Un saluto a tutti i lettori.
Questo è l'ultimo post in questo blog. Ho ricevuto molti complimenti per la gestione di GL!, molti mi hanno esortato a continuare, molti trovavano interessanti gli argomenti che qui venivano proposti.
Purtroppo però il tempo necessario alla gestione di GL! non era poco e senza aiuti era difficile poter gestire il tutto.
Per questo motivo ho deciso di chiudere questo blog, a meno che qualcuno non si faccia avanti con l'intenzione di gestirlo in prima persona. La mail la sapete, giustizia_e_liberta@tiscali.it, basta scrivere li e mettersi d'accordo.
Io dunque lascio, per mancanza di tempo, anche se non mollo. Ho intenzione infatti di aprire un alro blog, questa volta su "Il Cannocchiale", il quale però sarà solo un blog di opinione e ci scriverò quando avrò tempo, evitando di riportare anche ciò che trovo di interessante sulla rete come facevo qui.
Vi saluto tutti e spero di ritrovarvi su "Il Cannocchiale". A presto!
lunedì 19 ottobre 2009
Anche le Iene non ridono più
di Peter Gomez
C’erano una volta le Iene, un gruppo di ragazzacci che osava ridere in faccia a Berlusconi, mostrare il razzismo della Lega e sbeffeggiare le leggi ad personam. C’erano, ma non ci sono più.
Oggi la trasmissione diretta da Davide Parenti, coautore con Antonio Ricci degli show-cult degli anni 80, è solo l’ombra del suo passato. È in crisi di ascolti, di creatività.
E, quel che è peggio, è costretta a fermarsi persino davanti a onorevoli di seconda fila, come Gabriella Carlucci.
È successo martedì scorso quando, dopo una serie di telefonate con i vertici Mediaset, non è andato in onda un servizio che raccontava come l’ex conduttrice fosse stata condannata a pagare 10 mila euro di stipendio arretrato alla sua portaborse parlamentare. Stessa sorte era toccata, un mese fa, a un pezzo sull’immigrazione che metteva in imbarazzo il ministro Roberto Maroni.
Per questo, Fedele Confalonieri e Silvio Berlusconi, che fino a ieri citavano le Iene e Enrico Mentana come la prova della libertà di mediaset, oggi parlano d’altro. Le foglie di fico non servono più. Il regime non si nasconde per farsi accettare, ma in televisione mostra il volto peggiore per far paura. I tempi, insomma, sono cambiati. Anche nel 2001 il premier era sotto processo per corruzione. Anche allora c’era un giornalista che pedinava un magistrato considerato nemico del gruppo.
Era la Iena Alessandro Sortino. Ma non seguiva Ilda Boccassini, per mostrare le sue calze o per insinuare che fosse “strana”. Lo faceva per dimostrare che era indifesa e per criticare la scelta del Governo di togliere la scorta a un pm antimafia che aveva osato mettersi contro Berlusconi.
Cose di un altro mondo. Allora i vertici mediaset tolleravano che il solito Sortino inchiodasse il senatore Cirami all’omonima legge ad personam o il ministro Lunardi al suo conflitto d’interessi. Adesso è più probabile vedere una Iena sulla luna che davanti al ministro Angelino Alfano per parlare del suo Lodo. Anche allora Berlusconi inondava l’Italia di propaganda, ma il Trio Medusa osava chiedergli conto del celebre “Presidente operaio”, per poi ridergli in faccia. Anche allora l’onorevole Carlucci ebbe un corpo a corpo con il Trio. Ma quello andò in onda.
Come si è arrivati a questo punto? Per capirlo bisogna ricostruire l’escalation delle censure, partendo dalla prima. Quella subita dal programma nel 2001, quando Marco Tronchetti Provera, per fare un favore a Berlusconi, soffoca nella culla “La 7” che minaccia di danneggiare gli ascolti di Mediaset. Le Iene riprendono Tronchetti mentre balbetta improbabile giustificazioni. Il pezzo però viene fermato. In redazione si mugugna, ma si decide di lasciar correre. Così la situazione peggiora. Tanto che, quattro anni dopo, si arriva a una silenziosa protesta. Quando a essere bloccato è un servizio su Francesco Storace, le Iene si riuniscono a Roma e stipulano una sorta di patto: non diciamo niente, ma questa è l’ultima censura. Era invece l’’inizio della fine.
Oggi il Trio Medusa e Sortino non ci sono più. Alla Iena rossa, nel 2007, i vertici Mediaset avevano cancellato un servizio su Mastella e lui se ne è andato. Confalonieri, infatti, non ha voluto sentir ragioni nonostante che proprio Sortino fosse stato diffamato dal figlio di Mastella con false insinuazioni sulla sua carriera. A Segrate, del resto, Mastella è un intoccabile. Lo sa anche Enrico Lucci che, già prima di Sortino, ha dovuto ingoiare la censura di un pezzo sul medesimo politico. Il perché lo dice la cronaca. Mastella in quei mesi stoppa la legge Gentiloni sulle tv e poi fa cadere il governo Prodi. Una scelta politica, ovviamente. La decisione di un uomo, oggi eurodeputato Pdl, che dice con orgoglio: “Confalonieri? È uno dei miei migliori amici”. E chi trova un amico (di Confalonieri) trova un tesoro. Anche alle Iene.
C’erano una volta le Iene, un gruppo di ragazzacci che osava ridere in faccia a Berlusconi, mostrare il razzismo della Lega e sbeffeggiare le leggi ad personam. C’erano, ma non ci sono più.
Oggi la trasmissione diretta da Davide Parenti, coautore con Antonio Ricci degli show-cult degli anni 80, è solo l’ombra del suo passato. È in crisi di ascolti, di creatività.
E, quel che è peggio, è costretta a fermarsi persino davanti a onorevoli di seconda fila, come Gabriella Carlucci.
È successo martedì scorso quando, dopo una serie di telefonate con i vertici Mediaset, non è andato in onda un servizio che raccontava come l’ex conduttrice fosse stata condannata a pagare 10 mila euro di stipendio arretrato alla sua portaborse parlamentare. Stessa sorte era toccata, un mese fa, a un pezzo sull’immigrazione che metteva in imbarazzo il ministro Roberto Maroni.
Per questo, Fedele Confalonieri e Silvio Berlusconi, che fino a ieri citavano le Iene e Enrico Mentana come la prova della libertà di mediaset, oggi parlano d’altro. Le foglie di fico non servono più. Il regime non si nasconde per farsi accettare, ma in televisione mostra il volto peggiore per far paura. I tempi, insomma, sono cambiati. Anche nel 2001 il premier era sotto processo per corruzione. Anche allora c’era un giornalista che pedinava un magistrato considerato nemico del gruppo.
Era la Iena Alessandro Sortino. Ma non seguiva Ilda Boccassini, per mostrare le sue calze o per insinuare che fosse “strana”. Lo faceva per dimostrare che era indifesa e per criticare la scelta del Governo di togliere la scorta a un pm antimafia che aveva osato mettersi contro Berlusconi.
Cose di un altro mondo. Allora i vertici mediaset tolleravano che il solito Sortino inchiodasse il senatore Cirami all’omonima legge ad personam o il ministro Lunardi al suo conflitto d’interessi. Adesso è più probabile vedere una Iena sulla luna che davanti al ministro Angelino Alfano per parlare del suo Lodo. Anche allora Berlusconi inondava l’Italia di propaganda, ma il Trio Medusa osava chiedergli conto del celebre “Presidente operaio”, per poi ridergli in faccia. Anche allora l’onorevole Carlucci ebbe un corpo a corpo con il Trio. Ma quello andò in onda.
Come si è arrivati a questo punto? Per capirlo bisogna ricostruire l’escalation delle censure, partendo dalla prima. Quella subita dal programma nel 2001, quando Marco Tronchetti Provera, per fare un favore a Berlusconi, soffoca nella culla “La 7” che minaccia di danneggiare gli ascolti di Mediaset. Le Iene riprendono Tronchetti mentre balbetta improbabile giustificazioni. Il pezzo però viene fermato. In redazione si mugugna, ma si decide di lasciar correre. Così la situazione peggiora. Tanto che, quattro anni dopo, si arriva a una silenziosa protesta. Quando a essere bloccato è un servizio su Francesco Storace, le Iene si riuniscono a Roma e stipulano una sorta di patto: non diciamo niente, ma questa è l’ultima censura. Era invece l’’inizio della fine.
Oggi il Trio Medusa e Sortino non ci sono più. Alla Iena rossa, nel 2007, i vertici Mediaset avevano cancellato un servizio su Mastella e lui se ne è andato. Confalonieri, infatti, non ha voluto sentir ragioni nonostante che proprio Sortino fosse stato diffamato dal figlio di Mastella con false insinuazioni sulla sua carriera. A Segrate, del resto, Mastella è un intoccabile. Lo sa anche Enrico Lucci che, già prima di Sortino, ha dovuto ingoiare la censura di un pezzo sul medesimo politico. Il perché lo dice la cronaca. Mastella in quei mesi stoppa la legge Gentiloni sulle tv e poi fa cadere il governo Prodi. Una scelta politica, ovviamente. La decisione di un uomo, oggi eurodeputato Pdl, che dice con orgoglio: “Confalonieri? È uno dei miei migliori amici”. E chi trova un amico (di Confalonieri) trova un tesoro. Anche alle Iene.
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L'inganno è nel midollo spinale
In chi crede di assumere un farmaco, la trasmissione del dolore viene inibita a livello del corno dorsale. Lo studio su Science.
Chi studia l'effetto placebo sa bene che la mente è in grado di ingannare il corpo. In che modo? Bloccando le vie di trasmissione del dolore a livello di una regione del midollo spinale chiamata corno dorsale. È quanto affermano sulle pagine di Science Falk Eippert e la sua equipe della University Medical Center Hamburg-Eppendorf, in Germania.
Attraverso tecniche di risonanza magnetica funzionale per immagini (fMRI), i ricercatori hanno osservato l’attività del midollo spinale di alcuni volontari (convinti di partecipare a un test per una crema anestetica) mentre le loro braccia erano esposte a una intensa fonte di calore. A tutti era stata data la stessa lozione farmacologicamente inattiva, ma nel gruppo che credeva di provare la crema alla lidocaina (un anestetico locale), l’attività del corno dorsale diminuiva e il dolore si alleviava.
L’esperimento condotto dai ricercatori offre la prima prova diretta del modo in cui agisce un placebo. Come riportano gli studiosi, quindi, i fattori psicologici influenzano i meccanismi di percezione ed elaborazione del dolore nei primi “compartimenti funzionali” del sistema nervoso. Le terapie che sfruttano l'effetto placebo infatti, stimolando la circolazione degli oppioidi prodotti dall’organismo, sono in grado di bloccare le vie di trasmissione del dolore che dal cervello discendono sino alla midollo spinale.
I ricercatori ammettono di non conoscere ancora l’esatto meccanismo attraverso il quale si realizza l’inibizione spinale (ovvero se avviene a livello dei neuroni pre-sinaptici, post-sinaptici o degli interneuroni), e non hanno dimostrato se lo stesso effetto si verifica anche in risposta a stimoli neutri, non dolorosi. Tuttavia, il loro studio ha il merito di aver individuato una regione del sistema nervoso che può diventare un target privilegiato per i trattamenti contro il dolore. (m.s.)
Chi studia l'effetto placebo sa bene che la mente è in grado di ingannare il corpo. In che modo? Bloccando le vie di trasmissione del dolore a livello di una regione del midollo spinale chiamata corno dorsale. È quanto affermano sulle pagine di Science Falk Eippert e la sua equipe della University Medical Center Hamburg-Eppendorf, in Germania.
Attraverso tecniche di risonanza magnetica funzionale per immagini (fMRI), i ricercatori hanno osservato l’attività del midollo spinale di alcuni volontari (convinti di partecipare a un test per una crema anestetica) mentre le loro braccia erano esposte a una intensa fonte di calore. A tutti era stata data la stessa lozione farmacologicamente inattiva, ma nel gruppo che credeva di provare la crema alla lidocaina (un anestetico locale), l’attività del corno dorsale diminuiva e il dolore si alleviava.
L’esperimento condotto dai ricercatori offre la prima prova diretta del modo in cui agisce un placebo. Come riportano gli studiosi, quindi, i fattori psicologici influenzano i meccanismi di percezione ed elaborazione del dolore nei primi “compartimenti funzionali” del sistema nervoso. Le terapie che sfruttano l'effetto placebo infatti, stimolando la circolazione degli oppioidi prodotti dall’organismo, sono in grado di bloccare le vie di trasmissione del dolore che dal cervello discendono sino alla midollo spinale.
I ricercatori ammettono di non conoscere ancora l’esatto meccanismo attraverso il quale si realizza l’inibizione spinale (ovvero se avviene a livello dei neuroni pre-sinaptici, post-sinaptici o degli interneuroni), e non hanno dimostrato se lo stesso effetto si verifica anche in risposta a stimoli neutri, non dolorosi. Tuttavia, il loro studio ha il merito di aver individuato una regione del sistema nervoso che può diventare un target privilegiato per i trattamenti contro il dolore. (m.s.)
Gela, l'Europa e i processi
di Rosario Cauchi
Cosa nostra si sta riorganizzando sul territorio. Ancora alta la presenza di interessi mafiosi nella politica e nell'economia.
Gela, la città con il maggior numero di residenti dell'intera provincia di Caltanissetta, luogo conosciuto ai più per gli sfaceli ambientali generati dal sogno infranto dell'industrializzazione e per le vittime, in totale 115 nel solo triennio 1988-1991, frutto della tragica faida instillatasi tra due gruppi rivali, Cosa nostra e Stidda, è riuscita - fatto privo di qualsiasi precedente - ad esprimere un proprio rappresentante all'interno della massima istituzione europea: l'ex sindaco antimafia, Rosario Crocetta. Da poco approdato tra le fila del Partito Democratico, Crocetta è stato eletto alla carica di parlamentare europeo.
Appare quasi una contraddizione in termini il solo raffronto tra il panorama economico- sociale “patinato” dei siti delle istituzioni continentali e quello tipico del meridione italiano, che si porta dietro: disoccupazione, assenza di servizi sociali, precarietà esistenziale e molto altro.Tuttavia un esponente politico di tutto rilievo formatosi nell'estrema propaggine di un continente spesso privo d'identità ha potuto fregiarsi di un'investitura ardua da conseguire. L'assunzione di tale incarico determina, però, una fondamentale conseguenza, perlomeno in una prospettiva localistica: l'assenza di una direzione legittimata per una città dai contorni mai così complessi ed imprevedibili.
Non bisogna, infatti, dimenticare che Gela è reduce da una stagione estiva contrassegnata da molteplici attentati incendiari, i cui destinatari, semplici cittadini, imprenditori, esercizi commerciali, contribuiscono a rappresentare un raggruppamento assolutamente eterogeneo. Attraverso alcuni di questi la criminalità organizzata locale ha voluto inviare messaggi inconfutabili: l'oppressione rivolta alle altrui vite non si arresterà facilmente. Il violento attacco registratosi negli scorsi mesi si colloca, peraltro, in una fase storica assai travagliata per le cosche gelesi, private di molti “preziosi” componenti, attualmente imputati in svariati procedimenti penali.
Se la spinta della stidda sembra aver imboccato la direzione della definitiva sottomissione a cosa nostra, soprattutto in conseguenza delle defezioni di leader riconosciuti del calibro di Enrico Maganuco, Carmelo Fiorisi e Salvatore Nicastro, Cosa nostra, al contrario, si distingue per una forte volontà di riorganizzazione. Processo però, decisamente attenuato da due operazioni, condotte in coordinamento da forze dell'ordine e magistratura, denominate rispettivamente “Atlantide-Mercurio” e “Cerberus”: idonee ad imporre un drastico ridimensionamento ai due principali sodalizi di Cosa nostra, ossia le famiglie Madonia ed Emmanuello.
La prima è riuscita a penetrare entro i più profondi meccanismi del gruppo criminale facente ancora capo al boss ergastolano, Giuseppe “Piddu” Madonia, avvolgendo nella sua morsa gli stessi congiunti di quello che in passato veniva considerato il “padrone di Vallelunga Pratameno”, ovvero la moglie, Giovanna Santoro, la sorella, Maria Stella Madonia, il cognato, Giuseppe Lombardo, ed il nipote, Francesco Lombardo; l'operazione Cerberus, invece, ha ulteriormente scosso il nucleo direzionale ed operativo della famiglia Emmanuello, già destabilizzato dalla morte, avvenuta nel corso di un blitz della Polizia di Stato svoltosi presso le campagne della provincia di Enna, del dominus latitante, Daniele Emmanuello.
La caratteristica saliente emersa da tali indagini si rintraccia, indubbiamente, nella sussistenza di una penetrante interconnessione tra malavita, economia e politica. Difatti le indagini sul gruppo Madonia hanno consentito di individuare una spasmodica attenzione dello stesso nei riguardi di diversi cantieri edili attivi in città, per il tramite del factotum, Carmelo Barbieri, unita all'intenzione di accreditarsi ai massimi livelli dell'organizzazione istituzionale provinciale, interessandosi alla campagna elettorale condotta nel 2008 dall'attuale Presidente della Provincia di Caltanissetta, Giuseppe Federico.
La disamina condotta nei riguardi del clan Emmanuello ha ancor più permesso di appurare la simbiosi esistente tra i capi del consesso criminale e le imprese I.G.M. s.r.l. e I.C.A.M. s.r.l., controllate solo formalmente dal giovane imprenditore, Sandro Missuto, ma in realtà riconducibili al leader, Daniele Emmanuello, ed ancora la reverenza dimostrata, al cospetto della matrona, Calogera Pia Messina, madre dei fratelli Emmanuello, da un consigliere comunale in carica e da un ex consigliere provinciale.
Connubi oramai classici nei copioni di opere nere, purtroppo assai distanti dai palcoscenici, ma calate nell'ordinaria quotidianità di una Sicilia perennemente incerta circa scelte decisive da compiere. Se per l'operazione “Cerberus” sarà necessario attendere ulteriori mesi prima di poter raggiungere la sede del dibattimento processuale, per quella “Atlantide-Mercurio”, al contrario, la fase finale scatterà nel corso del mese di ottobre, cosicché i protagonisti della stessa possano presentarsi innanzi all'organo giudicante.
Gela così si accredita in Europa ma non è sicura di potersi ritenere indipendente dall'occulto controllo criminale.
Cosa nostra si sta riorganizzando sul territorio. Ancora alta la presenza di interessi mafiosi nella politica e nell'economia.
Gela, la città con il maggior numero di residenti dell'intera provincia di Caltanissetta, luogo conosciuto ai più per gli sfaceli ambientali generati dal sogno infranto dell'industrializzazione e per le vittime, in totale 115 nel solo triennio 1988-1991, frutto della tragica faida instillatasi tra due gruppi rivali, Cosa nostra e Stidda, è riuscita - fatto privo di qualsiasi precedente - ad esprimere un proprio rappresentante all'interno della massima istituzione europea: l'ex sindaco antimafia, Rosario Crocetta. Da poco approdato tra le fila del Partito Democratico, Crocetta è stato eletto alla carica di parlamentare europeo.
Appare quasi una contraddizione in termini il solo raffronto tra il panorama economico- sociale “patinato” dei siti delle istituzioni continentali e quello tipico del meridione italiano, che si porta dietro: disoccupazione, assenza di servizi sociali, precarietà esistenziale e molto altro.Tuttavia un esponente politico di tutto rilievo formatosi nell'estrema propaggine di un continente spesso privo d'identità ha potuto fregiarsi di un'investitura ardua da conseguire. L'assunzione di tale incarico determina, però, una fondamentale conseguenza, perlomeno in una prospettiva localistica: l'assenza di una direzione legittimata per una città dai contorni mai così complessi ed imprevedibili.
Non bisogna, infatti, dimenticare che Gela è reduce da una stagione estiva contrassegnata da molteplici attentati incendiari, i cui destinatari, semplici cittadini, imprenditori, esercizi commerciali, contribuiscono a rappresentare un raggruppamento assolutamente eterogeneo. Attraverso alcuni di questi la criminalità organizzata locale ha voluto inviare messaggi inconfutabili: l'oppressione rivolta alle altrui vite non si arresterà facilmente. Il violento attacco registratosi negli scorsi mesi si colloca, peraltro, in una fase storica assai travagliata per le cosche gelesi, private di molti “preziosi” componenti, attualmente imputati in svariati procedimenti penali.
Se la spinta della stidda sembra aver imboccato la direzione della definitiva sottomissione a cosa nostra, soprattutto in conseguenza delle defezioni di leader riconosciuti del calibro di Enrico Maganuco, Carmelo Fiorisi e Salvatore Nicastro, Cosa nostra, al contrario, si distingue per una forte volontà di riorganizzazione. Processo però, decisamente attenuato da due operazioni, condotte in coordinamento da forze dell'ordine e magistratura, denominate rispettivamente “Atlantide-Mercurio” e “Cerberus”: idonee ad imporre un drastico ridimensionamento ai due principali sodalizi di Cosa nostra, ossia le famiglie Madonia ed Emmanuello.
La prima è riuscita a penetrare entro i più profondi meccanismi del gruppo criminale facente ancora capo al boss ergastolano, Giuseppe “Piddu” Madonia, avvolgendo nella sua morsa gli stessi congiunti di quello che in passato veniva considerato il “padrone di Vallelunga Pratameno”, ovvero la moglie, Giovanna Santoro, la sorella, Maria Stella Madonia, il cognato, Giuseppe Lombardo, ed il nipote, Francesco Lombardo; l'operazione Cerberus, invece, ha ulteriormente scosso il nucleo direzionale ed operativo della famiglia Emmanuello, già destabilizzato dalla morte, avvenuta nel corso di un blitz della Polizia di Stato svoltosi presso le campagne della provincia di Enna, del dominus latitante, Daniele Emmanuello.
La caratteristica saliente emersa da tali indagini si rintraccia, indubbiamente, nella sussistenza di una penetrante interconnessione tra malavita, economia e politica. Difatti le indagini sul gruppo Madonia hanno consentito di individuare una spasmodica attenzione dello stesso nei riguardi di diversi cantieri edili attivi in città, per il tramite del factotum, Carmelo Barbieri, unita all'intenzione di accreditarsi ai massimi livelli dell'organizzazione istituzionale provinciale, interessandosi alla campagna elettorale condotta nel 2008 dall'attuale Presidente della Provincia di Caltanissetta, Giuseppe Federico.
La disamina condotta nei riguardi del clan Emmanuello ha ancor più permesso di appurare la simbiosi esistente tra i capi del consesso criminale e le imprese I.G.M. s.r.l. e I.C.A.M. s.r.l., controllate solo formalmente dal giovane imprenditore, Sandro Missuto, ma in realtà riconducibili al leader, Daniele Emmanuello, ed ancora la reverenza dimostrata, al cospetto della matrona, Calogera Pia Messina, madre dei fratelli Emmanuello, da un consigliere comunale in carica e da un ex consigliere provinciale.
Connubi oramai classici nei copioni di opere nere, purtroppo assai distanti dai palcoscenici, ma calate nell'ordinaria quotidianità di una Sicilia perennemente incerta circa scelte decisive da compiere. Se per l'operazione “Cerberus” sarà necessario attendere ulteriori mesi prima di poter raggiungere la sede del dibattimento processuale, per quella “Atlantide-Mercurio”, al contrario, la fase finale scatterà nel corso del mese di ottobre, cosicché i protagonisti della stessa possano presentarsi innanzi all'organo giudicante.
Gela così si accredita in Europa ma non è sicura di potersi ritenere indipendente dall'occulto controllo criminale.
Traffici di scorie, c'e' anche una nave fatta affondare davanti la costa di Trapani
di Rino Giacalone
Le navi cariche di scorie non venivano fatte affondare solo nel Tirreno, ma anche davanti al porto di Trapani. C’è un nome che viene fuori, ed è quello della nave «River». Una naufragio che non risulta da nessuna parte, e figurarsi come poteva accadere il contrario, ma che secondo un teste, il faccendiere per anni in contatto con servizi segretie criminalità organizzata mafiosa, Francesco Elmo, c’è stato.
Un racconto finito archiviato ma che adesso potrebbe tornare d’attualità dopo quello che va scoprendo la magistratura calabrese a proposito di navi fatte naufragare con i loro carichi mortali.
È uno filone d’inchiesta quello del traffico di scorie che è rimasto non approfondito perchè la magistratura trapanese che se ne occupava si è vista fare «terra bruciata» attorno. Sono venuti a mancare i testi. Ci sono stati tentativi di depistaggio. Ma non significa che l’indagine sia infondata. È una ipotesi, quella di questo traffico, che è poi rimasta sullo sfondo di due inchieste che nel tempo si sono avvicinate fino quasi a toccarsi, per poi tornare a dividersi e a continuare a correre su binari paralleli.
Scenario è quello di Trapani e le sue commistioni, i crocevia tra la mafia e i settori «deviati» dello Stato, la massoneria. In mezzo rifiuti tossici finiti anche sepolti nelle cave abbandonate della provincia di Trapani. Quali sono le inchieste tanto vicine? Una è quella (archiviata dalla procura di Trapani) sulla presenza di una cellula di Gladio in città. L’altra indagine è quella sul delitto (settembre 1988) del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, che ha ripreso vigore e lì una firma si è trovata, quella della cupola mafiosa locale. Elmo ha parlato del traffico di scorie nell’ambito dell’indagine su Gladio. Potrebbe trattarsi degli stessi traffici che forse Rostagno ebbe modo di vedere spiando di nascosto un aereo che atterrava nell’aeroporto chiuso di Kinisia. Ma non solo.
Potrebbe essere la stessa indagine sulla quale si è rovata ad indagare la giornalista Ilaria Alpi. Uccisa in Somalia nel marzo 1994. Lei andando a Bosaso avrebbe trovato traccia di quei traffici. Un incrociarsi di piste da battere dal quale emerge un altro nome, quello del maresciallo del Sismi Vincenzo Li Causi anche lui morto amnmazzato non siè mai saputo molto bene da chi, mentre era in missione in Somalia. Li Causi era il capo della cellula di Gladio a Trapani. Ma non solo era uno degli uomini più fidati del premier socialista Bettino Craxi. E una parte del traffico di scorie e di armi viene ricondotto all'uso di mezzi di una società internazionale, la Scifco, indicata come vicina ad esponenti del partito socialista.
Francesco Elmo per tanto tempo ha lavorato in uno studio svizzero da dove sarebbe passata la gestione di traffici di armi e scorie. Lui incontrava i personaggi con i quali faceva i relativi affari. E c’erano anche siciliani di mezzo. Lui ha indicato anche in che maniera le scorie giungevano a Trapani, dentro camion che ufficialmente trasportavano oli esausti. Ha indicato anche il periodo, dalla metà degli anni ’80 fino al 1993.
Le navi cariche di scorie non venivano fatte affondare solo nel Tirreno, ma anche davanti al porto di Trapani. C’è un nome che viene fuori, ed è quello della nave «River». Una naufragio che non risulta da nessuna parte, e figurarsi come poteva accadere il contrario, ma che secondo un teste, il faccendiere per anni in contatto con servizi segretie criminalità organizzata mafiosa, Francesco Elmo, c’è stato.
Un racconto finito archiviato ma che adesso potrebbe tornare d’attualità dopo quello che va scoprendo la magistratura calabrese a proposito di navi fatte naufragare con i loro carichi mortali.
È uno filone d’inchiesta quello del traffico di scorie che è rimasto non approfondito perchè la magistratura trapanese che se ne occupava si è vista fare «terra bruciata» attorno. Sono venuti a mancare i testi. Ci sono stati tentativi di depistaggio. Ma non significa che l’indagine sia infondata. È una ipotesi, quella di questo traffico, che è poi rimasta sullo sfondo di due inchieste che nel tempo si sono avvicinate fino quasi a toccarsi, per poi tornare a dividersi e a continuare a correre su binari paralleli.
Scenario è quello di Trapani e le sue commistioni, i crocevia tra la mafia e i settori «deviati» dello Stato, la massoneria. In mezzo rifiuti tossici finiti anche sepolti nelle cave abbandonate della provincia di Trapani. Quali sono le inchieste tanto vicine? Una è quella (archiviata dalla procura di Trapani) sulla presenza di una cellula di Gladio in città. L’altra indagine è quella sul delitto (settembre 1988) del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, che ha ripreso vigore e lì una firma si è trovata, quella della cupola mafiosa locale. Elmo ha parlato del traffico di scorie nell’ambito dell’indagine su Gladio. Potrebbe trattarsi degli stessi traffici che forse Rostagno ebbe modo di vedere spiando di nascosto un aereo che atterrava nell’aeroporto chiuso di Kinisia. Ma non solo.
Potrebbe essere la stessa indagine sulla quale si è rovata ad indagare la giornalista Ilaria Alpi. Uccisa in Somalia nel marzo 1994. Lei andando a Bosaso avrebbe trovato traccia di quei traffici. Un incrociarsi di piste da battere dal quale emerge un altro nome, quello del maresciallo del Sismi Vincenzo Li Causi anche lui morto amnmazzato non siè mai saputo molto bene da chi, mentre era in missione in Somalia. Li Causi era il capo della cellula di Gladio a Trapani. Ma non solo era uno degli uomini più fidati del premier socialista Bettino Craxi. E una parte del traffico di scorie e di armi viene ricondotto all'uso di mezzi di una società internazionale, la Scifco, indicata come vicina ad esponenti del partito socialista.
Francesco Elmo per tanto tempo ha lavorato in uno studio svizzero da dove sarebbe passata la gestione di traffici di armi e scorie. Lui incontrava i personaggi con i quali faceva i relativi affari. E c’erano anche siciliani di mezzo. Lui ha indicato anche in che maniera le scorie giungevano a Trapani, dentro camion che ufficialmente trasportavano oli esausti. Ha indicato anche il periodo, dalla metà degli anni ’80 fino al 1993.
Ora di religione: un comunicato per una scuola laica
Comunicato congiunto di Associazioni e Comitati della Scuola Per la Scuola della Repubblica e Genitori democratici
Il comunicato è stato sottoscritto anche dalla Consulta romana per la laicità delle istituzioni, dall’Associazione “31 ottobre”, dal Comitato Insegnanti Evangelici Italiani, dal Comitato Torinese per la Laicità della Scuola, dal Movimento di Cooperazione Educativa, dalla Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni, da DEMOCRAZIA LAICA, dalla FNISM, dall’associazione Giuditta Tavani Arquati, dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti
COMUNICATO
Le difficoltà che in questo inizio d’anno scolastico ricadono pesantemente su coloro che non scelgono l’insegnamento della religione cattolica (IRC) inducono le nostre associazioni a intervenire pubblicamente a sostegno delle denunce di genitori, studenti, insegnanti.
A noi si rivolgono genitori democratici, studenti che credono nella laicità della scuola e si vedono costretti a subire discriminazioni senza che venga loro riconosciuto il rispetto di un diritto costituzionalmente garantito. Alle purtroppo frequenti violazioni arbitrarie del passato si aggiunge quest’anno l’alibi della scarsità di personale scolastico a causa dei pesanti tagli ai bilanci delle scuole e della grande riduzione del numero di insegnanti.
RIBADIAMO CON FORZA che sia il Nuovo Concordato (1984), sia le leggi applicative, sia pronunciamenti della Corte Costituzionale e della Giustizia Amministrativa, le stesse circolari ministeriali IMPONGONO LA PIENA FACOLTATIVITA’ DELL’IRC, e, contestualmente, il pari diritto di coloro che non si avvalgono a veder rispettate le proprie libere scelte : un’attività formativa con apposito docente, studio individuale libero o assistito, la possibilità di assentarsi dalla scuola. Trattandosi di DIRITTI è obbligo dell’amministrazione scolastica assicurarne la fruibilità .
Coloro che non scelgono l’IRC non possono venire trasferiti come pacchi da una classe all’altra, o essere costretti a rimanere in classe durante l’irc come “uditori”, o essere invitati a uscire dalla scuola per non creare problemi, se ciò non corrisponde a una spontanea richiesta.
CI RIVOLGIAMO pertanto ai DIRIGENTI SCOLASTICI, agli ORGANI COLLEGIALI delle scuole affinché prendano in esame tutte le possibili soluzioni, e, in caso di assoluta conclamata impraticabilità a garantire un’attività alternativa se richiesta NON ESITINO A RIVOLGERSI ISTITUZIONALMENTE AL MINISTERO P.I. PER OTTENERE SUBITO LE RISORSE NECESSARIE.
Ai GENITORI e agli STUDENTI non avvalenti raccomandiamo di mantenere ferma senza compromessi la rivendicazione del diritto alla propria dignità, di non tollerare che chi sceglie l’IRC- insegnamento facoltativo confessionale - fosse anche un solo alunno - disponga dal primo giorno di scuola di un apposito docente, mentre NULLA E’ PREVISTO PER CHI USUFRUISCE DEL NORMALE ORARIO SCOLASTICO DI UNA SCUOLA LAICA.
Il diritto alla libertà di coscienza è un diritto non negoziabile, riguarda la singola persona e non può essere questione di maggioranza o minoranza.
Ricordiamolo sempre!
Il comunicato è stato sottoscritto anche dalla Consulta romana per la laicità delle istituzioni, dall’Associazione “31 ottobre”, dal Comitato Insegnanti Evangelici Italiani, dal Comitato Torinese per la Laicità della Scuola, dal Movimento di Cooperazione Educativa, dalla Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni, da DEMOCRAZIA LAICA, dalla FNISM, dall’associazione Giuditta Tavani Arquati, dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti
COMUNICATO
Le difficoltà che in questo inizio d’anno scolastico ricadono pesantemente su coloro che non scelgono l’insegnamento della religione cattolica (IRC) inducono le nostre associazioni a intervenire pubblicamente a sostegno delle denunce di genitori, studenti, insegnanti.
A noi si rivolgono genitori democratici, studenti che credono nella laicità della scuola e si vedono costretti a subire discriminazioni senza che venga loro riconosciuto il rispetto di un diritto costituzionalmente garantito. Alle purtroppo frequenti violazioni arbitrarie del passato si aggiunge quest’anno l’alibi della scarsità di personale scolastico a causa dei pesanti tagli ai bilanci delle scuole e della grande riduzione del numero di insegnanti.
RIBADIAMO CON FORZA che sia il Nuovo Concordato (1984), sia le leggi applicative, sia pronunciamenti della Corte Costituzionale e della Giustizia Amministrativa, le stesse circolari ministeriali IMPONGONO LA PIENA FACOLTATIVITA’ DELL’IRC, e, contestualmente, il pari diritto di coloro che non si avvalgono a veder rispettate le proprie libere scelte : un’attività formativa con apposito docente, studio individuale libero o assistito, la possibilità di assentarsi dalla scuola. Trattandosi di DIRITTI è obbligo dell’amministrazione scolastica assicurarne la fruibilità .
Coloro che non scelgono l’IRC non possono venire trasferiti come pacchi da una classe all’altra, o essere costretti a rimanere in classe durante l’irc come “uditori”, o essere invitati a uscire dalla scuola per non creare problemi, se ciò non corrisponde a una spontanea richiesta.
CI RIVOLGIAMO pertanto ai DIRIGENTI SCOLASTICI, agli ORGANI COLLEGIALI delle scuole affinché prendano in esame tutte le possibili soluzioni, e, in caso di assoluta conclamata impraticabilità a garantire un’attività alternativa se richiesta NON ESITINO A RIVOLGERSI ISTITUZIONALMENTE AL MINISTERO P.I. PER OTTENERE SUBITO LE RISORSE NECESSARIE.
Ai GENITORI e agli STUDENTI non avvalenti raccomandiamo di mantenere ferma senza compromessi la rivendicazione del diritto alla propria dignità, di non tollerare che chi sceglie l’IRC- insegnamento facoltativo confessionale - fosse anche un solo alunno - disponga dal primo giorno di scuola di un apposito docente, mentre NULLA E’ PREVISTO PER CHI USUFRUISCE DEL NORMALE ORARIO SCOLASTICO DI UNA SCUOLA LAICA.
Il diritto alla libertà di coscienza è un diritto non negoziabile, riguarda la singola persona e non può essere questione di maggioranza o minoranza.
Ricordiamolo sempre!
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sabato 17 ottobre 2009
Qualche pazzo è felice di pagare le tasse
Un modo sicuro per avere successo elettorale in Italia è promettere meno tasse e tagli della spesa pubblica. Gli italiani vedono le tasse come un furto, come una privazione dei frutti del loro lavoro e le ritengono sbagliate, non si è ancora capito se solo perché “sono troppo alte” o se pensano che lo siano anche concettualmente.
Io però sono di un’altra idea, penso che il problema vero, indipendentemente dal parere degli elettori, sia la qualità del servizio che ci viene offerto in cambio delle tasse che paghiamo.
Anzitutto c’è da dire che non è vero che siamo il paese dell’UE che paga più tasse, inoltre bisogna vedere a quali categorie ci si riferisce. Se pensiamo a chi paga tutte le tasse (circa il 50% del proprio reddito), senza evadere nemmeno un euro allora forse si, siamo davvero tartassati, un po’ come danesi e svedesi. Se si guarda la media generale (poco più del 40%) allora siamo in linea con paesi come Francia e Germania. Se si pensa che c’è gente che paga poco più del 30% allora possiamo dire che questi ultimi vivono quasi come fossero in un paradiso fiscale.
Però, come in ogni mercato che si rispetti, il costo effettivo della merce o del servizio non va valutato esclusivamente in baso al prezzo, bensì va valutato facendo un rapporto qualità\prezzo, ovvero confrontando un bene o un servizio con un altro dello stesso tipo e osservare la differenza di prezzo e di qualità.
Dunque, proviamo a paragonarci con chi, in Europa, paga più tasse, ovvero danesi e svedesi. In Svezia, nel 2004, si aveva una costante crescita economica, superiore a quella di molti altri paesi europei, una disoccupazione del 6% circa un’inflazione ragionevole e vantaggiosa, circa l’1% e un PIL pro capite superiore del 16% rispetto alla media europea.
Questi dati economici, a dir poco invidiabili, sono ottenuti con una tassazione incisiva e pesante, che però consente a uno Stato ben amministrato di garantire la tutti i cittadini una sanità efficiente e quasi gratuita, un’istruzione di alto livello per tutti, degli importanti aiuti per l’inserimento nel mondo del lavoro. Uno svedese a 18 o 20 anni è già indipendente dai genitori, certo è aiutato dallo Stato, ma se si sfugge a certe ideologie si può certamente notare il vantaggio di uscire di casa in giovane età, poter mettere su famiglia, avere un lavoro e un reddito sicuro, godere di una buona sanità e di una buona istruzione.
Tutti questi vantaggi chiaramente non arrivano gratis, ma si ottengono grazie a due importanti fattori: una tassazione alta e un controllo dello Stato su diversi aspetti dell’economia, da taluni ritenuti eccessivi e forse alla base di un sintomo di distaccamento dei svedesi da questo modello sociale.
Di certo però il modello svedese è assai efficiente e i problemi che ci sono (insofferenza verso l’alta tassazione, rischio di poca produttività nel mondo del lavoro) possono essere risolti garantendo un maggior soddisfazione economica ai lavoratori più produttivi, sacrificando in parte una redistribuzione dei redditi nell’età adulta che, anche secondo me, è meno importante rispetto all’assistenza di cui si ha bisogno in giovane età.
L a Danimarca invece offre una soluzione dinamica ed efficiente al problema del precariato. Essi hanno un modello del mercato del lavoro che dovrebbe essere preso in considerazione anche dall’Italia. Le aziende possono licenziare facilmente i propri dipendenti, i quali però continuano a godere del 70-90% del proprio reddito (per 4 anni, se necessario) e, soprattutto, di un piano di lavoro organizzato dallo Stato, il quale si impegna a trovare un nuovo posto di lavoro in meno di un anno, spesso anche con migliori condizioni rispetto al precedente.
La particolarità della Danimarca però è che anche loro, come noi, vivono grazie alle piccole e medie imprese, un motivo in più per tentare di imitarli.
La flexicurity dunque coniuga sia le esigenze delle imprese (maggior flessibilità) che quelle del lavoratore (sicurezza del reddito), il quale è disposto a prendere meno soldi per qualche mese, in cambio di un nuovo posto di lavoro con maggior soddisfazione economica e lavorativa.
Anche qui però è necessaria una tassazione alta, che però è ben bilanciata dalla qualità e dall’importanza sociale del servizio offerto. Un altro dato fondamentale per questo sistema però è il sistema di collaborazione: gli uffici del lavoro sono cogestiti da autorità pubbliche, sindacati e imprese. Alla base di tutto c’è quella che gli studiosi scandinavi chiamano l’economia negoziata». Le parti sociali cogestiscono gli interventi per i disoccupati e questo fa sì che l’80% dei lavoratori sia iscritto al sindacato.
Come volevasi dimostrare dunque per avere un sistema economico efficiente è necessaria la collaborazione e il dialogo, non l’individualismo, l’egoismo e “l’arte di arrangiarsi”, spesso a danno del proprio vicino, che pervadono la cultura e l’atteggiamento degli italiani.
Io però sono di un’altra idea, penso che il problema vero, indipendentemente dal parere degli elettori, sia la qualità del servizio che ci viene offerto in cambio delle tasse che paghiamo.
Anzitutto c’è da dire che non è vero che siamo il paese dell’UE che paga più tasse, inoltre bisogna vedere a quali categorie ci si riferisce. Se pensiamo a chi paga tutte le tasse (circa il 50% del proprio reddito), senza evadere nemmeno un euro allora forse si, siamo davvero tartassati, un po’ come danesi e svedesi. Se si guarda la media generale (poco più del 40%) allora siamo in linea con paesi come Francia e Germania. Se si pensa che c’è gente che paga poco più del 30% allora possiamo dire che questi ultimi vivono quasi come fossero in un paradiso fiscale.
Però, come in ogni mercato che si rispetti, il costo effettivo della merce o del servizio non va valutato esclusivamente in baso al prezzo, bensì va valutato facendo un rapporto qualità\prezzo, ovvero confrontando un bene o un servizio con un altro dello stesso tipo e osservare la differenza di prezzo e di qualità.
Dunque, proviamo a paragonarci con chi, in Europa, paga più tasse, ovvero danesi e svedesi. In Svezia, nel 2004, si aveva una costante crescita economica, superiore a quella di molti altri paesi europei, una disoccupazione del 6% circa un’inflazione ragionevole e vantaggiosa, circa l’1% e un PIL pro capite superiore del 16% rispetto alla media europea.
Questi dati economici, a dir poco invidiabili, sono ottenuti con una tassazione incisiva e pesante, che però consente a uno Stato ben amministrato di garantire la tutti i cittadini una sanità efficiente e quasi gratuita, un’istruzione di alto livello per tutti, degli importanti aiuti per l’inserimento nel mondo del lavoro. Uno svedese a 18 o 20 anni è già indipendente dai genitori, certo è aiutato dallo Stato, ma se si sfugge a certe ideologie si può certamente notare il vantaggio di uscire di casa in giovane età, poter mettere su famiglia, avere un lavoro e un reddito sicuro, godere di una buona sanità e di una buona istruzione.
Tutti questi vantaggi chiaramente non arrivano gratis, ma si ottengono grazie a due importanti fattori: una tassazione alta e un controllo dello Stato su diversi aspetti dell’economia, da taluni ritenuti eccessivi e forse alla base di un sintomo di distaccamento dei svedesi da questo modello sociale.
Di certo però il modello svedese è assai efficiente e i problemi che ci sono (insofferenza verso l’alta tassazione, rischio di poca produttività nel mondo del lavoro) possono essere risolti garantendo un maggior soddisfazione economica ai lavoratori più produttivi, sacrificando in parte una redistribuzione dei redditi nell’età adulta che, anche secondo me, è meno importante rispetto all’assistenza di cui si ha bisogno in giovane età.
L a Danimarca invece offre una soluzione dinamica ed efficiente al problema del precariato. Essi hanno un modello del mercato del lavoro che dovrebbe essere preso in considerazione anche dall’Italia. Le aziende possono licenziare facilmente i propri dipendenti, i quali però continuano a godere del 70-90% del proprio reddito (per 4 anni, se necessario) e, soprattutto, di un piano di lavoro organizzato dallo Stato, il quale si impegna a trovare un nuovo posto di lavoro in meno di un anno, spesso anche con migliori condizioni rispetto al precedente.
La particolarità della Danimarca però è che anche loro, come noi, vivono grazie alle piccole e medie imprese, un motivo in più per tentare di imitarli.
La flexicurity dunque coniuga sia le esigenze delle imprese (maggior flessibilità) che quelle del lavoratore (sicurezza del reddito), il quale è disposto a prendere meno soldi per qualche mese, in cambio di un nuovo posto di lavoro con maggior soddisfazione economica e lavorativa.
Anche qui però è necessaria una tassazione alta, che però è ben bilanciata dalla qualità e dall’importanza sociale del servizio offerto. Un altro dato fondamentale per questo sistema però è il sistema di collaborazione: gli uffici del lavoro sono cogestiti da autorità pubbliche, sindacati e imprese. Alla base di tutto c’è quella che gli studiosi scandinavi chiamano l’economia negoziata». Le parti sociali cogestiscono gli interventi per i disoccupati e questo fa sì che l’80% dei lavoratori sia iscritto al sindacato.
Come volevasi dimostrare dunque per avere un sistema economico efficiente è necessaria la collaborazione e il dialogo, non l’individualismo, l’egoismo e “l’arte di arrangiarsi”, spesso a danno del proprio vicino, che pervadono la cultura e l’atteggiamento degli italiani.
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Se il biodiesel fa male
L’olio di palma, che gode degli incentivi dell’Ue ai biocarburanti, mette a rischio le foreste indonesiane e può portare all’estinzione dell’orango. Il rapporto di Friends of the Earth.
L’Unione europea punta sui biocarburanti per il trasporto e la produzione di energia elettrica, in particolare sull’olio di palma. Un buon modo per abbattere le emissioni di gas serra e rispettare gli impegni verso l’ambiente. Peccato che a farne le spese siano le foreste pluviali e le specie in via di estinzione dell’Indonesia. Lo rivela un rapporto dell'associazione Friends of the Earth - diffuso in Italia da Salva le foreste - secondo il quale la direttiva europea che promuove alternative rinnovabili al petrolio e ai suoi derivati sta provocando una forte espansione delle piantagioni di palma da olio che sottraggono terreno alle foreste torbiere. Lo studio illustra in particolare gli effetti del boom dell’olio di palma nella regione di Ketapang, nell'isola del Borneo, dove l’espansione delle piantagioni si accompagna alla deforestazione illegale e alle violazioni dei diritti umani.
“La crescita della domanda di olio di palma sui mercati internazionali sta conducendo alla deforestazione illegale e a gravi conflitti sociali”, ha spiegato Geert Ritsema, di Friends of the Earth. “Di questo passo le foreste del Borneo saranno cancellate dalla faccia della terra, assieme alle specie animali che vi abitano, e saranno rilasciate quantità immense di gas serra”.
Nel Ketapang, negli ultimi tre anni, il governo ha rilasciato licenze per la conversione in piantagione di palma da olio sul 40 per cento dell’intero territorio, pari a 1,4 milioni di ettari, senza curarsi delle leggi e delle aree protette. Su 54 licenze, ben 39 includono foreste protette, ben 40.000 ettari, tra cui i parchi nazionali creati per la protezione dell'orango, specie in via di estinzione. Inoltre, il terreno per le piantagioni viene ricavato anche senza permessi e violando i diritti delle popolazioni locali. Nel 2008, infatti, sono stati registrati 20 conflitti legati alla proprietà della terra, ma questo numero è destinato ad aumentare assieme all'avanzata dei bulldozer.
Non solo. Un grosso problema è quello dei certificati che attestano la provenienza dell’olio di palma. Molte delle imprese attraverso cui l’Ue riceve biocarburante fanno parte del Roundtable for Sustainable Palm Oil (Rspo), uno standard ambientale per la certificazione dell’olio di palma, ma questo di per sé non basta ad assicurare la legalità del biodiesel prodotto. Il 43 per cento della terra nella regione del Ketapang è controllata da imprese che fanno parte del Rspo, ma anche queste finiscono per produrre biocarburante commettendo abusi verso l’ambiente e le popolazioni locali. (r.p.)
L’Unione europea punta sui biocarburanti per il trasporto e la produzione di energia elettrica, in particolare sull’olio di palma. Un buon modo per abbattere le emissioni di gas serra e rispettare gli impegni verso l’ambiente. Peccato che a farne le spese siano le foreste pluviali e le specie in via di estinzione dell’Indonesia. Lo rivela un rapporto dell'associazione Friends of the Earth - diffuso in Italia da Salva le foreste - secondo il quale la direttiva europea che promuove alternative rinnovabili al petrolio e ai suoi derivati sta provocando una forte espansione delle piantagioni di palma da olio che sottraggono terreno alle foreste torbiere. Lo studio illustra in particolare gli effetti del boom dell’olio di palma nella regione di Ketapang, nell'isola del Borneo, dove l’espansione delle piantagioni si accompagna alla deforestazione illegale e alle violazioni dei diritti umani.
“La crescita della domanda di olio di palma sui mercati internazionali sta conducendo alla deforestazione illegale e a gravi conflitti sociali”, ha spiegato Geert Ritsema, di Friends of the Earth. “Di questo passo le foreste del Borneo saranno cancellate dalla faccia della terra, assieme alle specie animali che vi abitano, e saranno rilasciate quantità immense di gas serra”.
Nel Ketapang, negli ultimi tre anni, il governo ha rilasciato licenze per la conversione in piantagione di palma da olio sul 40 per cento dell’intero territorio, pari a 1,4 milioni di ettari, senza curarsi delle leggi e delle aree protette. Su 54 licenze, ben 39 includono foreste protette, ben 40.000 ettari, tra cui i parchi nazionali creati per la protezione dell'orango, specie in via di estinzione. Inoltre, il terreno per le piantagioni viene ricavato anche senza permessi e violando i diritti delle popolazioni locali. Nel 2008, infatti, sono stati registrati 20 conflitti legati alla proprietà della terra, ma questo numero è destinato ad aumentare assieme all'avanzata dei bulldozer.
Non solo. Un grosso problema è quello dei certificati che attestano la provenienza dell’olio di palma. Molte delle imprese attraverso cui l’Ue riceve biocarburante fanno parte del Roundtable for Sustainable Palm Oil (Rspo), uno standard ambientale per la certificazione dell’olio di palma, ma questo di per sé non basta ad assicurare la legalità del biodiesel prodotto. Il 43 per cento della terra nella regione del Ketapang è controllata da imprese che fanno parte del Rspo, ma anche queste finiscono per produrre biocarburante commettendo abusi verso l’ambiente e le popolazioni locali. (r.p.)
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Norberto Bobbio. Il passato, il presente, ma soprattutto il futuro che vogliamo essere
di Nadia Redoglia
«Dal Novecento al Duemila. Il futuro di Norberto Bobbio». Così il Comitato Nazionale per le celebrazioni del Centenario della nascita di Norberto Bobbio, su iniziativa del Centro studi Piero Gobetti di Torino, ha (magistralmente) titolato il convegno internazionale in onore, più che in ricordo, di una straordinaria figura intellettuale e morale tra le più significative d’Italia, e dunque d’Europa, del Novecento. Bobbio seppe consegnarci, spiegandoci i concetti con proverbiale chiarezza, la realtà del ventesimo secolo. Quei concetti sono profondamente vivi nella realtà del ventunesimo. E’ dimostrato dal bisogno di farci raccontare di lui che ben conosceva il modo per identificare i problemi e dunque raggiungerne la fonte. Come ben spiega, all’apertura del convegno, Michelangelo Bovero, la chiarezza del maestro non è soltanto uno stile, una dote di nitore nella scrittura. E’ l’effetto che questa riverbera sul pensiero di tutti noi che così possiamo penetrare nel suo modo di pensare consentendoci di affrontare i problemi andandovi al cuore, superando equivoci e confusioni, involontarie o interessate. E’ un effetto, e uno specchio, del suo rigore intellettuale e morale. E’illuminismo, nel significato più semplice ed essenziale della parola.
«Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze» disse il maestro della filosofia del diritto.
Negli uomini di buona volontà seminare dubbi significa porsi e porre domande senza stancarsi mai di cercare risposte tra gli altri e negli altri. Di qui l’accettazione e il rispetto per il dialogo. In esso si materializza la ragione -la natura dell’essere- della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale, della pace. Bobbio, centrando l’esistenza della logica d’insieme di norme universali (dunque concepite all’unanimità e perciò identificabili con la natura delle cose, costituita dall’umano pensiero), ha saputo anche dimostrarci la spontanea conseguenza -la giustificazione- del perché i diritti dell’uomo sono ( e non: possono essere) inviolabili. La democrazia consiste non già nella staticità delle certezze date dall’individualità maggioritaria di chi al momento detiene il potere, bensì dalla consapevolezza che ben prima dell’individualità maggioritaria sussiste l’insieme di tutti gli individui che, per propria natura, hanno fornito gli impulsi perché la democrazia potesse prendere forma. Nella storia dell’uomo la democrazia rappresenta un fenomeno straordinario in quanto è la prima introduzione del metodo non violento. Il posto di Bobbio nella nostra contemporaneità, ma ancor più nella nostra continuità, sta nell’esempio della sua passione civile, nella sua umile determinazione a rinnovare, rispettando i tempi e gli spazi dell’individuo, il significante e il significato di “passione” e di “civiltà”.
In questo momento della nostra democrazia, per usare le parole di Mercedes Bresso, Bobbio sarebbe un po’ triste nel vedere l’Italia, stante i toni delle parole usate come armi, sull’orlo di una sorta di guerra civile, quasi che le istituzioni di garanzia di cui disponiamo non fossero sufficienti a garantire la libertà di tutti, maggioranza e opposizione. Il presidente della Repubblica non può essere coinvolto in dispute di parte di cui lui non si sente né origine, né destinatario. E il capo dello Stato, presente a Torino, portando la sua testimonianza in onore di Norberto Bobbio, affettuoso amico e compagno della sua storia, così si è espresso «…L’approccio partigiano naturale in chi fa politica è qualcosa di cui ci si spoglia in nome di una visione più ampia. Tutti i miei predecessori, a cominciare nel primo settennato da Luigi Einaudi, avevano ciascuno la propria storia politica. Sapevano, venendo eletti capo dello Stato, di doverla e poterla non nasconderla, ma trascenderla… Quella del capo dello Stato, potere neutro al di sopra della parti fuori della mischia politica, non è una finzione: è la garanzia di moderazione di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell’occidente democratico. Per quanto tensioni e difficoltà comportino adempiere un simile mandato proseguirò nell’esercizio sereno e fermo dei miei doveri e delle mie prerogative costituzionali e sono qui oggi anche per dirvi quanto siano state e siano per me preziose l’ispirazione civile e morale e la lezione di saggezza che ho tratto dal rapporto con Norberto Bobbio. Gliene sono ancora grato» A queste parole, ma soprattutto alla determinazione del tono con cui sono state pronunciate, il pubblico si è alzato in piedi offrendo al nostro presidente della Repubblica oltre due minuti d’applausi. Era applauso rivolto a noi stessi, donne e uomini, giovani e meno giovani, perché noi stessi abbiamo voluto all’unanimità ciò che adesso Napolitano rappresenta e che, ieri a Torino, ci ha confermato.
«Dal Novecento al Duemila. Il futuro di Norberto Bobbio». Così il Comitato Nazionale per le celebrazioni del Centenario della nascita di Norberto Bobbio, su iniziativa del Centro studi Piero Gobetti di Torino, ha (magistralmente) titolato il convegno internazionale in onore, più che in ricordo, di una straordinaria figura intellettuale e morale tra le più significative d’Italia, e dunque d’Europa, del Novecento. Bobbio seppe consegnarci, spiegandoci i concetti con proverbiale chiarezza, la realtà del ventesimo secolo. Quei concetti sono profondamente vivi nella realtà del ventunesimo. E’ dimostrato dal bisogno di farci raccontare di lui che ben conosceva il modo per identificare i problemi e dunque raggiungerne la fonte. Come ben spiega, all’apertura del convegno, Michelangelo Bovero, la chiarezza del maestro non è soltanto uno stile, una dote di nitore nella scrittura. E’ l’effetto che questa riverbera sul pensiero di tutti noi che così possiamo penetrare nel suo modo di pensare consentendoci di affrontare i problemi andandovi al cuore, superando equivoci e confusioni, involontarie o interessate. E’ un effetto, e uno specchio, del suo rigore intellettuale e morale. E’illuminismo, nel significato più semplice ed essenziale della parola.
«Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze» disse il maestro della filosofia del diritto.
Negli uomini di buona volontà seminare dubbi significa porsi e porre domande senza stancarsi mai di cercare risposte tra gli altri e negli altri. Di qui l’accettazione e il rispetto per il dialogo. In esso si materializza la ragione -la natura dell’essere- della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale, della pace. Bobbio, centrando l’esistenza della logica d’insieme di norme universali (dunque concepite all’unanimità e perciò identificabili con la natura delle cose, costituita dall’umano pensiero), ha saputo anche dimostrarci la spontanea conseguenza -la giustificazione- del perché i diritti dell’uomo sono ( e non: possono essere) inviolabili. La democrazia consiste non già nella staticità delle certezze date dall’individualità maggioritaria di chi al momento detiene il potere, bensì dalla consapevolezza che ben prima dell’individualità maggioritaria sussiste l’insieme di tutti gli individui che, per propria natura, hanno fornito gli impulsi perché la democrazia potesse prendere forma. Nella storia dell’uomo la democrazia rappresenta un fenomeno straordinario in quanto è la prima introduzione del metodo non violento. Il posto di Bobbio nella nostra contemporaneità, ma ancor più nella nostra continuità, sta nell’esempio della sua passione civile, nella sua umile determinazione a rinnovare, rispettando i tempi e gli spazi dell’individuo, il significante e il significato di “passione” e di “civiltà”.
In questo momento della nostra democrazia, per usare le parole di Mercedes Bresso, Bobbio sarebbe un po’ triste nel vedere l’Italia, stante i toni delle parole usate come armi, sull’orlo di una sorta di guerra civile, quasi che le istituzioni di garanzia di cui disponiamo non fossero sufficienti a garantire la libertà di tutti, maggioranza e opposizione. Il presidente della Repubblica non può essere coinvolto in dispute di parte di cui lui non si sente né origine, né destinatario. E il capo dello Stato, presente a Torino, portando la sua testimonianza in onore di Norberto Bobbio, affettuoso amico e compagno della sua storia, così si è espresso «…L’approccio partigiano naturale in chi fa politica è qualcosa di cui ci si spoglia in nome di una visione più ampia. Tutti i miei predecessori, a cominciare nel primo settennato da Luigi Einaudi, avevano ciascuno la propria storia politica. Sapevano, venendo eletti capo dello Stato, di doverla e poterla non nasconderla, ma trascenderla… Quella del capo dello Stato, potere neutro al di sopra della parti fuori della mischia politica, non è una finzione: è la garanzia di moderazione di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell’occidente democratico. Per quanto tensioni e difficoltà comportino adempiere un simile mandato proseguirò nell’esercizio sereno e fermo dei miei doveri e delle mie prerogative costituzionali e sono qui oggi anche per dirvi quanto siano state e siano per me preziose l’ispirazione civile e morale e la lezione di saggezza che ho tratto dal rapporto con Norberto Bobbio. Gliene sono ancora grato» A queste parole, ma soprattutto alla determinazione del tono con cui sono state pronunciate, il pubblico si è alzato in piedi offrendo al nostro presidente della Repubblica oltre due minuti d’applausi. Era applauso rivolto a noi stessi, donne e uomini, giovani e meno giovani, perché noi stessi abbiamo voluto all’unanimità ciò che adesso Napolitano rappresenta e che, ieri a Torino, ci ha confermato.
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Storia
Con il papello i boss cercarono di dettare l'agenda al governo
da Peter Gomez e Giuseppe Lo Bianco
Nel ‘93, Cosa Nostra replicava ai decreti di proroga del 41 bis con camion carichi di esplosivo e attentati a raffica. Un auto non venne fatta esplodere a pochi giorni dalla revoca del carcere duro per i mafiosi
E ora il papello entra anche nell’inchiesta sulle stragi del ‘92: i magistrati di Caltanissetta hanno acquisito informalmente ieri mattina l’elenco di richieste avanzate dalla mafia allo Stato. E sui tavoli dei pm sono tornati anche atti trasmessi nei mesi scorsi dalla procura di Firenze utili a rimettere insieme i tasselli di un puzzle lungo 17 anni e di una trattativa che, secondo l’ipotesi investigativa, non si esaurisce nella sola stagione delle stragi del ‘92, ma prosegue anche l’anno dopo, e ben oltre. Giungendo, forse, fino ai giorni nostri.
Per l’europarlamentare Rita Borsellino, sorella del giudice ucciso, il papello è “la conferma di tutto ciò che fino ad ora è stata considerata solo un’ipotesi. Cioè che la trattativa è esistita. Una conferma importante su cose che si basavano solo sulle dichiarazioni dei pentiti”. E lo aveva ben capito il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, morto d’infarto nel 2003, che sei anni fa aveva scoperto che la cronologia delle bombe del 1993 non era stata casuale. Secondo Chelazzi dietro a quella lunga scia di sangue c’era una strategia precisa, tesa a calibrare l’esplosione del tritolo sulle decisioni in materia di carcere duro (41 bis) adottate dal ministero di Grazia e Giustizia. Qualcuno infatti (secondo quella ipotesi), teneva costantemente informati i boss di quanto accadeva in via Arenula, e Cosa Nostra avrebbe utilizzato quelle notizie per proseguire la trattativa con lo Stato.
È la seconda fase, dopo quella del papello del giugno ‘92, fatta di messaggi trasversali, minacce e tritolo che avrebbe cominciato a dare i suoi frutti tra il 4 e il 6 novembre di sedici anni fa, quando all’improvviso a 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone fu revocato il 41 bis. Il pm era partito dalla storia di un’autobomba che non è mai esplosa: quella piazzata a Roma a poche centinaia di metri dallo stadio Olimpico domenica 31 ottobre 1993. Quel giorno, un commando di sole quattro persone posteggia in via dei Gladiatori una Lancia Thema rubata carica di chiodi e di tritolo che avrebbe dovuto saltare in aria al termine di Lazio-Udinese al passaggio di due autobus dei carabinieri. L’obiettivo dichiarato era quello di fare più vittime possibile tra i militari. Ma la bomba radiocomandata non esplode e la Thema rimane lì, posteggiata a lungo prima di essere rimossa.
Gli investigatori per anni si sono chiesti perché l’attentato non fu portato a termine la domenica successiva, il 7 novembre, quando si giocava Roma-Foggia. Poi, quando Chelazzi ha scoperto la revoca del 41 bis ai mafiosi dell’Ucciardone decisa il 4 novembre, hanno ipotizzato l’esistenza di un canale, mentre esplodevano le bombe, attraverso il quale mafia e Stato dialogavano. Un canale che arrivava fino alle stanze del ministero di Grazia e Giustizia. Per questo gli ultimi atti d’indagine di Chelazzi sono stati dedicati al fronte delle carceri. Il pm, prima di morire, aveva tra gli altri ascoltato come testimoni l’ex Guardasigilli Claudio Martelli; l’ex direttore del Dap (direzione amministrativa penitenziaria) Nicolò Amato (sostituito il 4 giugno ‘93); i familiari e i collaboratori di Francesco Di Maggio, lo scomparso pm milanese, che dall’estate ‘93 era vicedirettore del Dap; Livia Pomodoro, allora dirigente del ministero della Giustizia; l’attuale direttore del Sisde, il generale Mario Mori e il suo autista, i cappellani delle carceri di Pianosa e Porto Azzurro e il loro ispettore generale, monsignor Giorgio Caniato.
Alla base di tutti gli interrogatori, un’ipotesi da verificare: le stragi del ‘93 furono decise principalmente per tentare di costringere lo Stato a revocare il 41 bis, firmato da Martelli il 20 luglio del 1992, subito dopo l’attentato a Paolo Borsellino. Infatti, lo stato maggiore di Cosa Nostra contrappunta le proroghe dei decreti, firmate dal ministro Conso dal 16 luglio in avanti, con una nuova raffica di attentati. Perché quasi nelle stesse ore in cui erano in corso le notifiche delle proroghe del carcere duro, partivano da Palermo i camion con l’esplosivo per Roma e Milano. Per poter eseguire gli attentati, come poi è successo, praticamente negli stessi giorni in cui gli uomini d’onore ricevevano le notifiche delle proroghe.
Nel ‘93, Cosa Nostra replicava ai decreti di proroga del 41 bis con camion carichi di esplosivo e attentati a raffica. Un auto non venne fatta esplodere a pochi giorni dalla revoca del carcere duro per i mafiosi
E ora il papello entra anche nell’inchiesta sulle stragi del ‘92: i magistrati di Caltanissetta hanno acquisito informalmente ieri mattina l’elenco di richieste avanzate dalla mafia allo Stato. E sui tavoli dei pm sono tornati anche atti trasmessi nei mesi scorsi dalla procura di Firenze utili a rimettere insieme i tasselli di un puzzle lungo 17 anni e di una trattativa che, secondo l’ipotesi investigativa, non si esaurisce nella sola stagione delle stragi del ‘92, ma prosegue anche l’anno dopo, e ben oltre. Giungendo, forse, fino ai giorni nostri.
Per l’europarlamentare Rita Borsellino, sorella del giudice ucciso, il papello è “la conferma di tutto ciò che fino ad ora è stata considerata solo un’ipotesi. Cioè che la trattativa è esistita. Una conferma importante su cose che si basavano solo sulle dichiarazioni dei pentiti”. E lo aveva ben capito il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, morto d’infarto nel 2003, che sei anni fa aveva scoperto che la cronologia delle bombe del 1993 non era stata casuale. Secondo Chelazzi dietro a quella lunga scia di sangue c’era una strategia precisa, tesa a calibrare l’esplosione del tritolo sulle decisioni in materia di carcere duro (41 bis) adottate dal ministero di Grazia e Giustizia. Qualcuno infatti (secondo quella ipotesi), teneva costantemente informati i boss di quanto accadeva in via Arenula, e Cosa Nostra avrebbe utilizzato quelle notizie per proseguire la trattativa con lo Stato.
È la seconda fase, dopo quella del papello del giugno ‘92, fatta di messaggi trasversali, minacce e tritolo che avrebbe cominciato a dare i suoi frutti tra il 4 e il 6 novembre di sedici anni fa, quando all’improvviso a 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone fu revocato il 41 bis. Il pm era partito dalla storia di un’autobomba che non è mai esplosa: quella piazzata a Roma a poche centinaia di metri dallo stadio Olimpico domenica 31 ottobre 1993. Quel giorno, un commando di sole quattro persone posteggia in via dei Gladiatori una Lancia Thema rubata carica di chiodi e di tritolo che avrebbe dovuto saltare in aria al termine di Lazio-Udinese al passaggio di due autobus dei carabinieri. L’obiettivo dichiarato era quello di fare più vittime possibile tra i militari. Ma la bomba radiocomandata non esplode e la Thema rimane lì, posteggiata a lungo prima di essere rimossa.
Gli investigatori per anni si sono chiesti perché l’attentato non fu portato a termine la domenica successiva, il 7 novembre, quando si giocava Roma-Foggia. Poi, quando Chelazzi ha scoperto la revoca del 41 bis ai mafiosi dell’Ucciardone decisa il 4 novembre, hanno ipotizzato l’esistenza di un canale, mentre esplodevano le bombe, attraverso il quale mafia e Stato dialogavano. Un canale che arrivava fino alle stanze del ministero di Grazia e Giustizia. Per questo gli ultimi atti d’indagine di Chelazzi sono stati dedicati al fronte delle carceri. Il pm, prima di morire, aveva tra gli altri ascoltato come testimoni l’ex Guardasigilli Claudio Martelli; l’ex direttore del Dap (direzione amministrativa penitenziaria) Nicolò Amato (sostituito il 4 giugno ‘93); i familiari e i collaboratori di Francesco Di Maggio, lo scomparso pm milanese, che dall’estate ‘93 era vicedirettore del Dap; Livia Pomodoro, allora dirigente del ministero della Giustizia; l’attuale direttore del Sisde, il generale Mario Mori e il suo autista, i cappellani delle carceri di Pianosa e Porto Azzurro e il loro ispettore generale, monsignor Giorgio Caniato.
Alla base di tutti gli interrogatori, un’ipotesi da verificare: le stragi del ‘93 furono decise principalmente per tentare di costringere lo Stato a revocare il 41 bis, firmato da Martelli il 20 luglio del 1992, subito dopo l’attentato a Paolo Borsellino. Infatti, lo stato maggiore di Cosa Nostra contrappunta le proroghe dei decreti, firmate dal ministro Conso dal 16 luglio in avanti, con una nuova raffica di attentati. Perché quasi nelle stesse ore in cui erano in corso le notifiche delle proroghe del carcere duro, partivano da Palermo i camion con l’esplosivo per Roma e Milano. Per poter eseguire gli attentati, come poi è successo, praticamente negli stessi giorni in cui gli uomini d’onore ricevevano le notifiche delle proroghe.
Papello: le richieste ''accolte'' negli anni
di Anna Petrozzi e Pietro Orsatti
Ecce “papello”. Si ipotizza che molte delle pretese della Cupola siano state progressivamente accolte. Punto per punto, le richieste e i “cedimenti”. Intoccata la sentenza del Maxi, ma sotto processo era la vecchia commissione. Sono dodici i punti del “papello”, contenente le richieste di Cosa nostra allo Stato per interrompere la stagione delle stragi.
Da tempo si ipotizza anche che alcuni dei punti siano stati perfino accolti, che un livello di incontro sia stato trovato, non tanto con Riina, quanto con Provenzano, più ragionevole e soprattutto meno propenso a proseguire con una stagione di sangue. Il documento, di cui finora non è stato consegnato l’originale per eventuali perizie, è ora nelle mani dei pm di Palermo. L’originale, a quanto si ipotizza, sarebbe all’interno di una cassetta di sicurezza in un istituto di credito estero.
E allora andiamo a vederli questi punti, uno a uno.
Punto uno: la revisione del maxi processo. Richiesta figlia dei tempi. Infatti al maxi processo erano stati condannati soprattutto gli esponenti della “vecchia” mafia. Forse oggi i mafiosi dovrebbero chiedere la revisione del processo Gotha.
Punto due: abolizione del 41 bis, il regime speciale per i mafiosi. Da tempo si sta valutando una riforma dell’istituto, ma intanto la messa in opera della norma fa acqua da tutte le parti. Innumerevoli i casi di boss che sottoposti al regime di carcere duro comunicano tra loro e con l’esterno. Alla fine del 2008 i Madonia, stragisti condannati all’ergastolo, gestivano il mandamento di Resuttana impartendo ordini attraverso i familiari liberi, mentre all’interno della Casa circondariale di Tolmezzo il mammasantissima della ‘ndrangheta Giuseppe Piromalli sfruttava l’ora di socialità per riunirsi e discutere di affari e strategie comuni con capimafia della portata di Antonino Cinà.
Punto tre: abolizione della Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni. La norma è tuttora in vigore, ma non è stata aggiornata e la questione della confisca, e della verifica successiva che non ritornino sotto il controllo dei boss, rimane molto spinosa. Basti pensare che il 36% dei beni confiscati alla criminalità organizzata è sotto l’ipoteca delle banche e il 30% è occupato dagli stessi mafiosi.
Punto quattro: riforma della legge sui pentiti. Attraverso vari provvedimenti e sentenze lo status di collaboratore è profondamente mutato, ma è mutata soprattutto la tutela dell’altra figura testimoniale, quella dei testimoni di giustizia, che nel tempo è stata svuotata creando di fatto una serie di casi singoli e di contenziosi con il ministero dell’Interno sulla questione della protezione
Punto cinque: legge sulla dissociazione mafiosa. Simile a quella prevista per il terrorismo, la richiesta era l’attenuazione della pena davanti a una “dichiarazione” di dissociazione. Con l’introduzione della figura del “dichiarante” di fatto si è cercato un punto anche su questo argomento.
Punto sei: scarcerazione per i detenuti 70enni. Anche per i detenuti sottoposti al 41 bis sono numerosi i casi di allentamento. Tredici padrini appartenenti a cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra sono stati liberati dal carcere duro tra il 2008 e 2009, che vanno ad aggiungersi ai 37 già passati al regime di carcere normale nell’anno precedente. Tra questi Gioacchino Calabrò, Salvatore Benigno o Giuseppe Barranca, tutti stragisti, tutti protagonisti della terribile stagione di sangue degli anni ’92 e ’93. Mentre non è da sottovalutare il caso, seppur diverso, di Bruno Contrada.
Punto sette: chiusura delle supercarceri. Che nel caso di Pianosa e dell’Asinara è avvenuto.
Punto otto: trasferimento dei boss nelle carceri vicine a casa. Come nel caso del 41 bis è competenza dei giudici di sorveglianza. Vi sono stati casi di avvicinamento, ma soprattutto allentamenti nella stretta delle visite dei parenti. In alcuni casi, tipo quello delle visite della figlia del boss Leonardo Vitale in carcere, i colloqui venivano utilizzati per la gestione degli “affari” del clan.
Punto nove: abolizione della censura carceraria della posta. Quando oggi boss mafiosi al 41 bis inviano e pubblicano lettere sui giornali la richiesta fa sorridere.
Punto dieci: allentamento controlli rapporti con i familiari. Come per il punto otto, la questione si è rivelata un colabrodo.
Punto undici: arresto per mafia solo in flagranza. Ovviamente non è stata formalmente accolta, ma solo andando a guardare le operazioni degli ultimi mesi, ad esempio la Perseo del dicembre 2008, si nota come in gran parte siano scattate attenuanti e scarcerazioni velocissime per i mafiosi indagati.
Punto dodici: defiscalizzazione della benzina in Sicilia. Sembra una presa in giro, in realtà era un’idea di Riina per riacquisire il “consenso” perso dopo la strage di Capaci
Ecce “papello”. Si ipotizza che molte delle pretese della Cupola siano state progressivamente accolte. Punto per punto, le richieste e i “cedimenti”. Intoccata la sentenza del Maxi, ma sotto processo era la vecchia commissione. Sono dodici i punti del “papello”, contenente le richieste di Cosa nostra allo Stato per interrompere la stagione delle stragi.
Da tempo si ipotizza anche che alcuni dei punti siano stati perfino accolti, che un livello di incontro sia stato trovato, non tanto con Riina, quanto con Provenzano, più ragionevole e soprattutto meno propenso a proseguire con una stagione di sangue. Il documento, di cui finora non è stato consegnato l’originale per eventuali perizie, è ora nelle mani dei pm di Palermo. L’originale, a quanto si ipotizza, sarebbe all’interno di una cassetta di sicurezza in un istituto di credito estero.
E allora andiamo a vederli questi punti, uno a uno.
Punto uno: la revisione del maxi processo. Richiesta figlia dei tempi. Infatti al maxi processo erano stati condannati soprattutto gli esponenti della “vecchia” mafia. Forse oggi i mafiosi dovrebbero chiedere la revisione del processo Gotha.
Punto due: abolizione del 41 bis, il regime speciale per i mafiosi. Da tempo si sta valutando una riforma dell’istituto, ma intanto la messa in opera della norma fa acqua da tutte le parti. Innumerevoli i casi di boss che sottoposti al regime di carcere duro comunicano tra loro e con l’esterno. Alla fine del 2008 i Madonia, stragisti condannati all’ergastolo, gestivano il mandamento di Resuttana impartendo ordini attraverso i familiari liberi, mentre all’interno della Casa circondariale di Tolmezzo il mammasantissima della ‘ndrangheta Giuseppe Piromalli sfruttava l’ora di socialità per riunirsi e discutere di affari e strategie comuni con capimafia della portata di Antonino Cinà.
Punto tre: abolizione della Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni. La norma è tuttora in vigore, ma non è stata aggiornata e la questione della confisca, e della verifica successiva che non ritornino sotto il controllo dei boss, rimane molto spinosa. Basti pensare che il 36% dei beni confiscati alla criminalità organizzata è sotto l’ipoteca delle banche e il 30% è occupato dagli stessi mafiosi.
Punto quattro: riforma della legge sui pentiti. Attraverso vari provvedimenti e sentenze lo status di collaboratore è profondamente mutato, ma è mutata soprattutto la tutela dell’altra figura testimoniale, quella dei testimoni di giustizia, che nel tempo è stata svuotata creando di fatto una serie di casi singoli e di contenziosi con il ministero dell’Interno sulla questione della protezione
Punto cinque: legge sulla dissociazione mafiosa. Simile a quella prevista per il terrorismo, la richiesta era l’attenuazione della pena davanti a una “dichiarazione” di dissociazione. Con l’introduzione della figura del “dichiarante” di fatto si è cercato un punto anche su questo argomento.
Punto sei: scarcerazione per i detenuti 70enni. Anche per i detenuti sottoposti al 41 bis sono numerosi i casi di allentamento. Tredici padrini appartenenti a cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra sono stati liberati dal carcere duro tra il 2008 e 2009, che vanno ad aggiungersi ai 37 già passati al regime di carcere normale nell’anno precedente. Tra questi Gioacchino Calabrò, Salvatore Benigno o Giuseppe Barranca, tutti stragisti, tutti protagonisti della terribile stagione di sangue degli anni ’92 e ’93. Mentre non è da sottovalutare il caso, seppur diverso, di Bruno Contrada.
Punto sette: chiusura delle supercarceri. Che nel caso di Pianosa e dell’Asinara è avvenuto.
Punto otto: trasferimento dei boss nelle carceri vicine a casa. Come nel caso del 41 bis è competenza dei giudici di sorveglianza. Vi sono stati casi di avvicinamento, ma soprattutto allentamenti nella stretta delle visite dei parenti. In alcuni casi, tipo quello delle visite della figlia del boss Leonardo Vitale in carcere, i colloqui venivano utilizzati per la gestione degli “affari” del clan.
Punto nove: abolizione della censura carceraria della posta. Quando oggi boss mafiosi al 41 bis inviano e pubblicano lettere sui giornali la richiesta fa sorridere.
Punto dieci: allentamento controlli rapporti con i familiari. Come per il punto otto, la questione si è rivelata un colabrodo.
Punto undici: arresto per mafia solo in flagranza. Ovviamente non è stata formalmente accolta, ma solo andando a guardare le operazioni degli ultimi mesi, ad esempio la Perseo del dicembre 2008, si nota come in gran parte siano scattate attenuanti e scarcerazioni velocissime per i mafiosi indagati.
Punto dodici: defiscalizzazione della benzina in Sicilia. Sembra una presa in giro, in realtà era un’idea di Riina per riacquisire il “consenso” perso dopo la strage di Capaci
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La crisi è alle nostre spalle. O qualcuno volta le spalle alla crisi?
di Maurizio Franzini
Se in pochi - ma più di quanti si dica - hanno previsto la crisi, sono in tanti – forse troppi – a prevedere che la ripresa è alle porte. Leggiamo, su molti giornali, che la crisi è oramai alle spalle e che i segnali di una prossima fase di espansione si fanno sempre più chiari. Spesso queste notizie prendono spunto da documenti redatti da prestigiose organizzazioni internazionali. Forse sarebbe meglio dire: da qualche affermazione presente in tali documenti. E’ questo, ad esempio, il caso del recente World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale che si apre richiamando alcuni recenti segnali positivi a livello mondiale – riguardanti, ad esempio, l’andamento delle borse e la liquidità delle banche - e su questa base fa affermazioni orientate all’ottimismo. Naturalmente la considerazione di altri dati potrebbe mettere in dubbio questi ottimistici orientamenti; in particolare, quelli sulla disoccupazione che segnalano, a livello di paesi OCSE, un forte peggioramento nel corso dell’anno conclusosi a agosto scorso e illustrano tendenze spesso non incoraggianti nei mesi più vicini. Ma più che a questi dati, per meglio apprezzare le basi dell’ottimismo, è utile fare riferimento al senso generale del documento stesso. Una lettura più attenta del World Economic Outlook chiarisce che, se alcuni problemi sono alle nostre spalle (in particolare il timore di un collasso del sistema finanziario e creditizio), molti sono ancora – drammaticamente irrisolti – davanti a noi. Dunque, si può affermare che la crisi è alle nostre spalle solo se la si intende in un senso molto restrittivo.
Un altro esempio è un documento dell’OCSE che rende noto il valore assunto da un indice composito diretto a cogliere, sotto diversi profili, l’andamento dell’economia. Questo indice segnala un miglioramento rispetto ai mesi scorsi e colloca la Francia e l’Italia nelle posizioni migliori. La notizia ha avuto ampio risalto su larga parte dei nostri giornali, che hanno sostanzialmente equiparato il miglioramento dell’indice all’annuncio di un’imminente ripresa. In realtà basta leggere qualche riga del documento dell’OCSE per comprendere che l’indice – quando funziona – segnala soltanto l’avvicinarsi della fine della fase di caduta, ma nulla è in grado di dire su quello che accadrà dopo, se l’economia decollerà, se si fermerà per un po’ per poi precipitare di nuovo verso il basso o chissà cos’altro.
Qualche volta i giudizi improntati all’ottimismo sembrano scaturire dal sollievo per avere evitato una crisi rapida e violenta come quello degli anni ’30. Questo pericolo, che era stato evocato con eccessiva facilità, è stato scongiurato, in larghissima misura, grazie al poderoso intervento pubblico, le cui potenzialità nel fronteggiare crisi anche virulente sono note oggi come non erano ottanta anni fa.
La politica fiscale e quella monetaria, al di là delle polemiche spesso strumentali innescate da alcuni “acerrimi amici” del mercato, sono state utilizzate – nella gran parte dei paesi – come doveva essere fatto, per scongiurare un disastro come quello degli anni ’30. E hanno, nel complesso, ottenuto, il loro scopo. Ma proprio da qui occorre partire per esprimersi con più precisione sulla questione se la crisi sia davvero alle nostre spalle.
Leggendo il World Economic Outlook, è facile cogliere il punto essenziale, peraltro ben illustrato anche da un buon numero di attenti commentatori. L’intervento fiscale e monetario ha frenato la crisi, ma questa è cosa ben diversa dall’affermare che se questo intervento, soprattutto quello fiscale, venisse ridimensionato le cose tornerebbero alla normalità e i pericoli che abbiamo corso non si ripresenterebbero, forse in forma più acuta. Insomma, in gran parte dei paesi avanzati, se l’intervento pubblico venisse ricondotto alla “normalità” precedente la crisi, i sistemi economici sarebbero incapaci di sostenere elevati livelli di attività economica. Dunque, si potrebbe dire che la cura ha frenato il decorso della malattia senza, però, ricostituire la normale fisiologia del malato. Ma questo non risolve il problema, perché si tratta di definire la “normalità” e di individuare il sentiero che consente di raggiungerla.
E’ evidente che per molti la “normalità” consiste – eventualmente con marginali aggiustamenti - in quelle stesse regole del gioco che erano in vigore prima di questo “incidente di percorso”. Ed è probabilmente questa la ragione per la quale non si hanno tracce di un’ansia riformatrice adeguata alla serietà delle questioni.
Nell’idea di “normalità” non rientrano, naturalmente, deficit e debiti pubblici dell’entità attuale. Come è ovvio, per effetto del rallentamento dell’economia e dell’espansione della spesa pubblica, l’eccesso di uscite sulle entrate pubbliche, in rapporto al Pil, è cresciuto a dismisura, trascinando con sé anche il debito. Non occorre essere appassionati difensori della tesi che il bilancio pubblico debba essere in pareggio, per ritenere “non normale” la situazione attuale. Ma, naturalmente, questa è cosa diversa dal convincimento che siano immodificabili le regole o le concezioni dominanti prima della crisi. Si spera che questo non sia il convincimento della Commissione Europea e che le procedure di infrazione da essa aperte nei confronti di numerosi paesi, per eccesso di deficit, non abbiano lo scopo di riaffermare rigidamente le regole del Patto di Crescita e Stabilità. Si spera questo perché ripristinare quella “normalità” equivarrebbe a privare il malato di quelle cure essenziali da cui ancora dipende in modo decisivo.
Nel citato documento del FMI, la consapevolezza di questo problema è vivissima e la prosa non nasconde questo decisivo dilemma: che fare se la “normalità” impone di ridimensionare la cura ma il malato non si regge ancora sulle sue gambe?
I suggerimenti, ancorché molto ragionevoli, appaiono privi di forza e oscillano tra la raccomandazione di verificare che la cura (anormale) non crei altre patologie (perché il sistema non sopporterebbe deficit pubblici prolungati), e il timore che, senza cure, la malattia peggiori. Al di sopra di tutto aleggia la speranza che il malato si riprenda da solo, magari rinvigorito dallo scampato pericolo (non è il ’29!). Insomma un bel pasticcio, aggravato dal fatto che se si riducono le dosi di cura fiscale non si può fare ricorso in modo compensativo alla cura monetaria, perché anche questa è stata somministrata in dosi eccezionali.
La costruzione di una nuova “normalità” con un meno esteso intervento pubblico dipende da molte condizioni. Una delle più importanti, a livello internazionale, richiede che i paesi in precedenza orientati alle esportazioni e molto risparmiatori (come la Cina) consumino di più e quelli con caratteristiche opposte (come gli Usa) consumino meno. Il primo effetto dovrebbe eccedere il secondo in modo da ampliare la domanda globale mondiale, senza necessità di altre compensazioni, come potrebbero essere quelle derivanti da un peso stabilmente maggiore degli investimenti produttivi. Assicurare questo cambiamento non è per nulla agevole e richiede, a sua volta, la soddisfazione di un complesso insieme di condizioni.
Tra queste, assume importanza anche la distribuzione del reddito all’interno dei vari paesi per gli effetti positivi che una riduzione delle disuguaglianze, generalmente molto elevate ovunque, potrebbe avere sulla domanda di consumo e su altri comportamenti favorevoli allo stabilirsi di una nuova “normalità”. Per raggiungere questo obiettivo non occorre basarsi soltanto o prevalentemente sul sistema fiscale e sulla spesa sociale. Possono essere, ad esempio, molto utili interventi incisivi sul mercato del lavoro che rovescino la tendenza alla stagnazione dei salari manifestatasi per lunghi anni in molti paesi, tra i quali il nostro.
Anche altri interventi sui sistemi di Welfare potrebbero aiutare. Ad esempio, la realizzazione in Cina di un buon sistema previdenziale pubblico potrebbe avere l’effetto di ridurre i risparmi precauzionali effettuati allo scopo di limitare i rischi di povertà in vecchiaia e, quindi, di contribuire all’espansione dei consumi. Naturalmente, la complessiva desiderabilità di questi cambiamenti dipende anche da altre considerazioni, come quelle relative all’impatto dei maggiori consumi sulla sostenibilità ambientale. Ma questo è un problema troppo complesso per essere affrontato qui.
Dunque, la costruzione di una nuova “normalità” che non abbia i difetti della vecchia e che consenta di limitare le dosi della cura fiscale e monetaria (che rischia di procurare essa stessa ulteriori danni) richiede interventi ben più incisivi e, sotto molti aspetti, più radicali rispetto a quelli finora realizzati e a quelli di cui si discute nel mondo occidentale, senza dire del nostro paese. Tali interventi dovrebbero porsi prioritariamente l’obiettivo di fare in modo che il mercato produca “spontaneamente” (e non solo per effetto di un’azione redistributiva del Welfare difficile da realizzare su ampia scala) una minore disuguaglianza e, anche per questo, conduca a una maggiore capacità di assorbimento della produzione.
Quando si afferma che la crisi è alle spalle e non si tiene conto di questi problemi viene di pensare che nulla è cambiato tranne la direzione in cui molti voltano le proprie spalle.
Se in pochi - ma più di quanti si dica - hanno previsto la crisi, sono in tanti – forse troppi – a prevedere che la ripresa è alle porte. Leggiamo, su molti giornali, che la crisi è oramai alle spalle e che i segnali di una prossima fase di espansione si fanno sempre più chiari. Spesso queste notizie prendono spunto da documenti redatti da prestigiose organizzazioni internazionali. Forse sarebbe meglio dire: da qualche affermazione presente in tali documenti. E’ questo, ad esempio, il caso del recente World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale che si apre richiamando alcuni recenti segnali positivi a livello mondiale – riguardanti, ad esempio, l’andamento delle borse e la liquidità delle banche - e su questa base fa affermazioni orientate all’ottimismo. Naturalmente la considerazione di altri dati potrebbe mettere in dubbio questi ottimistici orientamenti; in particolare, quelli sulla disoccupazione che segnalano, a livello di paesi OCSE, un forte peggioramento nel corso dell’anno conclusosi a agosto scorso e illustrano tendenze spesso non incoraggianti nei mesi più vicini. Ma più che a questi dati, per meglio apprezzare le basi dell’ottimismo, è utile fare riferimento al senso generale del documento stesso. Una lettura più attenta del World Economic Outlook chiarisce che, se alcuni problemi sono alle nostre spalle (in particolare il timore di un collasso del sistema finanziario e creditizio), molti sono ancora – drammaticamente irrisolti – davanti a noi. Dunque, si può affermare che la crisi è alle nostre spalle solo se la si intende in un senso molto restrittivo.
Un altro esempio è un documento dell’OCSE che rende noto il valore assunto da un indice composito diretto a cogliere, sotto diversi profili, l’andamento dell’economia. Questo indice segnala un miglioramento rispetto ai mesi scorsi e colloca la Francia e l’Italia nelle posizioni migliori. La notizia ha avuto ampio risalto su larga parte dei nostri giornali, che hanno sostanzialmente equiparato il miglioramento dell’indice all’annuncio di un’imminente ripresa. In realtà basta leggere qualche riga del documento dell’OCSE per comprendere che l’indice – quando funziona – segnala soltanto l’avvicinarsi della fine della fase di caduta, ma nulla è in grado di dire su quello che accadrà dopo, se l’economia decollerà, se si fermerà per un po’ per poi precipitare di nuovo verso il basso o chissà cos’altro.
Qualche volta i giudizi improntati all’ottimismo sembrano scaturire dal sollievo per avere evitato una crisi rapida e violenta come quello degli anni ’30. Questo pericolo, che era stato evocato con eccessiva facilità, è stato scongiurato, in larghissima misura, grazie al poderoso intervento pubblico, le cui potenzialità nel fronteggiare crisi anche virulente sono note oggi come non erano ottanta anni fa.
La politica fiscale e quella monetaria, al di là delle polemiche spesso strumentali innescate da alcuni “acerrimi amici” del mercato, sono state utilizzate – nella gran parte dei paesi – come doveva essere fatto, per scongiurare un disastro come quello degli anni ’30. E hanno, nel complesso, ottenuto, il loro scopo. Ma proprio da qui occorre partire per esprimersi con più precisione sulla questione se la crisi sia davvero alle nostre spalle.
Leggendo il World Economic Outlook, è facile cogliere il punto essenziale, peraltro ben illustrato anche da un buon numero di attenti commentatori. L’intervento fiscale e monetario ha frenato la crisi, ma questa è cosa ben diversa dall’affermare che se questo intervento, soprattutto quello fiscale, venisse ridimensionato le cose tornerebbero alla normalità e i pericoli che abbiamo corso non si ripresenterebbero, forse in forma più acuta. Insomma, in gran parte dei paesi avanzati, se l’intervento pubblico venisse ricondotto alla “normalità” precedente la crisi, i sistemi economici sarebbero incapaci di sostenere elevati livelli di attività economica. Dunque, si potrebbe dire che la cura ha frenato il decorso della malattia senza, però, ricostituire la normale fisiologia del malato. Ma questo non risolve il problema, perché si tratta di definire la “normalità” e di individuare il sentiero che consente di raggiungerla.
E’ evidente che per molti la “normalità” consiste – eventualmente con marginali aggiustamenti - in quelle stesse regole del gioco che erano in vigore prima di questo “incidente di percorso”. Ed è probabilmente questa la ragione per la quale non si hanno tracce di un’ansia riformatrice adeguata alla serietà delle questioni.
Nell’idea di “normalità” non rientrano, naturalmente, deficit e debiti pubblici dell’entità attuale. Come è ovvio, per effetto del rallentamento dell’economia e dell’espansione della spesa pubblica, l’eccesso di uscite sulle entrate pubbliche, in rapporto al Pil, è cresciuto a dismisura, trascinando con sé anche il debito. Non occorre essere appassionati difensori della tesi che il bilancio pubblico debba essere in pareggio, per ritenere “non normale” la situazione attuale. Ma, naturalmente, questa è cosa diversa dal convincimento che siano immodificabili le regole o le concezioni dominanti prima della crisi. Si spera che questo non sia il convincimento della Commissione Europea e che le procedure di infrazione da essa aperte nei confronti di numerosi paesi, per eccesso di deficit, non abbiano lo scopo di riaffermare rigidamente le regole del Patto di Crescita e Stabilità. Si spera questo perché ripristinare quella “normalità” equivarrebbe a privare il malato di quelle cure essenziali da cui ancora dipende in modo decisivo.
Nel citato documento del FMI, la consapevolezza di questo problema è vivissima e la prosa non nasconde questo decisivo dilemma: che fare se la “normalità” impone di ridimensionare la cura ma il malato non si regge ancora sulle sue gambe?
I suggerimenti, ancorché molto ragionevoli, appaiono privi di forza e oscillano tra la raccomandazione di verificare che la cura (anormale) non crei altre patologie (perché il sistema non sopporterebbe deficit pubblici prolungati), e il timore che, senza cure, la malattia peggiori. Al di sopra di tutto aleggia la speranza che il malato si riprenda da solo, magari rinvigorito dallo scampato pericolo (non è il ’29!). Insomma un bel pasticcio, aggravato dal fatto che se si riducono le dosi di cura fiscale non si può fare ricorso in modo compensativo alla cura monetaria, perché anche questa è stata somministrata in dosi eccezionali.
La costruzione di una nuova “normalità” con un meno esteso intervento pubblico dipende da molte condizioni. Una delle più importanti, a livello internazionale, richiede che i paesi in precedenza orientati alle esportazioni e molto risparmiatori (come la Cina) consumino di più e quelli con caratteristiche opposte (come gli Usa) consumino meno. Il primo effetto dovrebbe eccedere il secondo in modo da ampliare la domanda globale mondiale, senza necessità di altre compensazioni, come potrebbero essere quelle derivanti da un peso stabilmente maggiore degli investimenti produttivi. Assicurare questo cambiamento non è per nulla agevole e richiede, a sua volta, la soddisfazione di un complesso insieme di condizioni.
Tra queste, assume importanza anche la distribuzione del reddito all’interno dei vari paesi per gli effetti positivi che una riduzione delle disuguaglianze, generalmente molto elevate ovunque, potrebbe avere sulla domanda di consumo e su altri comportamenti favorevoli allo stabilirsi di una nuova “normalità”. Per raggiungere questo obiettivo non occorre basarsi soltanto o prevalentemente sul sistema fiscale e sulla spesa sociale. Possono essere, ad esempio, molto utili interventi incisivi sul mercato del lavoro che rovescino la tendenza alla stagnazione dei salari manifestatasi per lunghi anni in molti paesi, tra i quali il nostro.
Anche altri interventi sui sistemi di Welfare potrebbero aiutare. Ad esempio, la realizzazione in Cina di un buon sistema previdenziale pubblico potrebbe avere l’effetto di ridurre i risparmi precauzionali effettuati allo scopo di limitare i rischi di povertà in vecchiaia e, quindi, di contribuire all’espansione dei consumi. Naturalmente, la complessiva desiderabilità di questi cambiamenti dipende anche da altre considerazioni, come quelle relative all’impatto dei maggiori consumi sulla sostenibilità ambientale. Ma questo è un problema troppo complesso per essere affrontato qui.
Dunque, la costruzione di una nuova “normalità” che non abbia i difetti della vecchia e che consenta di limitare le dosi della cura fiscale e monetaria (che rischia di procurare essa stessa ulteriori danni) richiede interventi ben più incisivi e, sotto molti aspetti, più radicali rispetto a quelli finora realizzati e a quelli di cui si discute nel mondo occidentale, senza dire del nostro paese. Tali interventi dovrebbero porsi prioritariamente l’obiettivo di fare in modo che il mercato produca “spontaneamente” (e non solo per effetto di un’azione redistributiva del Welfare difficile da realizzare su ampia scala) una minore disuguaglianza e, anche per questo, conduca a una maggiore capacità di assorbimento della produzione.
Quando si afferma che la crisi è alle spalle e non si tiene conto di questi problemi viene di pensare che nulla è cambiato tranne la direzione in cui molti voltano le proprie spalle.
Segreti bancari, scudo fiscale. Girone infernale
di Roberta Lemma
Tutte le piu grandi inchieste, misteri e scandali italiani avevano e hanno come protagoniste le banche.
” Partivano assegni e tornava denaro contante. Tanto denaro: un miliardo e duecento milioni in banconote da 500 euro, soltanto tra il 2004 e il 2008. Un fiume di soldi con arrivo e traguardo sulla vetta del Monte Titano, in quel paradiso off shore autoctono che risponde al nome di San Marino. Un viaggio attraverso le linee d’ombra del sistema finanziario che ha consentito di ripulire denaro di dubbia provenienza. ”
Insomma, il principale istituto bancario di uno dei Paesi più criticati per le norme sulla trasparenza e sulla collaborazione contro il riciclaggio si forniva di denaro sonante per i suoi clienti dalla stessa Banca d’Italia, grazie alla schermatura fornita dal Monte dei Paschi. Cosa ne faceva poi la Cassa di quel denaro? Secondo le ipotesi investigative o lo restituiva pulito agli imprenditori oppure elargiva finanziamenti garantiti dal contante.
Quanti magistrati, giudici, bancari e politici son morti a causa di queste indagini? Tantissimi e le banche continuano a tracciare indisturbati le loro geometrie.
Per caso il segreto bancario esiste ancora? Si domandano negli ambienti. Assolutamente si e unito allo scudo fiscale appena legiferato il boomerang sarà e avrà effetti devastanti sulla già danneggiata situazione economica italiana. Ma solo per gli italiani civili e non per le grandi multinazionali o mega imprenditori abituè dei salotti super borghesi ed esclusivi.
Novembre 2007.
A parlare il Gran Maestro del Goi della repubblica del Titano ( San Marino ).
«Sono venuti qua per nascondere i loro soldi». Parla di un gruppo di potere finito sotto indagini e che gestivano un flusso di soldi che attraversa l’Italia partendo dalla Calabria arrivando all’Emilia Romagna. La Calabria, lo sappiamo, è la regione privilegiata dai fondi UE e sappiamo essere la UE un ulteriore organo a disposizione del cerchio concentrico e della comunità d’affari impunita e impettita . E’ l’asse della massoneria legata agli affari. Ma San Marino e i massoni Sammarinesi non ci stanno. Italo Canali, Gran Maestro ufficiale della Loggia Serenissima di San Marino, collegata con il Grande Oriente Italiano , affiliata alla casa madre americana del rito scozzese antico ed accettato dichiara: « Noi non c’entriamo con le porcherie che emergono dalle inchieste, perché siamo un gruppo di professionisti perbene, animato dalla logica ideale e dalla voglia di portare avanti i valori universali della massoneria. Esiste davvero una Loggia coperta a San Marino, costituita da uomini e donne, napoletani e calabresi. Tutti parlano della Gran Loggia di San Marino, anzi tutti ne straparlano. Però a noi nessuno ci invita in televisione e nessun magistrato ci ha mai ascoltati in tribunale. Non è strano?». Certo che lo è strano, se fossero invitati dai media e si divulgassero fonti e notizie l’Italia tremerebbe nelle sue fondamenta, nei suoi vertici politici!
Il comitato d’ affari e la Loggia di San Marino prendono corpo unaa mattina quando il pubblico ministero Luigi De Magistris interroga in una località segreta Caterina Merante, titolare di una delle tante società costituite da Antonino Saladino, che secondo l’ accusa riusciva ad ottenere finanziamenti milionari dall’ Unione Europea, statali e regionali. Un interrogatorio lunghissimo e pieno di tensione. Alla fine, Caterina Merante decide di vuotare il sacco e parla della «Loggia di San Marino» e del «comitato d’ affari» che gestirebbe i milioni di euro che sarebbero finiti in una miriade di società create da Saladino. E’ in quell’ occasione che, per la prima volta, viene fuori anche il nome di Romano Prodi, chiamato in causa perché «molto vicino» a Pietro Macrì, imprenditore calabrese, dirigente di una grande società di informatica e che per anni aveva lavorato anche a Bologna. «Ho conosciuto Antonio Saladino nel 1996, quando oggi come allora rappresentava il vertice della Compagnia delle Opere nel Sud Italia. E’ con la nascita di Obiettivo Lavoro e con il ruolo del Saladino che quest’ ultimo, utilizzando la Compagnia delle Opere, comincia a divenire una vera e propria potenza, non solo economica, ma anche politico-istituzionale, tenuto conto dei rapporti che si cominciano ad intensificare all’ interno della pubblica amministrazione e delle istituzioni stesse». La teste ha poi sostenuto che il potere di Saladino «si rafforzava, notevolmente, attraverso le modalità con cui venivano assunte le persone: invitava i politici e i rappresentanti delle varie istituzioni a segnalare persone da assumere. Il tutto in modo tale da creare una rete di potere e protezione. Continuando a svelare i retroscena che stavano dietro i finanziamenti pubblici ed europei Caterina Merante racconta che un ruolo centrale l’ aveva Pietro Macrì. E quando il pm le chiede quale era «l’ area politica di riferimento di Macrì», la teste risponde: «L’ area dell’ onorevole Romano Prodi». E quando il pm le chiede perché Saladino riteneva Macrì «persona influente», la donna risponde: «perché facente parte di quello che Saladino definiva “il comitato di affari di San Marino”». Tuttavia questo articolo non è giusto, poiché lo scrivente ha omesso di specificare la complicità di tutta la classe politica, destra e sinistra, collusa e immischiata per vie traverse in questa brutta storia ma, al tempo, Prodi doveva cadere.
L’altro giorno, ottobre 2009 in una pubblicità del ticinese Centro Studi Bancari Villa Negroni l’associazione bancaria della Svizzera italiana lancia su diversi quotidiani, tra cui Il Sole 24 Ore la seguente nota:
«Il segreto bancario – si legge nella pubblicità – ha l’obiettivo di proteggere la sfera privata dei clienti delle banche da interventi ingiustificati da parte di terzi; una serie di norme vieta infatti di principio la comunicazione illegittima dei dati bancari dei clienti, tutelando fermamente la riservatezza». Il segreto bancario svizzero è vivo e vegeto e i recenti avvenimenti a livello internazionale «non ne hanno modificato le caratteristiche nella sostanza».
La nostra agenzia delle Entrate ha recentemente escluso la Svizzera, così come San Marino, dalla lista dei Paesi extracomunitari dove è possibile regolarizzare i patrimoni senza rimpatriarli. I dati resi noti dall’agenzia mostrano poi che gran parte dei contribuenti italiani che nasconde soldi al Fisco, lo fa depositandoli in conti off schore svizzeri.
Naturalmente tali istituti sono preoccupati di perdere certi importanti clienti e per questo la campagna pubblicitaria dove si spiega che i ” loro segreti ” sono e resteranno al sicuro.
La nostra Agenzia delle Entrate conoscerebbe stime e depositi dei correntisti italiani nei forzieri delle banche elvetiche: circa 125 miliardi. Così il segreto in parte è stato sconfessato, le informazioni sui correntisti dei paradisi fiscali non sono più “off limits” come un tempo.
In questi ultimi anni sono stati diversi i casi di informazioni segrete trapelate oltre confine. Addirittura c’è una ista, Vaduz: un dvd con i nomi di 1.400 evasori fiscali titolari di un conto in Liechtenstein acquistato dai servizi segreti tedeschi a inizio 2008.
Molto clamore poi ha avuto la controversia tra il Governo americano e Ubs. La banca accusata dal fisco americano di aver favorito frodi ed evasioni fiscali, ha accettato infatti di rivelare all’amministrazione Usa i nomi di circa 5000 correntisti sospettati di evasione fiscale. C’è infine la lista rinvenuta dalla Guardia di Finanza nei documenti dell’avvocato ticinese Fabrizio Pessina. Un elenco in cui figurano più di 500 soggetti sospettati di evasione, tuttora all’esame del Fisco italiano.
I sammarinesi infastiditi da questa lotta all’evasione fiscale sbottano: «Fonti della Guardia di Finanza hanno stimato l’esatto ammontare delle somme giacenti su conti esteri: 125 miliardi sono in Svizzera, 86 miliardi sono in Lussemburgo, soltanto due sono a San Marino. Detto in percentuale, se queste cifre fossero reali si tratterebbe dello 0,72% del totale. E per lo 0,72% del totale avete criminalizzato uno Stato, e di fatto violato la sua sovranità? Uno scempio giuridico. Il nero a San Marino c’è, è vero. Ma quello che c’è qui da noi è nero in movimento. Entra ed esce dai confini. È vivo. Va ad alimentare l’economia e del sistema locale. Viene reinvestito. È denaro che viene usato, speso: soprattutto in tempi di stretta creditizia. Quello della Svizzera, del Liechtenstein, del Lussemburgo? È denaro ibernato. Bloccato. Non serve all’Italia. Non serve a niente e a nessuno. Tranne alle banche locali che ci accumulano commissioni e a coloro che lo sottraggono per andarselo a contemplare nelle feste comandate. In più, lo ripeto, è lo 0,72% del totale».
Mentre le banche italiane sono disponibili a ripagare alla clientela che decide di ‘’scudare” i costi sostenuti per il rimpatrio. Quel famoso 5% se lo caricano loro. Come? Vincolando i fondi in arrivo su conti a remunerazione tale che in tempi medio lunghi vadano a elidere i costi sostenuti per lo scudo. Quindi, le banche di San Marino cercano di convincere i loro ” clienti ” ad andare per un certo periodo in Svizzera, le inchieste come Whynot giaciono sepolte in chissà quale archivio, le banche indagate non vengono chiuse e l’evasione fiscale resta protetta e pubblicizzata come i pannolini della Pampers. Come se non bastasse Banca Etruria e la storia ci dice che tale banca è di sicura matrice massonica, più volte indagata, si dice pronta ad aiutare i suoi clienti a proposito dello scudo fiscale entrato in vigore: “Rispetto agli scudi precedenti, Banca Etruria dispone della presenza nel Gruppo bancario di due interessanti realtà come Banca Federico del Vecchio, istituto storico con otto sportelli a Firenze, e Banca Popolare Lecchese, con quattro filiali in Brianza” ha dichiarato Federico Baiocchi, Direttore Area Mercato di Banca Etruria. “Porremo particolare attenzione alla consulenza personalizzata e alla costruzione di un portafoglio pensato su misura. Metteremo infatti a disposizione dei clienti interessati circa cinquanta professionisti tra Gestori di Relazione Private, Specialist Investimenti e Referenti di Zona, appositamente formati sulla normativa e sulle opportunità commerciali e d’investimento, collegate allo scudo fiscale, oltre al Personale dei nostri 197 sportelli.”
Tutte le piu grandi inchieste, misteri e scandali italiani avevano e hanno come protagoniste le banche.
” Partivano assegni e tornava denaro contante. Tanto denaro: un miliardo e duecento milioni in banconote da 500 euro, soltanto tra il 2004 e il 2008. Un fiume di soldi con arrivo e traguardo sulla vetta del Monte Titano, in quel paradiso off shore autoctono che risponde al nome di San Marino. Un viaggio attraverso le linee d’ombra del sistema finanziario che ha consentito di ripulire denaro di dubbia provenienza. ”
Insomma, il principale istituto bancario di uno dei Paesi più criticati per le norme sulla trasparenza e sulla collaborazione contro il riciclaggio si forniva di denaro sonante per i suoi clienti dalla stessa Banca d’Italia, grazie alla schermatura fornita dal Monte dei Paschi. Cosa ne faceva poi la Cassa di quel denaro? Secondo le ipotesi investigative o lo restituiva pulito agli imprenditori oppure elargiva finanziamenti garantiti dal contante.
Quanti magistrati, giudici, bancari e politici son morti a causa di queste indagini? Tantissimi e le banche continuano a tracciare indisturbati le loro geometrie.
Per caso il segreto bancario esiste ancora? Si domandano negli ambienti. Assolutamente si e unito allo scudo fiscale appena legiferato il boomerang sarà e avrà effetti devastanti sulla già danneggiata situazione economica italiana. Ma solo per gli italiani civili e non per le grandi multinazionali o mega imprenditori abituè dei salotti super borghesi ed esclusivi.
Novembre 2007.
A parlare il Gran Maestro del Goi della repubblica del Titano ( San Marino ).
«Sono venuti qua per nascondere i loro soldi». Parla di un gruppo di potere finito sotto indagini e che gestivano un flusso di soldi che attraversa l’Italia partendo dalla Calabria arrivando all’Emilia Romagna. La Calabria, lo sappiamo, è la regione privilegiata dai fondi UE e sappiamo essere la UE un ulteriore organo a disposizione del cerchio concentrico e della comunità d’affari impunita e impettita . E’ l’asse della massoneria legata agli affari. Ma San Marino e i massoni Sammarinesi non ci stanno. Italo Canali, Gran Maestro ufficiale della Loggia Serenissima di San Marino, collegata con il Grande Oriente Italiano , affiliata alla casa madre americana del rito scozzese antico ed accettato dichiara: « Noi non c’entriamo con le porcherie che emergono dalle inchieste, perché siamo un gruppo di professionisti perbene, animato dalla logica ideale e dalla voglia di portare avanti i valori universali della massoneria. Esiste davvero una Loggia coperta a San Marino, costituita da uomini e donne, napoletani e calabresi. Tutti parlano della Gran Loggia di San Marino, anzi tutti ne straparlano. Però a noi nessuno ci invita in televisione e nessun magistrato ci ha mai ascoltati in tribunale. Non è strano?». Certo che lo è strano, se fossero invitati dai media e si divulgassero fonti e notizie l’Italia tremerebbe nelle sue fondamenta, nei suoi vertici politici!
Il comitato d’ affari e la Loggia di San Marino prendono corpo unaa mattina quando il pubblico ministero Luigi De Magistris interroga in una località segreta Caterina Merante, titolare di una delle tante società costituite da Antonino Saladino, che secondo l’ accusa riusciva ad ottenere finanziamenti milionari dall’ Unione Europea, statali e regionali. Un interrogatorio lunghissimo e pieno di tensione. Alla fine, Caterina Merante decide di vuotare il sacco e parla della «Loggia di San Marino» e del «comitato d’ affari» che gestirebbe i milioni di euro che sarebbero finiti in una miriade di società create da Saladino. E’ in quell’ occasione che, per la prima volta, viene fuori anche il nome di Romano Prodi, chiamato in causa perché «molto vicino» a Pietro Macrì, imprenditore calabrese, dirigente di una grande società di informatica e che per anni aveva lavorato anche a Bologna. «Ho conosciuto Antonio Saladino nel 1996, quando oggi come allora rappresentava il vertice della Compagnia delle Opere nel Sud Italia. E’ con la nascita di Obiettivo Lavoro e con il ruolo del Saladino che quest’ ultimo, utilizzando la Compagnia delle Opere, comincia a divenire una vera e propria potenza, non solo economica, ma anche politico-istituzionale, tenuto conto dei rapporti che si cominciano ad intensificare all’ interno della pubblica amministrazione e delle istituzioni stesse». La teste ha poi sostenuto che il potere di Saladino «si rafforzava, notevolmente, attraverso le modalità con cui venivano assunte le persone: invitava i politici e i rappresentanti delle varie istituzioni a segnalare persone da assumere. Il tutto in modo tale da creare una rete di potere e protezione. Continuando a svelare i retroscena che stavano dietro i finanziamenti pubblici ed europei Caterina Merante racconta che un ruolo centrale l’ aveva Pietro Macrì. E quando il pm le chiede quale era «l’ area politica di riferimento di Macrì», la teste risponde: «L’ area dell’ onorevole Romano Prodi». E quando il pm le chiede perché Saladino riteneva Macrì «persona influente», la donna risponde: «perché facente parte di quello che Saladino definiva “il comitato di affari di San Marino”». Tuttavia questo articolo non è giusto, poiché lo scrivente ha omesso di specificare la complicità di tutta la classe politica, destra e sinistra, collusa e immischiata per vie traverse in questa brutta storia ma, al tempo, Prodi doveva cadere.
L’altro giorno, ottobre 2009 in una pubblicità del ticinese Centro Studi Bancari Villa Negroni l’associazione bancaria della Svizzera italiana lancia su diversi quotidiani, tra cui Il Sole 24 Ore la seguente nota:
«Il segreto bancario – si legge nella pubblicità – ha l’obiettivo di proteggere la sfera privata dei clienti delle banche da interventi ingiustificati da parte di terzi; una serie di norme vieta infatti di principio la comunicazione illegittima dei dati bancari dei clienti, tutelando fermamente la riservatezza». Il segreto bancario svizzero è vivo e vegeto e i recenti avvenimenti a livello internazionale «non ne hanno modificato le caratteristiche nella sostanza».
La nostra agenzia delle Entrate ha recentemente escluso la Svizzera, così come San Marino, dalla lista dei Paesi extracomunitari dove è possibile regolarizzare i patrimoni senza rimpatriarli. I dati resi noti dall’agenzia mostrano poi che gran parte dei contribuenti italiani che nasconde soldi al Fisco, lo fa depositandoli in conti off schore svizzeri.
Naturalmente tali istituti sono preoccupati di perdere certi importanti clienti e per questo la campagna pubblicitaria dove si spiega che i ” loro segreti ” sono e resteranno al sicuro.
La nostra Agenzia delle Entrate conoscerebbe stime e depositi dei correntisti italiani nei forzieri delle banche elvetiche: circa 125 miliardi. Così il segreto in parte è stato sconfessato, le informazioni sui correntisti dei paradisi fiscali non sono più “off limits” come un tempo.
In questi ultimi anni sono stati diversi i casi di informazioni segrete trapelate oltre confine. Addirittura c’è una ista, Vaduz: un dvd con i nomi di 1.400 evasori fiscali titolari di un conto in Liechtenstein acquistato dai servizi segreti tedeschi a inizio 2008.
Molto clamore poi ha avuto la controversia tra il Governo americano e Ubs. La banca accusata dal fisco americano di aver favorito frodi ed evasioni fiscali, ha accettato infatti di rivelare all’amministrazione Usa i nomi di circa 5000 correntisti sospettati di evasione fiscale. C’è infine la lista rinvenuta dalla Guardia di Finanza nei documenti dell’avvocato ticinese Fabrizio Pessina. Un elenco in cui figurano più di 500 soggetti sospettati di evasione, tuttora all’esame del Fisco italiano.
I sammarinesi infastiditi da questa lotta all’evasione fiscale sbottano: «Fonti della Guardia di Finanza hanno stimato l’esatto ammontare delle somme giacenti su conti esteri: 125 miliardi sono in Svizzera, 86 miliardi sono in Lussemburgo, soltanto due sono a San Marino. Detto in percentuale, se queste cifre fossero reali si tratterebbe dello 0,72% del totale. E per lo 0,72% del totale avete criminalizzato uno Stato, e di fatto violato la sua sovranità? Uno scempio giuridico. Il nero a San Marino c’è, è vero. Ma quello che c’è qui da noi è nero in movimento. Entra ed esce dai confini. È vivo. Va ad alimentare l’economia e del sistema locale. Viene reinvestito. È denaro che viene usato, speso: soprattutto in tempi di stretta creditizia. Quello della Svizzera, del Liechtenstein, del Lussemburgo? È denaro ibernato. Bloccato. Non serve all’Italia. Non serve a niente e a nessuno. Tranne alle banche locali che ci accumulano commissioni e a coloro che lo sottraggono per andarselo a contemplare nelle feste comandate. In più, lo ripeto, è lo 0,72% del totale».
Mentre le banche italiane sono disponibili a ripagare alla clientela che decide di ‘’scudare” i costi sostenuti per il rimpatrio. Quel famoso 5% se lo caricano loro. Come? Vincolando i fondi in arrivo su conti a remunerazione tale che in tempi medio lunghi vadano a elidere i costi sostenuti per lo scudo. Quindi, le banche di San Marino cercano di convincere i loro ” clienti ” ad andare per un certo periodo in Svizzera, le inchieste come Whynot giaciono sepolte in chissà quale archivio, le banche indagate non vengono chiuse e l’evasione fiscale resta protetta e pubblicizzata come i pannolini della Pampers. Come se non bastasse Banca Etruria e la storia ci dice che tale banca è di sicura matrice massonica, più volte indagata, si dice pronta ad aiutare i suoi clienti a proposito dello scudo fiscale entrato in vigore: “Rispetto agli scudi precedenti, Banca Etruria dispone della presenza nel Gruppo bancario di due interessanti realtà come Banca Federico del Vecchio, istituto storico con otto sportelli a Firenze, e Banca Popolare Lecchese, con quattro filiali in Brianza” ha dichiarato Federico Baiocchi, Direttore Area Mercato di Banca Etruria. “Porremo particolare attenzione alla consulenza personalizzata e alla costruzione di un portafoglio pensato su misura. Metteremo infatti a disposizione dei clienti interessati circa cinquanta professionisti tra Gestori di Relazione Private, Specialist Investimenti e Referenti di Zona, appositamente formati sulla normativa e sulle opportunità commerciali e d’investimento, collegate allo scudo fiscale, oltre al Personale dei nostri 197 sportelli.”
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Il Ponte sullo Stretto? Una follia. Rischioso e utile solo per chi lo costruisce
di Stefano Corradino
"Una follia senza senso resa ancora più vergognosa dalla morte di 30 persone nel fango di Messina proprio lì dove andrebbero i piloni del ponte". Così il geologo Mario Tozzi, primo ricercatore del Cnr, commenta a caldo la notizia del Ponte sullo Stretto i cui lavori, stando a quanto ha detto il ministro Matteoli, inizieranno nel prossimo mese di dicembre. "Rischioso dal punto di vista sismico e idrogeologico. E quando non è dannoso è inutile. E poi tutti quei soldi dovrebbero essere impiegati per risanare quelle zone, non per coprirle di cemento. .."
Tozzi, se domani lei andasse in onda con una tua nuova trasmissione di approfondimento dedicata al Ponte sullo Stretto da dove partirebbe?
Comincerei ricordando che per andare da Villa San Giovanni a Messina in condizioni normali non si fa nessuna fila e si impiegano i 25 minuti canonici di piacevole traversata.
D'estate qualche coda in più ci sarà...
Certo, in particolare nei weekend ma con il Ponte ci sarebbero comunque delle code per il pedaggio.
lei è un affermato geologo. Dal suo punto di vista di studioso della terra quali rischi vede nel Ponte?
Geologicamente è un azzardo, ci sono frane a rotta di collo sul versante messinese e peggiori ancora sul fronte calabrese; le famose frane "a scivolamento profondo", quelle che potrebbero addrittura interessare il pilone di sostegno di Cannitello (una frazione nel Comune di San Giovanni, ndr).
C'è un rischio sismico?
C'è ed è elevatissimo; e non sanato, dal momento che nessuno di quei paesi non ha più del 25% di costruzioni antisismiche.
Ci saranno altri ponti nel mondo nelle stesse condizioni...
L'unico così lungo e sospeso è l'Akashi, in Giappone. Lungo la metà di quello che dovrebbe sorgere in Italia. Nel '95, in occasione del terremoto di Kobe fu spostato dal luogo in cui doveva essere costruito e la ferrovia che ci doveva passare non ci passa più... Se è stato un problema per i giapponesi non voglio dire cosa potrebbe succedere per noi...
Una delle giustificazioni a sostegno del Ponte riguarda i benefici economici
Niente di più falso. Si prevede che questa impresa potrebbe essere remunerativa con 100mila passaggi auto al giorno. Si dimentica forse che oggi, quando va bene, passano 12mila auto, con un calo del 30% delle vetture, del 10% dei mezzi pesanti pesanti e del 20% dei passeggeri. Questo il dato degli ultimi 8 anni. Il numero di centomila auto non sarà mai raggiunto.
Oltre al Giappone di ponti nel mondo ce ne sono numerosi anche in altri Paesi. Non sono "remunerativi"?
No, le grandi strutture di questo tipo sono tutte in perdita. Il Golden Gate Bridge perde 31 miloni di dollari l'anno nonostante il pedaggio. Il Canale sotto la Manica è in perdita perchè la gente preferisce risparmiare negli spostamenti e quindi utilizza i mezzi di superficie. Il ponte tra Svezia e Danimarca ha avuto già un intervento pari a un terzo del suo impegno finanziario da parte dello stato, perchè nessun privato riesce a reggere quella concorrenza.
Allora a chi conviene fare un ponte con queste caratteristiche?
Solo a chi lo costruisce. Il resto è una spesa per la comunità che se la dovrà gravare attraverso un pedaggio altissimo o l'aumento delle tasse.
Torniamo per chiudere al punto di partenza. Le preoccupazioni idrogeologiche. Quando si realizza un'opera faraonica come questa, in un'area così delicata, non si fa per prima cosa uno studio preliminare?
Nella relazione di progetto c'è scritto che quella è una delle zone a maggior rischio idrogeologico d'Italia ma che non è previsto alcuno studio. Incredibile. Un'opera rischiosa, rischiosissima. E inutile. Quei soldi dovrebbero essere impiegati per risanare quelle zone, non per coprirle di cemento.
"Una follia senza senso resa ancora più vergognosa dalla morte di 30 persone nel fango di Messina proprio lì dove andrebbero i piloni del ponte". Così il geologo Mario Tozzi, primo ricercatore del Cnr, commenta a caldo la notizia del Ponte sullo Stretto i cui lavori, stando a quanto ha detto il ministro Matteoli, inizieranno nel prossimo mese di dicembre. "Rischioso dal punto di vista sismico e idrogeologico. E quando non è dannoso è inutile. E poi tutti quei soldi dovrebbero essere impiegati per risanare quelle zone, non per coprirle di cemento. .."
Tozzi, se domani lei andasse in onda con una tua nuova trasmissione di approfondimento dedicata al Ponte sullo Stretto da dove partirebbe?
Comincerei ricordando che per andare da Villa San Giovanni a Messina in condizioni normali non si fa nessuna fila e si impiegano i 25 minuti canonici di piacevole traversata.
D'estate qualche coda in più ci sarà...
Certo, in particolare nei weekend ma con il Ponte ci sarebbero comunque delle code per il pedaggio.
lei è un affermato geologo. Dal suo punto di vista di studioso della terra quali rischi vede nel Ponte?
Geologicamente è un azzardo, ci sono frane a rotta di collo sul versante messinese e peggiori ancora sul fronte calabrese; le famose frane "a scivolamento profondo", quelle che potrebbero addrittura interessare il pilone di sostegno di Cannitello (una frazione nel Comune di San Giovanni, ndr).
C'è un rischio sismico?
C'è ed è elevatissimo; e non sanato, dal momento che nessuno di quei paesi non ha più del 25% di costruzioni antisismiche.
Ci saranno altri ponti nel mondo nelle stesse condizioni...
L'unico così lungo e sospeso è l'Akashi, in Giappone. Lungo la metà di quello che dovrebbe sorgere in Italia. Nel '95, in occasione del terremoto di Kobe fu spostato dal luogo in cui doveva essere costruito e la ferrovia che ci doveva passare non ci passa più... Se è stato un problema per i giapponesi non voglio dire cosa potrebbe succedere per noi...
Una delle giustificazioni a sostegno del Ponte riguarda i benefici economici
Niente di più falso. Si prevede che questa impresa potrebbe essere remunerativa con 100mila passaggi auto al giorno. Si dimentica forse che oggi, quando va bene, passano 12mila auto, con un calo del 30% delle vetture, del 10% dei mezzi pesanti pesanti e del 20% dei passeggeri. Questo il dato degli ultimi 8 anni. Il numero di centomila auto non sarà mai raggiunto.
Oltre al Giappone di ponti nel mondo ce ne sono numerosi anche in altri Paesi. Non sono "remunerativi"?
No, le grandi strutture di questo tipo sono tutte in perdita. Il Golden Gate Bridge perde 31 miloni di dollari l'anno nonostante il pedaggio. Il Canale sotto la Manica è in perdita perchè la gente preferisce risparmiare negli spostamenti e quindi utilizza i mezzi di superficie. Il ponte tra Svezia e Danimarca ha avuto già un intervento pari a un terzo del suo impegno finanziario da parte dello stato, perchè nessun privato riesce a reggere quella concorrenza.
Allora a chi conviene fare un ponte con queste caratteristiche?
Solo a chi lo costruisce. Il resto è una spesa per la comunità che se la dovrà gravare attraverso un pedaggio altissimo o l'aumento delle tasse.
Torniamo per chiudere al punto di partenza. Le preoccupazioni idrogeologiche. Quando si realizza un'opera faraonica come questa, in un'area così delicata, non si fa per prima cosa uno studio preliminare?
Nella relazione di progetto c'è scritto che quella è una delle zone a maggior rischio idrogeologico d'Italia ma che non è previsto alcuno studio. Incredibile. Un'opera rischiosa, rischiosissima. E inutile. Quei soldi dovrebbero essere impiegati per risanare quelle zone, non per coprirle di cemento.
venerdì 16 ottobre 2009
Giustizia leghista, economia tremontiana, opposizione in saldo
Il presidente Fini sembra aver parato il primo colpo della temutissima (da chi tiene alla legalità e al controllo del potere politico-economico) riforma della giustizia: no ai pm sottoposti all'esecutivo. Questo certamente non è decisivo, in quanto vi sono anche altri sistemi per controllare e mettere il guinzaglio ai pm.
La trovata più divertente di tutte però, e dico divertente proprio perchè le proposte berlusconiste secondo me sono pericolose, è quella della Lega Nord, ovvero di passare da una selezione dei giudici attraverso un concorso pubblico a una selezione elettiva. Il mio dubbio però è semplice: la giustizia deve essere fatta dal giudice più simpatico o da quello favorito da qualche partito o, piuttosto, dal giudice che è maggiormente preparato e che meglio conosce la legge? Con questa trovata della Lega il merito andrebbe davvero a farsi benedire, incrementando la famosa politicizzazione dei giudici, i quali già ora sono divisi in varie correnti a causa del CSM, figurarsi se debbono pure farsi la campagna elettorale per diventare pm. Con magari dei giudici del PD e PdL, completamente ignoranti in materia di legge, ma molto proni ai voleri e agli interessi del partito di riferimento.
La Lega sostiene questa tesi in quanto, dicono, il potere giudiziario è l'unico a non aver avuto la legittimazione popolare. Io ormai sono stufo di questa glorificazione e santificazione del volere popolare, come se il popolo fosse capace di scegliere i migliori e i più meritevoli. Infine mi chiedo perchè il potere giudiziario abbia bisogno di essere legittimato dal popolo. Il popolo sceglie il potere legislativo, ovvero chi fa le leggi. L'applicazione delle stesse è poi una cosa quasi automatica, ed è meglio che la faccia chi conosce bene la legge, non chi conosce bene i parlamentari.
I leghisti poi si vantano, e non poco, di aver ridotto le tasse, quando questa è una falsità immane, in quanto le tasse rispetto all'epoca di Prodi, sono addirittura aumentate, anche se di poco. Quelli che sono calati o peggiorati invece sono i servizi pubblici, alla faccia delle promesse di Gelmini e Brunetta, secondo i quali bastava tagliare indiscriminatamente per avere dei servizi migliori, quando invece sarebbe servito ben altro, come ad esempio una seria riforma del pubblico impiego.
L'Italia inoltre aveva già un PIL più basso rispetto a quelli degli altri paesi dell'occidente, dunque sarebbe normale se il nostro paese registrasse un calo del PIL minore rispetto a quello di Germania, USA, Gran Bretagna che ce l'avevano più altro del nostro o anche della Spagna, che era in crescita (dunque non aveva ancora trovato una stabilità economica). La realtà dei fatti però è che il nostro PIL è calato molto di più rispetto al previsto, registrando uno dei risultati peggiori in Europa. In questa crisi, al di là della propaganda del governo, non è affatto vero che ci stiamo salvando, e i frequenti allarmi della Banca d'Italia direi che sono un allarme già sufficiente, da recepire subito, per evitare brutte sorprese in futuro.
La disoccupazione nei prossimi mesi aumenterà pericolosamente e non sarà facile per il governo controllare questo fenomeno. Speriamo che i proventi del riciclo di denaro sporco di Stato (chiamato altrimento "scudo fiscale") siano sufficienti per reggere durante i prossimi mesi. Altrimenti il governo e in particolare Tremonti potrebbero prendere in considerazione l'idea di attuare una lotta all'evasione fiscale, la quale oltre che illegale è anche immorale, oppure tentare di velocizzare la confisca dei beni mafiosi, in quanto tra sequestro e confisca passano oltre 10 anni di attesa e non tutti i beni sequestrati vengono poi confiscati. Inoltre credo che solo vedere che lo Stato ha deciso di agire in questo senso causerà un aumento delle entrate, che darebbero più giustizia sociale e più risorse da distribuire.
I politici mi pare che discutano ben poco di questi argomenti, preferendo concentrarsi sull'attacco o la difesa della persona di Berlusconi, aumentandone così l'ego e la sua percezione di essere lui stesso lo Stato. Gli elettori hanno votato la destra, e la destra deve governare questo paese, sopratutto lo deve governare nell'interesse dei cittadini e non nell'interesse di Mediaset e della famiglia di riferimento di quest'azienda. Ma l'opposizione avrà pure il diritto di criticare l'azione del governo, per il bene dell'Italia? Compreso il presidente del Consiglio, se lo ritiene inadatto? E' un diritto o no? Le figuracce di Berlusconi, con le puttane e le sentenze che lo ritengono corresponsabile di corruzione non sono invenzioni della sinistra, bensì dei fatti reali, notizie che ogni giornale ha il dovere di dare. E che l'opposizione è libera di sfruttare se ritiene di poterle usare per delegittimare un premier ritenuto ovunque incapace di governare l'Italia. E' lui che sputtana l'Italia con i suoi comportamenti e con la sua incompetenza. Quello che si chiede alla destra dunque è di cambiare il proprio leader di governo, non di abdicare al governo. A meno che la destra esista solamente nella persona di Berlusconi.
La trovata più divertente di tutte però, e dico divertente proprio perchè le proposte berlusconiste secondo me sono pericolose, è quella della Lega Nord, ovvero di passare da una selezione dei giudici attraverso un concorso pubblico a una selezione elettiva. Il mio dubbio però è semplice: la giustizia deve essere fatta dal giudice più simpatico o da quello favorito da qualche partito o, piuttosto, dal giudice che è maggiormente preparato e che meglio conosce la legge? Con questa trovata della Lega il merito andrebbe davvero a farsi benedire, incrementando la famosa politicizzazione dei giudici, i quali già ora sono divisi in varie correnti a causa del CSM, figurarsi se debbono pure farsi la campagna elettorale per diventare pm. Con magari dei giudici del PD e PdL, completamente ignoranti in materia di legge, ma molto proni ai voleri e agli interessi del partito di riferimento.
La Lega sostiene questa tesi in quanto, dicono, il potere giudiziario è l'unico a non aver avuto la legittimazione popolare. Io ormai sono stufo di questa glorificazione e santificazione del volere popolare, come se il popolo fosse capace di scegliere i migliori e i più meritevoli. Infine mi chiedo perchè il potere giudiziario abbia bisogno di essere legittimato dal popolo. Il popolo sceglie il potere legislativo, ovvero chi fa le leggi. L'applicazione delle stesse è poi una cosa quasi automatica, ed è meglio che la faccia chi conosce bene la legge, non chi conosce bene i parlamentari.
I leghisti poi si vantano, e non poco, di aver ridotto le tasse, quando questa è una falsità immane, in quanto le tasse rispetto all'epoca di Prodi, sono addirittura aumentate, anche se di poco. Quelli che sono calati o peggiorati invece sono i servizi pubblici, alla faccia delle promesse di Gelmini e Brunetta, secondo i quali bastava tagliare indiscriminatamente per avere dei servizi migliori, quando invece sarebbe servito ben altro, come ad esempio una seria riforma del pubblico impiego.
L'Italia inoltre aveva già un PIL più basso rispetto a quelli degli altri paesi dell'occidente, dunque sarebbe normale se il nostro paese registrasse un calo del PIL minore rispetto a quello di Germania, USA, Gran Bretagna che ce l'avevano più altro del nostro o anche della Spagna, che era in crescita (dunque non aveva ancora trovato una stabilità economica). La realtà dei fatti però è che il nostro PIL è calato molto di più rispetto al previsto, registrando uno dei risultati peggiori in Europa. In questa crisi, al di là della propaganda del governo, non è affatto vero che ci stiamo salvando, e i frequenti allarmi della Banca d'Italia direi che sono un allarme già sufficiente, da recepire subito, per evitare brutte sorprese in futuro.
La disoccupazione nei prossimi mesi aumenterà pericolosamente e non sarà facile per il governo controllare questo fenomeno. Speriamo che i proventi del riciclo di denaro sporco di Stato (chiamato altrimento "scudo fiscale") siano sufficienti per reggere durante i prossimi mesi. Altrimenti il governo e in particolare Tremonti potrebbero prendere in considerazione l'idea di attuare una lotta all'evasione fiscale, la quale oltre che illegale è anche immorale, oppure tentare di velocizzare la confisca dei beni mafiosi, in quanto tra sequestro e confisca passano oltre 10 anni di attesa e non tutti i beni sequestrati vengono poi confiscati. Inoltre credo che solo vedere che lo Stato ha deciso di agire in questo senso causerà un aumento delle entrate, che darebbero più giustizia sociale e più risorse da distribuire.
I politici mi pare che discutano ben poco di questi argomenti, preferendo concentrarsi sull'attacco o la difesa della persona di Berlusconi, aumentandone così l'ego e la sua percezione di essere lui stesso lo Stato. Gli elettori hanno votato la destra, e la destra deve governare questo paese, sopratutto lo deve governare nell'interesse dei cittadini e non nell'interesse di Mediaset e della famiglia di riferimento di quest'azienda. Ma l'opposizione avrà pure il diritto di criticare l'azione del governo, per il bene dell'Italia? Compreso il presidente del Consiglio, se lo ritiene inadatto? E' un diritto o no? Le figuracce di Berlusconi, con le puttane e le sentenze che lo ritengono corresponsabile di corruzione non sono invenzioni della sinistra, bensì dei fatti reali, notizie che ogni giornale ha il dovere di dare. E che l'opposizione è libera di sfruttare se ritiene di poterle usare per delegittimare un premier ritenuto ovunque incapace di governare l'Italia. E' lui che sputtana l'Italia con i suoi comportamenti e con la sua incompetenza. Quello che si chiede alla destra dunque è di cambiare il proprio leader di governo, non di abdicare al governo. A meno che la destra esista solamente nella persona di Berlusconi.
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Il governo era stato informato il 28 luglio 2009: mafia All’Aquila
si Roberta Lemma
6 aprile 2009 ore 3.32, l’Aquila barcolla e trema sotto un sisma pari ad una potenza di magnitudo 6.3
Devastazione e morte nel giro di pochi tremolanti attimi. Interi paesi si sbriciolano mentre la popolazione dormiva. 308 morti, migliaia di feriti, innumerosi gli sfollati. Hanno perduto tutto: case, beni personali, serenità, parenti, amici, figli, genitori, serenità.
La macchina si mette in moto, la Protezione Civile allestisce tendopoli, organizza i funerali, si tenta di alleviare le sofferenze dei sopravvissuti, arriva il G8 e le ricostruzioni.
Il sangue è caldo ma già si parla di infiltrazioni camorristiche e mafiose nella ricostruzione, il sangue non si è ancora coagulato che già si scoprono gli edifici costruiti con cemento depotenziato. Tra paura e rabbia e dolore il post terremoto è un inferno di incertezze e lacrime e sconforto.
Senato della Repubblica 246ª seduta pubblica (pomeridiana) martedı` 28 luglio 2009 Interrogazioni LUMIA. – Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell’interno. Premesso che: la priorità della ricostruzione dell’Abruzzo è un impegno costante che va perseguito coralmente da parte di tutte le forze politiche e le istituzioni democratiche; la ricostruzione deve rispondere al criterio guida dello sviluppo e della legalità: dello sviluppo in ragione degli interessi del territorio e della possibilità di far ritornare le zone colpite ad essere ricche di diritti e opportunità, della legalità, per fare in modo che la ricostruzione proceda nel pieno rispetto delle norme e siano evitate in tutti i modi possibili infiltrazioni mafiose; già da tempo si sono registrate in Abruzzo presenze mafiose per cui è necessario non sottovalutare rischi e tentativi da parte della criminalità organizzata di inserirsi nel circuito della ricostruzione, soprattutto nel campo dei subappalti e della filiera del cemento;
Senato della Repubblica – 182 – XVI LEGISLATURA 246ª Seduta (pomerid.) Assemblea – Allegato B 28 luglio 2009 risulta che un’impresa di Gela, priva dei requisiti antimafia rilasciati dalla Prefettura di Caltanissetta, stia invece lavorando alacremente in alcuni subappalti in Abruzzo. L’impresa è l’Impresa generali costruzioni (IGC), di cui il titolare è Emanuele Mondello, si chiede di sapere: se il Governo abbia preso provvedimenti per mettere in piedi un sistema di controlli in grado di impedire infiltrazioni da parte della criminalità organizzata nella ricostruzione post-terremoto in Abruzzo; se corrisponda al vero che la richiamata società IGC si sia aggiudicata dei subappalti in Abruzzo e per quale ragione ciò non sia stato impedito; se il Governo intenda adottare provvedimenti per impedire che imprese sprovviste dei necessari requisiti di legalità possano insinuarsi nei lavori di ricostruzione.
Oggi 16 ottobre 2009 ( Case costruite, appalti autorizzati, soldi elargiti. )
4 i centri della Dia che avevano segnalato «collegamenti tra la società e personaggi riconducibili alla famiglia mafiosa capeggiata dai fratelli Rinzivillo ». Ma questo non ha impedito alla Igc, Impresa Generale Costruzioni di Gela, di ottenere lavori per la ricostruzione del dopo terremoto in Abruzzo, nel cantiere di Bazzano. Eppure il governo nella data del 28 luglio 2009 era stato avvertito da Lumia. C’era tutto il tempo affinchè si potesse, preventivamente una volta ogni tanto, agire. Adesso un rapporto della Direzione Investigativa Antimafia consegnato alla procura dell’Aquila denuncia l’infiltrazione delle cosche, sollecitando nuovi accertamenti per scoprire in che modo la ditta sia riuscita ad aggirare le norme e ottenere gli incarichi. Verifiche che sono state estese anche alle altre commesse ottenute dall’impresa siciliana: la nuova metropolitana «M5» di Milano, la Tav tratta Parma-Reggio Emilia e due gallerie dell’autostrada Catania-Siracusa.
È il Cipe Comitato interministeriale per la programmazione economica, le figure si alternano al cambio di ogni governo; al Presidente del Consiglio l’ultima decisione su tutto quel che passa e si decide al Cipe. Questa struttura nasce con decreto legge il 27 febbraio 1967, durante la prima Repubblica e durante l’insediamento di tutti quegli apparati segreti che fecero dell’Italia una nazione orchestrale. Qui i commensali son sempre gli stessi e siedono senza invito a tutti i banchetti.
La Igc però, nell’affare Aquila entra con un subappalto poiché i suoi amministratori e rappresentati hanno precedenti penali specifici alla mafia. La Edimal si aggiudica i lavori per 54.817 milioni di euro e affida alle ditte minori opere per 21.754. Il 14 agosto l’azienda chiede l’autorizzazione per delegare alla Igc «l’esecuzione di lavori specializzati di realizzazione di muri di sostegno» per un totale di 159 mila e 300 euro. Il via libera dal Dipartimento della Protezione civile arriva l’11 settembre, ma nel frattempo la ditta ha già avviato l’attività, come è stato accertato dalla Dia. La protezione Civile dal simbolo piramidale, è ad oggi una vera e propria azienda e nel suo massimo rappresentate Bertolaso, braccio destro del premier, strumento di governo. Solo una coincidenza che dovesse essere la Protezione Civile l’organo preposto agli accertamenti delle ditte appaltatrici?
19 settembre 2009, nei decreti firmati dal prefetto de L’Aquila si legge il rapporto trasmesso ai magistrati: ” Il personale procedeva all’’accesso’ presso il cantiere de L’Aquila in località Bazzano. Si riscontrava che la ditta Igc, non presente al momento nel cantiere, aveva eseguito lavori in subappalto nel predetto sito. Il controllo sulle maestranze della ditta faceva emergere che tra gli operai impegnati nei lavori sul cantiere, tredici avevano precedenti di polizia ”.
Nell’elenco consegnato alla procura spiccano due nomi: Gianluca Ferrigno e Emanuele Lombardo. Il primo, 29 anni, originario di Gela, nipote di Angelo Bernascono, uomo di fiducia della famiglia Rinzivillo, arrestato nell’ambito dell’operazione «Cobra » del 2002 e attualmente collaboratore di giustizia. È stato assunto dalla ditta Igc con contratto a tempo indeterminato e qualifica professionale di assistente edile. L’altro, 26 anni, anche lui di Gela, indagato dal tribunale dei minori di Caltanissetta per l’ipotesi di reato 416 bis, assunto con contratto a tempo indeterminato e qualifica di muratore. Ad insospettire la Dia e a determinare l’inchiesta quindi sono stati i curriculum degli amministratori della ditta, ma Lumia durante l’assemblea di martedi 28 luglio 2009 lo aveva fatto presente, perche non si è intervenuti tempestivamente?
Gli amministratori della ditta sono 3 e tutti di Gela, Emanuele Mondello, 50 anni, suo figlio Rocco e suo genero Nunzio Adesini. Il più anziano ha numerosi precedenti penali e nel 2003 veniva controllato insieme a Giuseppe Tranchina e Emanuele Emanuello, ambedue pregiudicati e arrestati nell’operazione ‘Cobra’ per aver curato nel settore degli appalti pubblici gli interessi del clan Rinzivillo. Rocco Mondello fino al 2004 è stato socio della società immobiliare Orchidea, con sede a Varese. L’azienda è stata sottoposta nel 2006 a sequestro preventivo per ordine del tribunale di Caltanissetta per aver messo in atto azioni tese a reperire, anche tramite minacce, lavoro con il quale coprire i reali interessi come false fatturazioni ad imprenditori consenzienti o meno, garantendo agli stessi e all’organizzazione mafiosa ingenti guadagni che servivano a finanziare i detenuti e i loro familiari
Adesso i magistrati dovranno stabilire come sia stao reso possibile alla Igc entrare nella ricostruzione dell’Aquila e ottenere la certificazione di idoneità.
Ieri la commissione Antimafia ha avviato le audizioni dei rappresentanti istituzionali.
Invece il Cipe in questi giorni ha sbloccato i fondi per le aree sotto-utilizzate (Fas) in favore della Sicilia, 4,313 miliardi di euro di cui il 43% rappresentano progetti per infrastrutture. Per la città di Palermo, sono stati stanziati 150 milioni di euro. Ai posteri l’ardua sentenza.
6 aprile 2009 ore 3.32, l’Aquila barcolla e trema sotto un sisma pari ad una potenza di magnitudo 6.3
Devastazione e morte nel giro di pochi tremolanti attimi. Interi paesi si sbriciolano mentre la popolazione dormiva. 308 morti, migliaia di feriti, innumerosi gli sfollati. Hanno perduto tutto: case, beni personali, serenità, parenti, amici, figli, genitori, serenità.
La macchina si mette in moto, la Protezione Civile allestisce tendopoli, organizza i funerali, si tenta di alleviare le sofferenze dei sopravvissuti, arriva il G8 e le ricostruzioni.
Il sangue è caldo ma già si parla di infiltrazioni camorristiche e mafiose nella ricostruzione, il sangue non si è ancora coagulato che già si scoprono gli edifici costruiti con cemento depotenziato. Tra paura e rabbia e dolore il post terremoto è un inferno di incertezze e lacrime e sconforto.
Senato della Repubblica 246ª seduta pubblica (pomeridiana) martedı` 28 luglio 2009 Interrogazioni LUMIA. – Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell’interno. Premesso che: la priorità della ricostruzione dell’Abruzzo è un impegno costante che va perseguito coralmente da parte di tutte le forze politiche e le istituzioni democratiche; la ricostruzione deve rispondere al criterio guida dello sviluppo e della legalità: dello sviluppo in ragione degli interessi del territorio e della possibilità di far ritornare le zone colpite ad essere ricche di diritti e opportunità, della legalità, per fare in modo che la ricostruzione proceda nel pieno rispetto delle norme e siano evitate in tutti i modi possibili infiltrazioni mafiose; già da tempo si sono registrate in Abruzzo presenze mafiose per cui è necessario non sottovalutare rischi e tentativi da parte della criminalità organizzata di inserirsi nel circuito della ricostruzione, soprattutto nel campo dei subappalti e della filiera del cemento;
Senato della Repubblica – 182 – XVI LEGISLATURA 246ª Seduta (pomerid.) Assemblea – Allegato B 28 luglio 2009 risulta che un’impresa di Gela, priva dei requisiti antimafia rilasciati dalla Prefettura di Caltanissetta, stia invece lavorando alacremente in alcuni subappalti in Abruzzo. L’impresa è l’Impresa generali costruzioni (IGC), di cui il titolare è Emanuele Mondello, si chiede di sapere: se il Governo abbia preso provvedimenti per mettere in piedi un sistema di controlli in grado di impedire infiltrazioni da parte della criminalità organizzata nella ricostruzione post-terremoto in Abruzzo; se corrisponda al vero che la richiamata società IGC si sia aggiudicata dei subappalti in Abruzzo e per quale ragione ciò non sia stato impedito; se il Governo intenda adottare provvedimenti per impedire che imprese sprovviste dei necessari requisiti di legalità possano insinuarsi nei lavori di ricostruzione.
Oggi 16 ottobre 2009 ( Case costruite, appalti autorizzati, soldi elargiti. )
4 i centri della Dia che avevano segnalato «collegamenti tra la società e personaggi riconducibili alla famiglia mafiosa capeggiata dai fratelli Rinzivillo ». Ma questo non ha impedito alla Igc, Impresa Generale Costruzioni di Gela, di ottenere lavori per la ricostruzione del dopo terremoto in Abruzzo, nel cantiere di Bazzano. Eppure il governo nella data del 28 luglio 2009 era stato avvertito da Lumia. C’era tutto il tempo affinchè si potesse, preventivamente una volta ogni tanto, agire. Adesso un rapporto della Direzione Investigativa Antimafia consegnato alla procura dell’Aquila denuncia l’infiltrazione delle cosche, sollecitando nuovi accertamenti per scoprire in che modo la ditta sia riuscita ad aggirare le norme e ottenere gli incarichi. Verifiche che sono state estese anche alle altre commesse ottenute dall’impresa siciliana: la nuova metropolitana «M5» di Milano, la Tav tratta Parma-Reggio Emilia e due gallerie dell’autostrada Catania-Siracusa.
È il Cipe Comitato interministeriale per la programmazione economica, le figure si alternano al cambio di ogni governo; al Presidente del Consiglio l’ultima decisione su tutto quel che passa e si decide al Cipe. Questa struttura nasce con decreto legge il 27 febbraio 1967, durante la prima Repubblica e durante l’insediamento di tutti quegli apparati segreti che fecero dell’Italia una nazione orchestrale. Qui i commensali son sempre gli stessi e siedono senza invito a tutti i banchetti.
La Igc però, nell’affare Aquila entra con un subappalto poiché i suoi amministratori e rappresentati hanno precedenti penali specifici alla mafia. La Edimal si aggiudica i lavori per 54.817 milioni di euro e affida alle ditte minori opere per 21.754. Il 14 agosto l’azienda chiede l’autorizzazione per delegare alla Igc «l’esecuzione di lavori specializzati di realizzazione di muri di sostegno» per un totale di 159 mila e 300 euro. Il via libera dal Dipartimento della Protezione civile arriva l’11 settembre, ma nel frattempo la ditta ha già avviato l’attività, come è stato accertato dalla Dia. La protezione Civile dal simbolo piramidale, è ad oggi una vera e propria azienda e nel suo massimo rappresentate Bertolaso, braccio destro del premier, strumento di governo. Solo una coincidenza che dovesse essere la Protezione Civile l’organo preposto agli accertamenti delle ditte appaltatrici?
19 settembre 2009, nei decreti firmati dal prefetto de L’Aquila si legge il rapporto trasmesso ai magistrati: ” Il personale procedeva all’’accesso’ presso il cantiere de L’Aquila in località Bazzano. Si riscontrava che la ditta Igc, non presente al momento nel cantiere, aveva eseguito lavori in subappalto nel predetto sito. Il controllo sulle maestranze della ditta faceva emergere che tra gli operai impegnati nei lavori sul cantiere, tredici avevano precedenti di polizia ”.
Nell’elenco consegnato alla procura spiccano due nomi: Gianluca Ferrigno e Emanuele Lombardo. Il primo, 29 anni, originario di Gela, nipote di Angelo Bernascono, uomo di fiducia della famiglia Rinzivillo, arrestato nell’ambito dell’operazione «Cobra » del 2002 e attualmente collaboratore di giustizia. È stato assunto dalla ditta Igc con contratto a tempo indeterminato e qualifica professionale di assistente edile. L’altro, 26 anni, anche lui di Gela, indagato dal tribunale dei minori di Caltanissetta per l’ipotesi di reato 416 bis, assunto con contratto a tempo indeterminato e qualifica di muratore. Ad insospettire la Dia e a determinare l’inchiesta quindi sono stati i curriculum degli amministratori della ditta, ma Lumia durante l’assemblea di martedi 28 luglio 2009 lo aveva fatto presente, perche non si è intervenuti tempestivamente?
Gli amministratori della ditta sono 3 e tutti di Gela, Emanuele Mondello, 50 anni, suo figlio Rocco e suo genero Nunzio Adesini. Il più anziano ha numerosi precedenti penali e nel 2003 veniva controllato insieme a Giuseppe Tranchina e Emanuele Emanuello, ambedue pregiudicati e arrestati nell’operazione ‘Cobra’ per aver curato nel settore degli appalti pubblici gli interessi del clan Rinzivillo. Rocco Mondello fino al 2004 è stato socio della società immobiliare Orchidea, con sede a Varese. L’azienda è stata sottoposta nel 2006 a sequestro preventivo per ordine del tribunale di Caltanissetta per aver messo in atto azioni tese a reperire, anche tramite minacce, lavoro con il quale coprire i reali interessi come false fatturazioni ad imprenditori consenzienti o meno, garantendo agli stessi e all’organizzazione mafiosa ingenti guadagni che servivano a finanziare i detenuti e i loro familiari
Adesso i magistrati dovranno stabilire come sia stao reso possibile alla Igc entrare nella ricostruzione dell’Aquila e ottenere la certificazione di idoneità.
Ieri la commissione Antimafia ha avviato le audizioni dei rappresentanti istituzionali.
Invece il Cipe in questi giorni ha sbloccato i fondi per le aree sotto-utilizzate (Fas) in favore della Sicilia, 4,313 miliardi di euro di cui il 43% rappresentano progetti per infrastrutture. Per la città di Palermo, sono stati stanziati 150 milioni di euro. Ai posteri l’ardua sentenza.
Stato, Canone RAI e Disservizi Digitale terrestre
di del. rsu.*
In questi giorni amici, colleghi, parenti e soprattutto la politica ed i MEDIA parlano di istituzioni, Canone Rai e Digitale Terrestre (DTT)…. mi piace partecipare ed esprimere qualche pensiero in modo circostanziale su qualche tema.
. Cosa è lo Stato?
. Differenze tra Tassa ed imposta
. Ma le tasse sono tutte ingiuste?
. Cosa è il CANONE RAI?
. Esiste solo in Italia?
. Il vulnus della legge Gasparri…
. Che servizi offre la RAI?
. Il via del DTT.
STATO
Lo Stato rappresenta meglio di qualunque altra forma l'affermazione di un modello di convivenza sociale, politico, economico e culturale. Niente affatto scontata è però la domanda, su cosa sia lo Stato. Si può dire che è l'insieme di istituzioni, e società civile.
Lo STATO è quantomeno formato da:
1. Costituzione
2. Governo (centrale e locale)
3. Magistratura (la Giustizia!)
4. Forze Armate
5. Scuola
6. Sanità
7. Istituzioni culturali
Il rapporto del cittadino con questi elementi e il rapporto tra di loro determina molti tipi di Stato. Per far funzionare tutto ciò servono denari reperiti tipicamente tra le persone che lo compongono…. In questi anni la Scuola Pubblica è stata offesa e destrutturata a favore del PRIVATO, idem la Sanità e stiamo in questi giorni assistendo all’attacco anche alla Magistratura e della Costituzione. Ma siccome lavoro in RAI io vi parlerò dell’ultimo dei suddetti punti che mi stanno a cuore in quanto lavoratore/cittadino e partecipante alla gestione di una delle RES Pubbliche… l’azienda simbolo della Istituzione culturale; la RAI.
I fondi necessari al mantenimento dello Stato sono raccolti mediante le Tasse, le Imposte o i Contributi…
TASSA e/o IMPOSTA
La tassa è la controprestazione di un servizio che lo Stato o un Ente rendono al cittadino che paga in base a delle tavole. La tassa, può essere collegata anche ad un provvedimento amministrativo quale ad esempio tassa sul passaporto, sulla patente, sul porto d'armi o a concessioni governative.
L'imposta invece è costituita da un prelievo coattivo di ricchezza non connesso ad una specifica prestazione da parte dello Stato o degli altri enti.
QUALIFICAZIONE DEL CANONE RAI
Il “canone televisivo”, è una imposta sul possesso di apparecchi riceventi trasmissioni radio-televisive, sancita dal regio decreto n. 246 del 21 febbraio 1938 e prevede l'obbligo del versamento relativamente alla «detenzione di apparati atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio-televisive indipendentemente dalla qualità o dalla quantità del relativo utilizzo». La sua qualificazione giuridica è stata sancita definitivamente, fra le numerose pronunce di varia fonte susseguitesi in argomento a seguito di contestazioni giudiziarie, dalla Corte Costituzionale, nella nota sentenza 26 giugno 2002, n. 284: che riconobbe in questa sede della Consulta che "benché all’origine apparisse configurato come corrispettivo dovuto dagli utenti del servizio [...] ha da tempo assunto, nella legislazione, natura di prestazione tributaria, fondata sulla legge [...] e se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come "tassa", collegata alla fruizione del servizio, in seguito lo si è piuttosto riconosciuto come imposta".
In quanto imposta, la prassi della determinazione di un canone a prezzo unico è stata ritenuta conforme al principio di proporzionalità impositiva, in quanto la detenzione degli apparecchi è essa stessa presupposto della sua riconducibilità ad una manifestazione di capacità contributiva adeguata al caso. La legittimità dell'obbligo è stata confermata anche da sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. L'obbligo di pagamento dell'imposta sussiste indipendentemente dall'effettiva ricezione o ricevibilità dei programmi televisivi, quindi vi si è ugualmente tenuti tanto in caso di impossibilità a riceverli (ad esempio per interruzioni temporanee o croniche della copertura di irradiazione o per altri motivi "tecnici", esempio DIGITALE TERRESTRE e ne parlerò dopo….), quanto in caso di mancanza di interesse a riceverne prescindendo anche dalla preferenza per quali stazioni ricevere e quali no.
La Corte di cassazione ha in diverse occasioni confermato la natura del canone di abbonamento radiotelevisivo, che "non trova la sua ragione nell'esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l'Ente Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, dall'altro, ma costituisce una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo". In altre parole, il canone è una imposta dello Stato e non un tributo atto a sovvenzionare l’esistenza dell’Azienda RAI. In base a questi fatti, coloro i quali in questi giorni stanno invitando a non pagare il canone, stanno pertanto incitando all’evasione fiscale ai danni dello Stato.
LA RAI
A questo punto delineato il perimetro dell’imposta parliamo della “RAI - Radiotelevisione Italiana S.p.A.”, attuale società concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo italiano. È una delle più grandi aziende di comunicazione del mondo, il quinto gruppo televisivo del continente. È una S.P.A. sotto partecipazione del “Ministero dell'Economia e delle Finanze” che possiede il 99,56%. Il restante 0,44 è proprietà di SIAE. E’ composta da 9000 addetti a tempo indeterminato, 2000 precari, 370 Dirigenti e 1500 Giornalisti. Il costo medio dei dipendenti è minore di quello ad esempio del diretto competitor. Come radio e televisione di Stato, la RAI ha degli obblighi di legge consistenti nel produrre trasmissioni di servizio e di pubblica utilità in una percentuale oraria prefissata non totale.
La Rai riscuote, tramite lo Sportello Abbonamenti TV, il "canone televisivo", nella percentuale del 92% avendo come obbligo dal “Contratto di Servizio”, diversamente dai diretti competitor:
. mantenimento di 4 centri di Produzione e 17 sedi regionali e sedi estere;
. acquisto di film italiani per il supporto indiretto dell’industria cinematografica nazionale;
. un forte limite alla raccolta pubblicitaria (la quota raccolta non può superare quella ricevuta dal Ministero);
. l’impedimento ad accedere a sistemi di “Pay per view”!
Di seguito un resoconto di come vengono finanziate le televisioni pubbliche degli stati europei (tutti ne hanno una):
. Belgio: 149,67 € + pubblicità (la Tv fiamminga preleva i soldi dalle tasse)
. Danimarca: 215,40 € - senza pubblicità
. Finlandia: 208,15 € - senza pubblicità
. Francia: 116 € (senza pubblicità dal 2009)
. Germania: 206,36 € + pubblicità
. Grecia: 51,60 € + pubblicità (Attraverso la bolletta elettrica)
. Inghilterra: 176 € (senza pubblicità)
. Irlanda: 160 € + pubblicità
. Italia: 107,50 € + pubblicità
. Norvegia: 270 € - senza pubblicità
. Portogallo: pagata dallo stato + pubblicità
. Olanda: pagata dallo stato + pubblicità
. Spagna: 50% tassa pagata dallo stato + 40%pubblicità +10% vendita diritti
. Svezia: 210 € - senza pubblicità
. Svizzera: 292 € + pubblicità
Delle televisioni pubbliche europee, la RAI è quella con lo share maggiore (tutti dati certificati da Auditel). L’offerta della più grande azienda di cultura italiana è unica in Europa e comparabile unicamente alla BBC (ma attenzione con la metà degli addetti e del canone!).
I principali canali televisivi che la RAI trasmette (analogico terrestre, digitale terrestre, satellite,streaming e sul web) sono: Rai Uno, Rai Due, Rai Tre, Rai 4, Rai Notizie24, Rai Sport Più, Rai Gulp, Rai Edu1, Rai Storia, Rai Nettuno Sat, Rai Med, Raitalia (solo per l’estero), RaiSat Extra, RaiSat Premium, RaiSat Cinema, RaiSat Yoyo, Rai Fiction, Rai Gambero Rosso.
La RAI realizza inoltre tre canali radiofonici principali trasmessi in analogico, sul satellite e via streaming sul web: Rai Radio Uno (Radio 1), Rai Radio Due (Radio 2), Rai Radio Tre (Radio 3), GR Parlamento, Isoradio, FD Leggera (filodiffusione), FiloMusic (filodiffusione), FD Auditorium (filodiffusione).
Le testate giornalistiche principali sono: TG1 (TV), TG2 (TV), TG3 (TV), TGR (TV + radio), GRR (Radio), SatelRadio. Altre offerte sono: ITALICA (sito web dedicato alla promozione della lingua italiana nel mondo), Televideo, RaiNet, RaiClick (video on demand), RaiTeche (prezioso archivio multimediale), RaiTRADE (gestione diritti), Rai ERI (editoria), Rai Vaticano (esclusiva mondiale della Santa Sede), Rai Quirinale, Rai Way (gestione trasmissione segnale), Rai Cinema e 01Distribution (produzione e diritti cinematografici) oltre a gestire “Sedi” in tutte le regioni italiane ed in molte nazioni del mondo.
Digitale Terrestre (DTT)
In questi giorni un’offensiva senza precedenti verso la RAI è in atto in contemporanea al via della rivoluzione televisiva del DTT in alcune regioni italiane, rivoluzione NON voluta dai cittadini ma dal “Ministero delle telecomunicazioni” con la Legge Gasparri (evoluzione della legge Mammì, Maccanico)…
.. io ero con quei gruppi, partiti, sindacati, associazioni dei consumatori che protestavano e scendevano in piazza contro… dove erano quelli che oggi protestano? ricordo che questo fu ed è il più grande regalo ricevuto da MEDIASET che, attraverso un Management fuoriuscito da Elettronica Industriale (azienda del gruppo), ha in gestione mediante la “DMT”, l’operatività delle frequenze digitali e della loro variazione che, guarda caso, inficiano in questo periodo, soprattutto quelle riservate a RAI. In Italia bisogna chiarire che nel DTT il trasporto del segnale si realizza su piattaforme dette “MUX”. Parlando solo di RAI ci sono due MUX: uno con le “Reti generaliste + RAI4”, l'altro con RAINews24, RAISport+ e RAIStoria.
Qui nasce il problema che molti lamentano: per il DTT i trasmettitori NON sono quelli di prima (sempre grazie alla legge Gasparri che ha sancito limiti % di riempimento). Un MUX viene trasmesso da una parte ma non dall'altra. E quindi può capitare di vedere alcuni canali ed altri no e per risolvere questo tipo di problemi occorre revisionare/modificare la propria antenna….. ma ecco che Mediaset (tanto per fare un nome) si vede comunque e si capisce che lo “switch-off” l'ha fatto solo la RAI che così perde quote di mercato e di pubblicità (a favore di chi?).
L'utente rimane con il problema e chi ha prodotto tutto questo disservizio si frega le mani. Aggiungo che ovviamente laddove ci sono bacini di utenze pregiate i canali Pay per view sono sempre presenti… sarà un caso?
Segnalo che non è la RAI l’owner del problema ma, ovviamente, il Ministero dello Sviluppo Economico tanto è vero che per ogni evenienza ha messo a disposizione il suo numero gratuito <800.022.000>.
Concludo con la speranza che quanti di voi sono arrivati a leggere sin qui, abbiano qualche strumento in più per capire e far capire a quanti in questi giorni stanno attaccando lo Stato, e concedetemelo la Rai, che sono in errore. Lo smantellamento dei pilastri dello Stato informazione, scuola, sanità (programma della P2, vuoi vedere che tra chi ci governa c’è chi ne era iscritto?) mina alle fondamenta le regole di convivenza civile alimentando paure e sfiducia negli altri.
* Delegato RSU CGIL Torino
In questi giorni amici, colleghi, parenti e soprattutto la politica ed i MEDIA parlano di istituzioni, Canone Rai e Digitale Terrestre (DTT)…. mi piace partecipare ed esprimere qualche pensiero in modo circostanziale su qualche tema.
. Cosa è lo Stato?
. Differenze tra Tassa ed imposta
. Ma le tasse sono tutte ingiuste?
. Cosa è il CANONE RAI?
. Esiste solo in Italia?
. Il vulnus della legge Gasparri…
. Che servizi offre la RAI?
. Il via del DTT.
STATO
Lo Stato rappresenta meglio di qualunque altra forma l'affermazione di un modello di convivenza sociale, politico, economico e culturale. Niente affatto scontata è però la domanda, su cosa sia lo Stato. Si può dire che è l'insieme di istituzioni, e società civile.
Lo STATO è quantomeno formato da:
1. Costituzione
2. Governo (centrale e locale)
3. Magistratura (la Giustizia!)
4. Forze Armate
5. Scuola
6. Sanità
7. Istituzioni culturali
Il rapporto del cittadino con questi elementi e il rapporto tra di loro determina molti tipi di Stato. Per far funzionare tutto ciò servono denari reperiti tipicamente tra le persone che lo compongono…. In questi anni la Scuola Pubblica è stata offesa e destrutturata a favore del PRIVATO, idem la Sanità e stiamo in questi giorni assistendo all’attacco anche alla Magistratura e della Costituzione. Ma siccome lavoro in RAI io vi parlerò dell’ultimo dei suddetti punti che mi stanno a cuore in quanto lavoratore/cittadino e partecipante alla gestione di una delle RES Pubbliche… l’azienda simbolo della Istituzione culturale; la RAI.
I fondi necessari al mantenimento dello Stato sono raccolti mediante le Tasse, le Imposte o i Contributi…
TASSA e/o IMPOSTA
La tassa è la controprestazione di un servizio che lo Stato o un Ente rendono al cittadino che paga in base a delle tavole. La tassa, può essere collegata anche ad un provvedimento amministrativo quale ad esempio tassa sul passaporto, sulla patente, sul porto d'armi o a concessioni governative.
L'imposta invece è costituita da un prelievo coattivo di ricchezza non connesso ad una specifica prestazione da parte dello Stato o degli altri enti.
QUALIFICAZIONE DEL CANONE RAI
Il “canone televisivo”, è una imposta sul possesso di apparecchi riceventi trasmissioni radio-televisive, sancita dal regio decreto n. 246 del 21 febbraio 1938 e prevede l'obbligo del versamento relativamente alla «detenzione di apparati atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio-televisive indipendentemente dalla qualità o dalla quantità del relativo utilizzo». La sua qualificazione giuridica è stata sancita definitivamente, fra le numerose pronunce di varia fonte susseguitesi in argomento a seguito di contestazioni giudiziarie, dalla Corte Costituzionale, nella nota sentenza 26 giugno 2002, n. 284: che riconobbe in questa sede della Consulta che "benché all’origine apparisse configurato come corrispettivo dovuto dagli utenti del servizio [...] ha da tempo assunto, nella legislazione, natura di prestazione tributaria, fondata sulla legge [...] e se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come "tassa", collegata alla fruizione del servizio, in seguito lo si è piuttosto riconosciuto come imposta".
In quanto imposta, la prassi della determinazione di un canone a prezzo unico è stata ritenuta conforme al principio di proporzionalità impositiva, in quanto la detenzione degli apparecchi è essa stessa presupposto della sua riconducibilità ad una manifestazione di capacità contributiva adeguata al caso. La legittimità dell'obbligo è stata confermata anche da sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. L'obbligo di pagamento dell'imposta sussiste indipendentemente dall'effettiva ricezione o ricevibilità dei programmi televisivi, quindi vi si è ugualmente tenuti tanto in caso di impossibilità a riceverli (ad esempio per interruzioni temporanee o croniche della copertura di irradiazione o per altri motivi "tecnici", esempio DIGITALE TERRESTRE e ne parlerò dopo….), quanto in caso di mancanza di interesse a riceverne prescindendo anche dalla preferenza per quali stazioni ricevere e quali no.
La Corte di cassazione ha in diverse occasioni confermato la natura del canone di abbonamento radiotelevisivo, che "non trova la sua ragione nell'esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l'Ente Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, dall'altro, ma costituisce una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo". In altre parole, il canone è una imposta dello Stato e non un tributo atto a sovvenzionare l’esistenza dell’Azienda RAI. In base a questi fatti, coloro i quali in questi giorni stanno invitando a non pagare il canone, stanno pertanto incitando all’evasione fiscale ai danni dello Stato.
LA RAI
A questo punto delineato il perimetro dell’imposta parliamo della “RAI - Radiotelevisione Italiana S.p.A.”, attuale società concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo italiano. È una delle più grandi aziende di comunicazione del mondo, il quinto gruppo televisivo del continente. È una S.P.A. sotto partecipazione del “Ministero dell'Economia e delle Finanze” che possiede il 99,56%. Il restante 0,44 è proprietà di SIAE. E’ composta da 9000 addetti a tempo indeterminato, 2000 precari, 370 Dirigenti e 1500 Giornalisti. Il costo medio dei dipendenti è minore di quello ad esempio del diretto competitor. Come radio e televisione di Stato, la RAI ha degli obblighi di legge consistenti nel produrre trasmissioni di servizio e di pubblica utilità in una percentuale oraria prefissata non totale.
La Rai riscuote, tramite lo Sportello Abbonamenti TV, il "canone televisivo", nella percentuale del 92% avendo come obbligo dal “Contratto di Servizio”, diversamente dai diretti competitor:
. mantenimento di 4 centri di Produzione e 17 sedi regionali e sedi estere;
. acquisto di film italiani per il supporto indiretto dell’industria cinematografica nazionale;
. un forte limite alla raccolta pubblicitaria (la quota raccolta non può superare quella ricevuta dal Ministero);
. l’impedimento ad accedere a sistemi di “Pay per view”!
Di seguito un resoconto di come vengono finanziate le televisioni pubbliche degli stati europei (tutti ne hanno una):
. Belgio: 149,67 € + pubblicità (la Tv fiamminga preleva i soldi dalle tasse)
. Danimarca: 215,40 € - senza pubblicità
. Finlandia: 208,15 € - senza pubblicità
. Francia: 116 € (senza pubblicità dal 2009)
. Germania: 206,36 € + pubblicità
. Grecia: 51,60 € + pubblicità (Attraverso la bolletta elettrica)
. Inghilterra: 176 € (senza pubblicità)
. Irlanda: 160 € + pubblicità
. Italia: 107,50 € + pubblicità
. Norvegia: 270 € - senza pubblicità
. Portogallo: pagata dallo stato + pubblicità
. Olanda: pagata dallo stato + pubblicità
. Spagna: 50% tassa pagata dallo stato + 40%pubblicità +10% vendita diritti
. Svezia: 210 € - senza pubblicità
. Svizzera: 292 € + pubblicità
Delle televisioni pubbliche europee, la RAI è quella con lo share maggiore (tutti dati certificati da Auditel). L’offerta della più grande azienda di cultura italiana è unica in Europa e comparabile unicamente alla BBC (ma attenzione con la metà degli addetti e del canone!).
I principali canali televisivi che la RAI trasmette (analogico terrestre, digitale terrestre, satellite,streaming e sul web) sono: Rai Uno, Rai Due, Rai Tre, Rai 4, Rai Notizie24, Rai Sport Più, Rai Gulp, Rai Edu1, Rai Storia, Rai Nettuno Sat, Rai Med, Raitalia (solo per l’estero), RaiSat Extra, RaiSat Premium, RaiSat Cinema, RaiSat Yoyo, Rai Fiction, Rai Gambero Rosso.
La RAI realizza inoltre tre canali radiofonici principali trasmessi in analogico, sul satellite e via streaming sul web: Rai Radio Uno (Radio 1), Rai Radio Due (Radio 2), Rai Radio Tre (Radio 3), GR Parlamento, Isoradio, FD Leggera (filodiffusione), FiloMusic (filodiffusione), FD Auditorium (filodiffusione).
Le testate giornalistiche principali sono: TG1 (TV), TG2 (TV), TG3 (TV), TGR (TV + radio), GRR (Radio), SatelRadio. Altre offerte sono: ITALICA (sito web dedicato alla promozione della lingua italiana nel mondo), Televideo, RaiNet, RaiClick (video on demand), RaiTeche (prezioso archivio multimediale), RaiTRADE (gestione diritti), Rai ERI (editoria), Rai Vaticano (esclusiva mondiale della Santa Sede), Rai Quirinale, Rai Way (gestione trasmissione segnale), Rai Cinema e 01Distribution (produzione e diritti cinematografici) oltre a gestire “Sedi” in tutte le regioni italiane ed in molte nazioni del mondo.
Digitale Terrestre (DTT)
In questi giorni un’offensiva senza precedenti verso la RAI è in atto in contemporanea al via della rivoluzione televisiva del DTT in alcune regioni italiane, rivoluzione NON voluta dai cittadini ma dal “Ministero delle telecomunicazioni” con la Legge Gasparri (evoluzione della legge Mammì, Maccanico)…
.. io ero con quei gruppi, partiti, sindacati, associazioni dei consumatori che protestavano e scendevano in piazza contro… dove erano quelli che oggi protestano? ricordo che questo fu ed è il più grande regalo ricevuto da MEDIASET che, attraverso un Management fuoriuscito da Elettronica Industriale (azienda del gruppo), ha in gestione mediante la “DMT”, l’operatività delle frequenze digitali e della loro variazione che, guarda caso, inficiano in questo periodo, soprattutto quelle riservate a RAI. In Italia bisogna chiarire che nel DTT il trasporto del segnale si realizza su piattaforme dette “MUX”. Parlando solo di RAI ci sono due MUX: uno con le “Reti generaliste + RAI4”, l'altro con RAINews24, RAISport+ e RAIStoria.
Qui nasce il problema che molti lamentano: per il DTT i trasmettitori NON sono quelli di prima (sempre grazie alla legge Gasparri che ha sancito limiti % di riempimento). Un MUX viene trasmesso da una parte ma non dall'altra. E quindi può capitare di vedere alcuni canali ed altri no e per risolvere questo tipo di problemi occorre revisionare/modificare la propria antenna….. ma ecco che Mediaset (tanto per fare un nome) si vede comunque e si capisce che lo “switch-off” l'ha fatto solo la RAI che così perde quote di mercato e di pubblicità (a favore di chi?).
L'utente rimane con il problema e chi ha prodotto tutto questo disservizio si frega le mani. Aggiungo che ovviamente laddove ci sono bacini di utenze pregiate i canali Pay per view sono sempre presenti… sarà un caso?
Segnalo che non è la RAI l’owner del problema ma, ovviamente, il Ministero dello Sviluppo Economico tanto è vero che per ogni evenienza ha messo a disposizione il suo numero gratuito <800.022.000>.
Concludo con la speranza che quanti di voi sono arrivati a leggere sin qui, abbiano qualche strumento in più per capire e far capire a quanti in questi giorni stanno attaccando lo Stato, e concedetemelo la Rai, che sono in errore. Lo smantellamento dei pilastri dello Stato informazione, scuola, sanità (programma della P2, vuoi vedere che tra chi ci governa c’è chi ne era iscritto?) mina alle fondamenta le regole di convivenza civile alimentando paure e sfiducia negli altri.
* Delegato RSU CGIL Torino
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Palermo, 16 luglio 1992: Borsellino non incontrò i carabinieri del Ros in Procura
Scritto da Marco Bertelli
In seguito alla puntata della trasmissione televisiva Annozero intitolata “Verità nascoste”1 (8 ottobre 2009), diversi organi di stampa si sono occupati di un progetto di attentato che nel luglio 1992 sarebbe stato messo a punto per colpire l’allora Pubblico Ministero di Milano Antonio Di Pietro ed il Procuratore Aggiunto di Palermo Paolo Borsellino. In particolare, l'incombente minaccia di morte riguardante i due magistrati fu segnalata in un'informativa datata 16 luglio 1992 e stilata dal Reparto operativo speciale (Ros) dei Carabinieri di Milano sulla base delle rivelazioni di una fonte confidenziale che fu ritenuta estremamente attendibile. Il confidente rivelò l’esistenza di un pericolo imminente di attentato ai danni di Di Pietro e Borsellino e fece riferimento agli interessi nel nord d’Italia di alcune famiglie mafiose di Cosa Nostra, tra le quali quelle facenti capo ai boss Salvatore Riina e Gaetano Fidanzati. Il Ros di Milano elaborò un rapporto basato sulle dichiarazioni dell’informatore e lo inviò alle Procure della Repubblica di Milano e Palermo.
L’esistenza dell’informativa del Ros fu resa nota pubblicamente il 23 luglio 1992 in un articolo apparso su il quotidiano IL SECOLO XIX.2 Antonio Di Pietro e Paolo Borsellino furono messi a conoscenza del contenuto di questa informativa?
Antonio Di Pietro ha confermato durante la puntata di Annozero dell’otto ottobre 2009 di aver letto personalmente l’informativa giovedì 16 luglio 1992: “Io, il 16 luglio del 1992, ho avuto modo di leggere con attenzione l’informativa dei carabinieri del Ros che erano venuti a trovarmi nel mio ufficio della procura. I militari, sviluppando le indagini informative nel periodo successivo alla morte del giudice Giovanni Falcone nella strage di Capaci, erano venuti a sapere che Borsellino ed il sottoscritto erano le due nuove vittime predestinate della mafia”.3 Di Pietro ha poi specificato che in seguito a questa grave ed attendibile minaccia le misure di sicurezza nei suoi confronti vennero pesantemente rafforzate: gli venne raddoppiata la scorta, gli fu fornita un auto blindata4 ed il PM milanese per alcune notti non dormì neppure a casa.5 Il 4 agosto 1992 il magistrato fu avvertito dal capo della Polizia Parisi di mettersi in contatto con il questore di Bergamo per ritirare un passaporto di copertura. Successivamente Di Pietro, che fu nuovamente informato di un attentato imminente contro di lui, partì sotto copertura insieme a sua moglie alla volta della repubblica centromericana di Costa Rica.4
Paolo Borsellino fu informato del contenuto dell’informativa? Il giornalista Manlio Di Salvo, dalle colonne del quotidiano IL SECOLO XIX, afferma che anche Borsellino venne messo a conoscenza del documento. Sull’edizione del 23 luglio 1992 del quotidiano ligure leggiamo: “I carabinieri del “Ros” (Raggruppamento operativo speciale) erano riusciti ad entrare in possesso di precise informazioni sugli attentati e, lo scorso 16 luglio, avevano informato i due giudici del pericolo che stavano correndo… I carabinieri avevano avvertito gli interessati del rischio di probabili attentati con tre giorni di anticipo sulla strage di Palermo (di Via D’Amelio, ndr). I due magistrati hanno, però, continuato a lavorare senza dare eccessivo peso alla segnalazione. Poi, domenica scorsa, la bomba che ha provocato la morte del giudice Borsellino e dei suoi cinque uomini della scorta”.2
Di Salvo torna sull’argomento con due articoli nel mese di ottobre 2009, subito dopo che Di Pietro ha confermato dagli schermi di Annozero di aver letto personalmente l’informativa redatta dal Ros di Milano. Il giornalista scrive che la notizia di un imminente pericolo di attentato ai danni di Di Pietro e Borsellino gli fu rivelata la mattina di domenica 19 luglio 1992 da un ufficiale del Ros di Milano in un bar di via Moscova nel capoluogo lombardo6 ed aggiunge che anche Paolo Borsellino fu informato il 16 luglio 1992 del contenuto dell'informativa del Ros: “Il senatore Antonio Di Pietro non sapeva. Nessuno lo aveva informato che anche Paolo Borsellino, come l’ex pm di Mani Pulite, era stato avvertito il 16 luglio di 17 anni fa dai carabinieri del Ros del rischio che stava correndo. Della possibilità di essere una delle due vittime predestinate della mafia. A Palermo, tra gli atti custoditi negli uffici dei carabinieri del Ros, ci sono ancora tutte le copie di quei documenti relativi alle segnalazioni fatte al giudice Paolo Borsellino. Quella mattina del 16 luglio 1992, Borsellino aveva letto l’informativa degli investigatori dell’Arma. E all’invito pressante a spostarsi più che velocemente da un territorio che scottava, avrebbe detto: «Questa è la sede dove svolgo regolarmente il mio lavoro. Io da questo ufficio non ho nessuna intenzione di muovermi». Una decisione che ha pagato con la vita… Il mattino del 16 luglio di 17 anni fa, Paolo Borsellino viene scortato, come sempre, nel suo ufficio. Poco dopo lo raggiungono i carabinieri del Ros. Le facce sono più cupe del solito. D’altronde, la notizia l’allarme è più grave e serio del solito. Borsellino inforca gli occhiali e legge. Con attenzione. Forse intuisce che stavolta il rischio è pesantissimo. L’informativa del Ros sfrutta i canali delle indagini sul narcotraffico. Gli infiltrati nella banda vengono a sapere che alcune famiglie emergenti di Cosa Nostra vogliono uccidere i giudici Borsellino a Palermo e Di Pietro a Milano. Gli investigatori del Raggruppamento operazioni speciali tentano di convincere Borsellino che stavolta la situazione è davvero grave, più del solito. La minaccia arriva da nomi di spicco della malavita organizzata. Ma Borsellino non recede. Scuotendo il capo, dice che lui da lì non si muove, tantomeno ha intenzione di cambiare ufficio o di sottostare a ulteriori misuredi sicurezza: quelle che ha, già gli bastano. Nelle stesse ore, sempre uomini del Ros, riescono invece a convincere l’altro bersaglio della mafia: Di Pietro. Che con un passaporto falso finisce in Costarica con la moglie. La “normalità” finisce nella tarda mattinata di domenica 19 luglio 1992, quando il giudice Paolo Borsellino va a casa della madre per pranzare con lei. Come ogni domenica. E come non accadrà più”.7
In seguito alla pubblicazione su IL SECOLO XIX dei recenti articoli firmati da Di Salvo (10 e 11 ottobre 2009), la notizia che Paolo Borsellino avesse deciso di rimanere a Palermo - nonostante fosse venuto a conoscenza il 16 luglio 1992 attraverso l’informativa del Ros dell'imminente pericolo di attentato - è stata ripresa da numerose agenzie di stampa8 e da altri quotidiani.9
Borsellino fu dunque informato la mattina di giovedì 16 luglio 1992 nel suo ufficio in Procura dai carabinieri del Ros dell’informativa redatta dai colleghi del Ros di Milano?
Un documento fondamentale per ricostruire gli spostamenti di Paolo Borsellino nel mese di luglio 1992 è rappresentato dall’agenda grigia del Magistrato, dove Borsellino era solito segnare alcuni appuntamenti della giornata trascorsa ed i luoghi dove si era recato. Alla pagina di giovedì 16 luglio il Magistrato ha scritto:
Ore 06.00: C (lettera simbolica per “Casa”, ndr)
Ore 06.30: Punta Raisi
Ore 08.00: Fiumicino
Ore 09.00: Roma (D.I.A.)
Ore 13.30: (De Gennaro)
Ore 14.30: (Visconti)
Ore 16.00: (D.I.A.)
Ore 20.00: (Visconti)
Dopo le ore 20.30 (ndr): (Vizzini), (Visconti)
Dall’esame della pagina di giovedì 16 luglio 1992 dell’agenda grigia di Paolo Borsellino risulta che il Magistrato di prima mattina si avviò da casa (ore 06.00) direttamente all’aeroporto di Punta Raisi (ore 06.30) dal quale raggiunse l’aeroporto di Roma Fiumicino (ore 08.00). Borsellino trascorse il resto della giornata a Roma dove, presso la sede della Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), interrogò il collaboratore Gaspare Mutolo: Borsellino interroga Gaspare Mutolo. É l´ultimo interrogatorio, dura parecchie ore. Il pentito accetta di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ma oggi non si fa in tempo, se ne riparlerá lunedí prossimo. É tardi. Borsellino chiude il verbale senza neppure una parola, sempre piú incupito. Saluta Mutolo, ed é l´ultima volta che lo vede.5 In serata Paolo Borsellino incontrò l’on. Carlo Vizzini, all’epoca segretario del partito socialdemocratico italiano (PSDI), come riportato sull’agenda e ricordato dallo stesso Vizzini in un’intervista del 10 ottobre 2009: “«Andò così - ricorda Vizzini -. Mi chiamarono lui, Lo Forte e Natoli. Erano a Roma e nel tardo pomeriggio avevano finito di lavorare, perché quel giorno avevano sentito il pentito Mutolo. Volevano vedermi, diedi loro appuntamento a un ristorante di piazza di Spagna. Il Moccoletto, si chiamava. Al tavolo eravamo solo noi quattro».10
Venerdì 17 luglio 1992 Borsellino si trattenne a Roma fino alle ore 12.30 quando si recò all’aeroporto di Fiumicino per imbarcarsi alla volta di Palermo con destinazione l’aeroporto di Punta Raisi dove atterrò alle ore 15.00.11
Dall’esame della pagina di giovedì 16 luglio 1992 dell’agenda grigia di Paolo Borsellino concludiamo dunque che quel giorno il Magistrato non si recò in Procura a Palermo. Borsellino lasciò di prima mattina la sua abitazione di via Cilea per raggiungere direttamente l’aeroporto di Punta Raisi, dal quale s’imbarcò alla volta di Roma Fiumicino.
Riteniamo pertanto che la notizia secondo la quale il Magistrato sarebbe stato informato del contenuto dell’informativa dei Ros nel suo ufficio in Procura la mattina di giovedì 16 luglio 1992 sia priva di qualsiasi fondamento in quanto nettamente in contrasto con il resoconto degli spostamenti della giornata redatto dallo stesso Borsellino sulla sua agenda grigia.
Le uniche informazioni a nostra disposizione5 relative alla trasmissione della nota informativa alla Procura di Palermo sono le seguenti:
· Una copia dell’informativa fu inviata il 16 luglio 1992 dal Ros di Milano alla Procura di Palermo per posta ordinaria e fu recapitata dopo la strage di Via D’Amelio.
· Il maresciallo Cava del Ros di Milano tentò di contattare direttamente la Procura palermitana ma senza risultato.
Ad oggi (14 ottobre 2009) non risultano ai curatori di questo sito elementi e/o riscontri oggettivi che possano dimostrare che Paolo Borsellino fu messo al corrente dello specifico contenuto della nota confidenziale del Ros di Milano datata 16 luglio 1992 ed attinente ad una minaccia di attentato ai danni dello stesso Borsellino e di Antonio Di Pietro.
In seguito alla puntata della trasmissione televisiva Annozero intitolata “Verità nascoste”1 (8 ottobre 2009), diversi organi di stampa si sono occupati di un progetto di attentato che nel luglio 1992 sarebbe stato messo a punto per colpire l’allora Pubblico Ministero di Milano Antonio Di Pietro ed il Procuratore Aggiunto di Palermo Paolo Borsellino. In particolare, l'incombente minaccia di morte riguardante i due magistrati fu segnalata in un'informativa datata 16 luglio 1992 e stilata dal Reparto operativo speciale (Ros) dei Carabinieri di Milano sulla base delle rivelazioni di una fonte confidenziale che fu ritenuta estremamente attendibile. Il confidente rivelò l’esistenza di un pericolo imminente di attentato ai danni di Di Pietro e Borsellino e fece riferimento agli interessi nel nord d’Italia di alcune famiglie mafiose di Cosa Nostra, tra le quali quelle facenti capo ai boss Salvatore Riina e Gaetano Fidanzati. Il Ros di Milano elaborò un rapporto basato sulle dichiarazioni dell’informatore e lo inviò alle Procure della Repubblica di Milano e Palermo.
L’esistenza dell’informativa del Ros fu resa nota pubblicamente il 23 luglio 1992 in un articolo apparso su il quotidiano IL SECOLO XIX.2 Antonio Di Pietro e Paolo Borsellino furono messi a conoscenza del contenuto di questa informativa?
Antonio Di Pietro ha confermato durante la puntata di Annozero dell’otto ottobre 2009 di aver letto personalmente l’informativa giovedì 16 luglio 1992: “Io, il 16 luglio del 1992, ho avuto modo di leggere con attenzione l’informativa dei carabinieri del Ros che erano venuti a trovarmi nel mio ufficio della procura. I militari, sviluppando le indagini informative nel periodo successivo alla morte del giudice Giovanni Falcone nella strage di Capaci, erano venuti a sapere che Borsellino ed il sottoscritto erano le due nuove vittime predestinate della mafia”.3 Di Pietro ha poi specificato che in seguito a questa grave ed attendibile minaccia le misure di sicurezza nei suoi confronti vennero pesantemente rafforzate: gli venne raddoppiata la scorta, gli fu fornita un auto blindata4 ed il PM milanese per alcune notti non dormì neppure a casa.5 Il 4 agosto 1992 il magistrato fu avvertito dal capo della Polizia Parisi di mettersi in contatto con il questore di Bergamo per ritirare un passaporto di copertura. Successivamente Di Pietro, che fu nuovamente informato di un attentato imminente contro di lui, partì sotto copertura insieme a sua moglie alla volta della repubblica centromericana di Costa Rica.4
Paolo Borsellino fu informato del contenuto dell’informativa? Il giornalista Manlio Di Salvo, dalle colonne del quotidiano IL SECOLO XIX, afferma che anche Borsellino venne messo a conoscenza del documento. Sull’edizione del 23 luglio 1992 del quotidiano ligure leggiamo: “I carabinieri del “Ros” (Raggruppamento operativo speciale) erano riusciti ad entrare in possesso di precise informazioni sugli attentati e, lo scorso 16 luglio, avevano informato i due giudici del pericolo che stavano correndo… I carabinieri avevano avvertito gli interessati del rischio di probabili attentati con tre giorni di anticipo sulla strage di Palermo (di Via D’Amelio, ndr). I due magistrati hanno, però, continuato a lavorare senza dare eccessivo peso alla segnalazione. Poi, domenica scorsa, la bomba che ha provocato la morte del giudice Borsellino e dei suoi cinque uomini della scorta”.2
Di Salvo torna sull’argomento con due articoli nel mese di ottobre 2009, subito dopo che Di Pietro ha confermato dagli schermi di Annozero di aver letto personalmente l’informativa redatta dal Ros di Milano. Il giornalista scrive che la notizia di un imminente pericolo di attentato ai danni di Di Pietro e Borsellino gli fu rivelata la mattina di domenica 19 luglio 1992 da un ufficiale del Ros di Milano in un bar di via Moscova nel capoluogo lombardo6 ed aggiunge che anche Paolo Borsellino fu informato il 16 luglio 1992 del contenuto dell'informativa del Ros: “Il senatore Antonio Di Pietro non sapeva. Nessuno lo aveva informato che anche Paolo Borsellino, come l’ex pm di Mani Pulite, era stato avvertito il 16 luglio di 17 anni fa dai carabinieri del Ros del rischio che stava correndo. Della possibilità di essere una delle due vittime predestinate della mafia. A Palermo, tra gli atti custoditi negli uffici dei carabinieri del Ros, ci sono ancora tutte le copie di quei documenti relativi alle segnalazioni fatte al giudice Paolo Borsellino. Quella mattina del 16 luglio 1992, Borsellino aveva letto l’informativa degli investigatori dell’Arma. E all’invito pressante a spostarsi più che velocemente da un territorio che scottava, avrebbe detto: «Questa è la sede dove svolgo regolarmente il mio lavoro. Io da questo ufficio non ho nessuna intenzione di muovermi». Una decisione che ha pagato con la vita… Il mattino del 16 luglio di 17 anni fa, Paolo Borsellino viene scortato, come sempre, nel suo ufficio. Poco dopo lo raggiungono i carabinieri del Ros. Le facce sono più cupe del solito. D’altronde, la notizia l’allarme è più grave e serio del solito. Borsellino inforca gli occhiali e legge. Con attenzione. Forse intuisce che stavolta il rischio è pesantissimo. L’informativa del Ros sfrutta i canali delle indagini sul narcotraffico. Gli infiltrati nella banda vengono a sapere che alcune famiglie emergenti di Cosa Nostra vogliono uccidere i giudici Borsellino a Palermo e Di Pietro a Milano. Gli investigatori del Raggruppamento operazioni speciali tentano di convincere Borsellino che stavolta la situazione è davvero grave, più del solito. La minaccia arriva da nomi di spicco della malavita organizzata. Ma Borsellino non recede. Scuotendo il capo, dice che lui da lì non si muove, tantomeno ha intenzione di cambiare ufficio o di sottostare a ulteriori misuredi sicurezza: quelle che ha, già gli bastano. Nelle stesse ore, sempre uomini del Ros, riescono invece a convincere l’altro bersaglio della mafia: Di Pietro. Che con un passaporto falso finisce in Costarica con la moglie. La “normalità” finisce nella tarda mattinata di domenica 19 luglio 1992, quando il giudice Paolo Borsellino va a casa della madre per pranzare con lei. Come ogni domenica. E come non accadrà più”.7
In seguito alla pubblicazione su IL SECOLO XIX dei recenti articoli firmati da Di Salvo (10 e 11 ottobre 2009), la notizia che Paolo Borsellino avesse deciso di rimanere a Palermo - nonostante fosse venuto a conoscenza il 16 luglio 1992 attraverso l’informativa del Ros dell'imminente pericolo di attentato - è stata ripresa da numerose agenzie di stampa8 e da altri quotidiani.9
Borsellino fu dunque informato la mattina di giovedì 16 luglio 1992 nel suo ufficio in Procura dai carabinieri del Ros dell’informativa redatta dai colleghi del Ros di Milano?
Un documento fondamentale per ricostruire gli spostamenti di Paolo Borsellino nel mese di luglio 1992 è rappresentato dall’agenda grigia del Magistrato, dove Borsellino era solito segnare alcuni appuntamenti della giornata trascorsa ed i luoghi dove si era recato. Alla pagina di giovedì 16 luglio il Magistrato ha scritto:
Ore 06.00: C (lettera simbolica per “Casa”, ndr)
Ore 06.30: Punta Raisi
Ore 08.00: Fiumicino
Ore 09.00: Roma (D.I.A.)
Ore 13.30: (De Gennaro)
Ore 14.30: (Visconti)
Ore 16.00: (D.I.A.)
Ore 20.00: (Visconti)
Dopo le ore 20.30 (ndr): (Vizzini), (Visconti)
Dall’esame della pagina di giovedì 16 luglio 1992 dell’agenda grigia di Paolo Borsellino risulta che il Magistrato di prima mattina si avviò da casa (ore 06.00) direttamente all’aeroporto di Punta Raisi (ore 06.30) dal quale raggiunse l’aeroporto di Roma Fiumicino (ore 08.00). Borsellino trascorse il resto della giornata a Roma dove, presso la sede della Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), interrogò il collaboratore Gaspare Mutolo: Borsellino interroga Gaspare Mutolo. É l´ultimo interrogatorio, dura parecchie ore. Il pentito accetta di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ma oggi non si fa in tempo, se ne riparlerá lunedí prossimo. É tardi. Borsellino chiude il verbale senza neppure una parola, sempre piú incupito. Saluta Mutolo, ed é l´ultima volta che lo vede.5 In serata Paolo Borsellino incontrò l’on. Carlo Vizzini, all’epoca segretario del partito socialdemocratico italiano (PSDI), come riportato sull’agenda e ricordato dallo stesso Vizzini in un’intervista del 10 ottobre 2009: “«Andò così - ricorda Vizzini -. Mi chiamarono lui, Lo Forte e Natoli. Erano a Roma e nel tardo pomeriggio avevano finito di lavorare, perché quel giorno avevano sentito il pentito Mutolo. Volevano vedermi, diedi loro appuntamento a un ristorante di piazza di Spagna. Il Moccoletto, si chiamava. Al tavolo eravamo solo noi quattro».10
Venerdì 17 luglio 1992 Borsellino si trattenne a Roma fino alle ore 12.30 quando si recò all’aeroporto di Fiumicino per imbarcarsi alla volta di Palermo con destinazione l’aeroporto di Punta Raisi dove atterrò alle ore 15.00.11
Dall’esame della pagina di giovedì 16 luglio 1992 dell’agenda grigia di Paolo Borsellino concludiamo dunque che quel giorno il Magistrato non si recò in Procura a Palermo. Borsellino lasciò di prima mattina la sua abitazione di via Cilea per raggiungere direttamente l’aeroporto di Punta Raisi, dal quale s’imbarcò alla volta di Roma Fiumicino.
Riteniamo pertanto che la notizia secondo la quale il Magistrato sarebbe stato informato del contenuto dell’informativa dei Ros nel suo ufficio in Procura la mattina di giovedì 16 luglio 1992 sia priva di qualsiasi fondamento in quanto nettamente in contrasto con il resoconto degli spostamenti della giornata redatto dallo stesso Borsellino sulla sua agenda grigia.
Le uniche informazioni a nostra disposizione5 relative alla trasmissione della nota informativa alla Procura di Palermo sono le seguenti:
· Una copia dell’informativa fu inviata il 16 luglio 1992 dal Ros di Milano alla Procura di Palermo per posta ordinaria e fu recapitata dopo la strage di Via D’Amelio.
· Il maresciallo Cava del Ros di Milano tentò di contattare direttamente la Procura palermitana ma senza risultato.
Ad oggi (14 ottobre 2009) non risultano ai curatori di questo sito elementi e/o riscontri oggettivi che possano dimostrare che Paolo Borsellino fu messo al corrente dello specifico contenuto della nota confidenziale del Ros di Milano datata 16 luglio 1992 ed attinente ad una minaccia di attentato ai danni dello stesso Borsellino e di Antonio Di Pietro.
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