mercoledì 19 agosto 2009

Intervista al magistrato antimafia Pennisi

Scritto da Paolo Pollchieni (www.calabriaora.it)
Martedì 18 Agosto 2009 12:37

"Dubito che le 'ndrine sapessero delle stragi"

Pennisi, in un’intervista esclusiva, ricostruisce le indagini

Roberto Pennisi oggi lavora alla Procura nazionale antimafia e si occupa, in particolare, delle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia. Oltre otto anni, però, li ha trascorsi nella trincea reggina coordinando le maggiori inchieste di quella Direzione distrettuale antimafia sulle cosche della Locride e sui “casati” più importanti della ‘ndrangheta calabrese: dai Piromalli di GioiaTauro ai Nirta di San Luca.
In questa intervista in esclusiva a Calabria Ora, Pennisi non solo ricostruisce le sue indagini, ereditate da Paolo Borsellino, sulle sinergie tra i corleonesi e i boss di San Luca, ma traccia anche un profilo inedito del superpentito Vincenzo Calcara che a quelle sinergie criminali era stato delegato dal boss Francesco Messina Denaro. Con molti inediti ed anche con qualche imbarazzante riflessione sul coordinamento mancato tra gli inquirenti di Palermo e quelli di Reggio Calabria.

Dottor Pennisi, lei ha quindi conosciuto bene Vincenzo Calcara?
«Direi benissimo. L’ho incontrato decine e decine di volte ed ho raccolto a verbale le sue dichiarazioni. Le rivelo anche un dettaglio simpatico. Alla fine si era creato un rapporto talmente forte che Calcara tenne a farmi sapere di avere chiamato Roberta la bambina avuta dopo che si era pentito...»

Scusi, pentito o collaboratore di giustizia, so che lei fa una opportuna distinzione tra le due qualifiche...
«Esatto. E per Calcara uso la parola pentito perché era realmente e profondamente pentito del suo passato criminale. Per Paolo Borsellino aveva una adorazione autentica. Non nascose nulla di quanto a sua conoscenza, a noi riferì sempre tutto, molte cose però non erano riscontrabili anche se le ritengo assolutamente credibili… »
Si sta riferendo, ad esempio, agli incontri romani con cardinali, esponenti politici e boss di Palermo e San Luca?
«Certo mi riferisco anche a questo. Calcara tracciava uno scenario inquietante ma non aveva la possibilità di offrire grossi riscontri e comunque quella indagine non era di mia competenza ed io ho sempre rispettato i limiti della competenza. Sicuramente la strage che ha ucciso Borsellino ha anche bloccato molto di quel lavoro investigativo».
Come arrivò a Calcara?
«Ecco, nel modo più singolare. Ero in Sicilia e lessi su un giornale locale di un dibattimento nel corso del quale Vincenzo Calcara aveva riferito di suoi viaggi a San Luca per portare droga e ritirare armi ed esplosivo. Nessuno ci aveva informato dell’ esistenza di quei verbali. Borsellino non c’era più ed i colleghi palermitani non ritennero di dirci nulla. Allora chiamai io alla Procura di Palermo per chiedere lumi. Fu il collega Gioacchino Natoli a dirmi che effettivamente tra le carte di Borsellino c’erano queste dichiarazioni di Vincenzo Calcara. La cosa non deve meravigliare, purtroppo tra chi indagava su Cosanostra e chi indagava sulla’ndrangheta, non vi è stata mai una grande collaborazione...».
Ci sta dicendo una cosa sconfortante...
«Non mi faccia esprimere giudizi in merito, le sto dicendo una cosa vera poi ognuno ne tragga i commenti che ritiene».
Torniamo a Calcara, cosa fece a quel punto?
«La cosa più semplice, andai a sentire Calcara che già era sotto protezione in una località segreta. Questi collaborò totalmente e pienamente. La sua fu una collaborazione preziosa. Disse dei suoi viaggi a San Luca e di riunioni presiedute dai fratelli Giuseppe e Francesco Nirta, come dire il vertice della ‘ndrangheta calabrese. Fornì dettagli che ressero ad ogni verifica e ricordo che venne direttamente in aula a deporre».
Stiamo parlando del processo “Aspromonte”, quello a carico delle più antiche ed importanti famiglie della ‘ndrangheta...
«Esattamente. Si celebrò a Locri e Calcara venne in aula a deporre. Mi resi subito conto che c’era un grande nervosismo ed una grande attenzione nella difesa. Se qui qualcuno aveva sottovalutato Calcara a Palermo le cosche erano in grande allarme. Ricordo che la difesa si mobilitò in maniera tale da creare stupore anche in me che solitamente non mi stupisco di niente. Gli avvocati erano fornitissimi di documenti che arrivavano dai loro colleghi di Palermo, capii subito che essendo una delle prime apparizioni in dibattimento di quel pentito si sperava di approfittare di un processo periferico, come appunto quello di Locri, per ottenerne una sentenza che ne minasse la credibilità. Era questa una strategia usatissima dalle difese, in quell’epoca di primo pentitismo».
Come andò?
«Malissimo... per loro. Calcara resse benissimo all’esame e dal controesame mentre i testi portati dalla difesa per confutarne le dichiarazioni si rivelarono una vera e propria debacle. Ricordo un episodio in particolare che ancora mi fa ridere...»

E qui l’intervista ha una pausa perché Pennisi ripensando all’episodio, ride ancora e di gran gusto. Lo interrompiamo.

Faccia ridere anche noi e ci racconti l’episodio...
«Subito. Le difese chiesero ed ottennero la convocazione di un avvocaticchio del quale ora non ricordo più il nome, era di Campobello di Mazzara e si trovava agli arresti per mafia perché si era rivelato una sorta di consiglieridel boss Matteo Messina Denaro. Doveva essere l’asso nella manica per screditare Vincenzo Calcara ma durante il mio controesame crollò. Io mi lasciai andare ad una battuta che lo ridicolizzò perché tra le carte del suo arresto c’erano anche i suoi bigliettinni da visita dove ricordo che insieme a nome, qualifica ed indirizzo aveva fatto stampare il motto”Il silenzio è d’oro”. Non mi trattenni dal fargli notare, visto l’autogol del suo interrogatorio, che forse avrebbe fatto meglio ad essere più coerente con il motto che aveva scelto».
Non posso che condividere, fa ridere ancora un episodio del genere. Calcara quindi restò assolutamente credibile...
«Infatti la sentenza del processo “Aspromonte” dispenserà condanne che hanno retto anche ai successivi gradi di giudizio e utilizzò moltissimo le dichiarazioni rese da Vincenzo Calcara».
Questo autorizza a ritenere che la ‘ndrangheta fornì collaborazione per le stragi di Cosa nostra?
«Qui sarei più cauto. Processualmente abbiamo accertato che la ‘ndrangheta, e segnatamente le cosche di San Luca, hanno fornito armi pesanti ed esplosivi a Cosa nostra. Personalmente dubito fortemente che i boss di San Luca fossero a conoscenza della scelta stragista dei corleonesi. Le dirò di più, spingo il mio dubbio fino a ritenere che se avessero saputo che quell’esplosivo serviva per quelle stragi non lo avrebbero fornito. Questo non perché sia buonista, bensì perché le nostre indagini hanno accertato che la ‘ndrangheta è sempre stata fortemente contraria all’opzione stragista dei corleonesi. La ritenevano una follia ed un rischio per tutti. Sfidare lo Stato a colpi di stragi era un rischio da non correre e portava conseguenze nefaste su tutta la criminalità organizzata».
Si potrebbe opporre, però, che la ‘ndrangheta non ha esitato a dare una mano in pagine assai buie della storia di questo Paese...
«Verissimo. Troviamo presenze della ‘ndrangheta, della stessa ‘ndrangheta di San Luca, nelle cosiddette stragi di Stato. Non dimentichiamo che si parla della presenza di Antonio Nirta in via Fani nella strage della scorta di Aldo Moro. Ma non è la stessa cosa, qui l’iniziativa non era in sinergia con pezzi deviati dello Stato. Qui Cosa nostra attaccava in proprio e la ’ndrangheta ne era strategicamente contraria. Non avrebbe mai dato il suo avallo».
Scusi se continuo a fare da bastian contrario, ma possibile che davanti a richieste ingenti di armi ed esplosivi i boss della ‘ndrangheta non sospettassero nulla?
«La domanda è comprensibile ma non tiene conto di un fatto: da sempre le cosche della ‘ndrangheta hanno avuto il controllo del traffico internazionale di armi ed esplosivo. Era merce di scambio per i traffici di droga. Hanno armato organizzazioni terroristiche e mafiose ricevendo in cambio droga ed altri favori. Le riferisco un altro episodio che chiarisce questo ruolo della’ndrangheta. In una delle nostre inchieste ci siamo imbattuti in un pilota austriaco, tale Hinsinski, che ammise di avere portato carichi di armi e di esplosivo fin nel cuore della Locride. Ci riferì che le cosche, siamo alla fine degli anni Ottanta, avevano allestito nel territorio di Samo (tra Bovalino e Bianco, ndr) una piccola pista di atterraggio dove questo pilota atterrò lasciando un carico di armi e di esplosivi. Questo significa controllare il territorio. Insomma chiunque aveva bisogno di ricorrere al mercato clandestino per armi ed esplosivi sapeva che poteva ottenerli rivolgendosi alla ‘ndrangheta».

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