certezza che il tempo è ora e non sono permesse distrazioni.
Gli attacchi alla nostra libertà sono continui. Si discute molto se essi lascino il tempo che trovano (si debba cioè far finta di non sentirli) oppure come noi sosteniamo se si debba insistere a rompere il silenzio. Capita di esser definiti “vecchi”, oppure accusati di appartenere a un ceto intellettuale che si occupa di cose che non interessano a nessuno. Sappiamo che questo non è vero e che la nostra denuncia si inserisce in una insoddisfazione generale che appartiene anche ai più giovani: coloro per i quali la parola “giustizia” significa prima di tutto, oggi, la possibilità di trovare un lavoro. Un’Italia giusta e libera è quella che fa di tutto per poter assicurare alle nuove generazioni l’opportunità di scegliersi un futuro, la possibilità di seguire una vocazione. Di inseguire un dignitoso sogno di vita.
Scriveva Norberto Bobbio citando Calamandrei: “Il punto di arrivo è sconfiggere la miseria, perché la miseria esaspera i nazionalismi, incoraggia le avventure, soprattutto suggerisce la sfiducia nella inutile libertà…..Solo dove la democrazia ha saputo vincere la miseria, il popolo ha fiducia nelle istituzioni democratiche ed è pronto a difenderle a costo della vita”.
“Inutile libertà”. Pensiamoci, c’è molto di profondo e di definitivo in questa espressione.
Si dice e si scrive molto in questi giorni sulla differenza tra destra e sinistra rispetto al concetto di leader: l’uomo forte al comando piace a destra, a sinistra si è fatti in un altro modo, siamo più democratici, si sente dire. Credo che la spina nel fianco della sinistra sia proprio una incapacità ad accettare la leadership, una volta eletta. Il meccanismo di nomina del segretario del partito, ad esempio, può anche essere caratterizzato da “democrazia”. Ma subito dopo la scelta, qualcuno comincia a ritenere di doversi smarcare, per poter ribadire una sua “libertà”, libertà di dire qualcosa di diverso, di “suo”. Qualcosa che alla fine sia una sorta di messaggio: “giù le mani dal gruzzolo”, inteso come potere politico e forse anche finanziario.
La inutile libertà non solo non contribuisce a alleviare la miseria del paese, ma annaffia le radici della malapianta che in questi tempi lo assale.
Molti di coloro a cui presentiamo il manifesto ci dicono di aver perso la speranza che l’opposizione in Italia possa cambiare: essere più ferma, più competente e anche più generosa. Non si sa cosa accadrà al partito democratico dopo le Europee, non si sa se il congresso servirà a riunire o a ridividere ancora nell’eterno gioco che è anche la maledizione della sinistra.
La “inutile libertà” di Bobbio e Calamandrei potrebbe insegnare qualcosa, se ci fosse qualcuno desideroso di ascoltare.
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