venerdì 9 ottobre 2009

Lo sviluppo dell’uomo e la “Caritas in veritate”

di Vittorio Maria Tranquilli

Nell’Introduzione all’enciclica “Caritas in veritate” (29 giugno 2009) Benedetto XVI si richiama alla “Populorum progressio” di Paolo VI (23 marzo 1967), dichiarando di volerlo fare «riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo umano integrale e collocandosi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell’ora presente» (punto 8).
Non ci occuperemo qui dei contenuti specifici delle considerazioni, esortazioni, auspici dell’attuale pontefice a proposito di «Sviluppo umano nel nostro tempo» (Cap. II), di «Fraternità, sviluppo economico e società civile» (Cap. III), di «Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente» (Cap. IV), di «Collaborazione della famiglia umana» (Cap. V), di «Sviluppo dei popoli e tecnica» (Cap. VI). Vi sono dette cose ben note su problemi largamente dibattuti, su esigenze universalmente e pressantemente sentite da tutti gli uomini, viventi a qualunque latitudine e operanti in qualunque campo e organismo: dai governi alle ONG e alle stesse missioni cattoliche o di altre confessioni cristiane. Che la vita individuale e sociale non debba essere dominata dalle sole regole dell’accumulazione e del profitto; che ai lavoratori e alle famiglie debba andare la giusta parte del reddito prodotto; che i Paesi ricchi debbano collaborare al sollevamento di quelli della miseria, della fame e delle malattie endemiche; che nell’era della globalizzazione siano necessari strumenti di governo mondiale in materia finanziaria, economica, politica, e via dicendo, è difficile metterlo in dubbio. Nell’ipotesi, comunque, che la “Dottrina sociale della Chiesa”, da Pecci a Ratzinger, abbia effettivamente dato e dia apporti di merito alla soluzione di tali problemi e contributi oggettivi all’accoglimento di tali esigenze, sia essa benvenuta. Lo stesso dicasi nella misura in cui ha realmente concorso e concorre a impegnare e a mobilitare i fedeli in tali direzioni, nella teoria e nella pratica.
Intendiamo soffermarci piuttosto – beninteso nei limiti di quel poco che ci è possibile in questioni di simile portata e profondità – sullo spirito del magistero “sociale” dei papi, quale è espresso rispettivamente, appunto, nella “Populorum progressio” e nella “Caritas in veritate”. Cioè sui presupposti dottrinali, teologici, filosofici da cui si sviluppa l’una e l’altra enciclica e sulla loro maggiore o minore accettabilità dal punto di vista laico, che è quello di tutti gli “uomini di buona volontà” in quanto uomini, siano essi credenti o non lo siano.
Nella Populorum progressio, Paolo VI esordisce dichiarando che lo sviluppo dei popoli – nei modi positivi come in quelli contraddittori e spesso ingiusti e iniqui secondo cui si sta concretamente attuando nella dimensione mondiale ormai raggiunta - «è oggetto di attenta osservazione da parte della Chiesa», nell’intento di «mettersi al servizio [nostro corsivo] degli uomini» (n.1). «I popoli della fame – prosegue – interpellano oggi in modo drammatico i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno [n. c.] a rispondere con amore all’appello del suo fratello» (n.3). E dopo avere ricordato le conclusioni programmatiche della Commissione pontificia “Giustizia e pace” da lui istituita col compito di «suscitare in tutto il popolo di Dio [n. c.] la piena coscienza del ruolo che i temi attuali reclamano da lui», afferma di ritenere che «su tale programma possano e debbano convenire, assieme [n. c.] ai nostri figli cattolici e ai fratelli cristiani, gli uomini di buona volontà [n. c.]». Si tratta quindi di un «solenne appello» rivolto «a tutti [n. c.]» (n.5).
Fin qui ci pare che, da un punto di vista laico, non ci sia nulla da eccepire. In sostanza la Chiesa cattolica risulta volersi assumere, in questo incipit della “Populorum progressio”, un ruolo di servizio nei riguardi di tutti gli uomini; intende dare il suo contributo all’uscita dalle loro universali difficoltà e sofferenze; impegna i propri fedeli in tale direzione e si attende apprezzamento e condivisione da parte di tutti.
Dove ci sembra che cominci invece a sorgere qualche problema, è in alcune espressioni e formulazioni successive. Ai fini predetti – scrive Paolo VI – la Chiesa offre agli uomini «ciò che possiede in proprio [n. c.]: una visione globale [n. c.] dell’uomo e dell’umanità» (n.13). “In proprio” vuol dire: come suo appannaggio esclusivo? O, al contrario, l’articolo indeterminativo “una”, premesso a “visione globale”, significa che anche altri possono avere e hanno la loro, con cui la Chiesa, allora, vuole e deve confrontarsi?
Inoltre – e qui il problema comincia a precisarsi meglio – dapprima Paolo VI dice che col solo [n. c.] sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ognuno può crescere in umanità […]» (n.18), ma per aggiungere poco dopo che un’armonica crescita umana secondo natura è altresì «chiamata a un superamento [n. c.]. Mediante la sua inserzione nel Cristo vivificatore, l’uomo accede a una dimensione nuova [n.c.], a un umanesimo trascendente [n. c.], che gli conferisce la sua più grande pienezza: questa è la finalità suprema [n. c.] dello sviluppo personale» (n.16).
Più esplicitamente, la “Populorum progressio” afferma che «la fatica degli uomini ha poi, per il cristiano [n. c.], un significato ben maggiore [n. c.], avendo essa anche la missione di collaborare alla creazione del mondo soprannaturale [n. c.], che resta incompiuto fino a che non saremo pervenuti tutti insieme [n. c.] a costituire quell’ Uomo perfetto [n. c.] di cui parla San Paolo, “che realizza la pienezza di Cristo”» (n.28). Se “tutti insieme” non vuol dire soltanto tutti i cristiani, ma – come risulta più coerente in questo discorso – tutti gli uomini, allora ci pare che qui vi sia proprio una contraddizione in termini. E’ “per il cristiano” che la tensione naturale dell’uomo al proprio sviluppo ha anche tale “ben maggiore significato”; ma questo stesso significato, che è appunto “la creazione di un mondo soprannaturale”, non può essere compiutamente realizzato se non vi partecipano gli uomini “tutti insieme”. Delle due l’una, parrebbe allora conseguirne. O tutti gli uomini finiranno per sposare la fede cristiana, oppure il “mondo soprannaturale” non potrà mai compiersi e perciò resterà incompleta, o meglio resterà chiusa in un significato minimale, la stessa operazione dell’uomo secondo natura.
Ancora più esplicito è il contrasto, rispetto a quanto appariva nell’incipit, del seguente brano dell’enciclica di Paolo VI: «Senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma “senza Dio non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano” (citazione tratta da H. de Lubac: “Le drame de l’humanisme athée”, Parigi 1945, p. 10). Non vi è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto […]. Lungi dall’essere la norma ultima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che trascendendosi [n. c.]» (n.42).
Prescindiamo dall’inattesa drasticità della citazione del de Lubac (che pur fu “esperto” conciliare), secondo cui l’opera dell’uomo, senza Dio, sarebbe persino “inumana” e “contraria” all’uomo stesso, quindi tendente al suo male, alla sua rovina: cosicché, in definitiva, l’uomo in quanto tale, l’uomo secondo natura, sarebbe stato creato da Dio come incapace di reggersi sulle proprie gambe e di fare qualunque cosa autonomamente senza auto-negarsi. Pur rendendoci conto che siamo qui di fronte a un problema nodale, dibattuto nei secoli e nei millenni senza venirne esaurientemente a capo, ci basta adesso soffermarci sulla più contenuta tesi di Paolo VI sottolineata poco sopra, secondo cui l’operazione umana sarebbe per principio incompiuta, insufficiente, incapace di realizzare un “umanesimo vero”, se non è “aperta verso l’Assoluto”: se dunque l’uomo non agisce animato dallo spirito di un continuo trascendimento di ciò che fa e di ciò che è.
Ora, il verbo “trascendere” può essere inteso e usato su due piani diversi, sebbene non necessariamente opposti. Sull’autonomo piano della natura umana, collima col verbo “superare” e significa che – riconosciuta e presupposta come definitoria la limitatezza dell’uomo, delle sue operazioni, capacità, prospettive – l’uomo stesso tende però a superare via via il limite determinato in cui si trova in una data fase del suo cammino, non per “saltare” nell’assoluto, ma per costruire un contesto vitale ed elaborativo nuovo che è, sì, ulteriore, ma soggetto pur sempre a limitatezza. Ne consegue che la natura umana – e nell’aver preso atto di questo sta a nostro avviso una fondamentale conquista della modernità – ha come suo carattere intrinseco quello della storicità, che è tensione a spostare indefinitamente in avanti il limite attuale (ed è da sottolineare che il termine “indefinito” è assai diverso da “infinito”). Insomma lo “sviluppo” dell’uomo – argomento tanto della “Populorum progressio” quanto della “Caritas in veritate” – è sviluppo storico e non può essere confuso, né tanto meno identificato, con orizzonti escatologici. La storia è storia dell’uomo, di tutti gli uomini, abbiano o meno il “dono della grazia”, della fede in Dio e in Cristo: si colloca quindi su di un piano propriamente laico.
Al di là della storia c’è poi, ma solo per i credenti, la prospettiva dell’assoluto, della “partecipazione alla vita di Dio”. Nulla quaestio. Ma se non si sta bene attenti a tenere distinti i due piani, c’è il gravissimo rischio di non prestare l’attenzione dovuta alla sempre incombente tentazione dell’uomo ad impossessarsi dell’assoluto prescindendo da Dio (e allora, in questo quadro, negandolo): cioè a impadronirsene mediante una propria autonoma e autosufficiente operazione. E’ proprio qui, su questo piano escatologico, della “salvezza soprannaturale”, che l’uomo ha invece imprescindibile bisogno, nella visione cristiana, dell’aiuto ovvero (a seconda delle diverse posizioni teologiche, sulle quali ovviamente non è adesso il caso di addentrarsi) della scelta o predestinazione da parte di Dio. C’è insomma il rischio di un presunto “vero umanesimo” che – trascrivendo in termini a-teistici e quindi, in tale contesto, almeno oggettivamente anti-teistici, l’escatologia cristiana - porti a concepire la storia umana come “rapina dell’assoluto”, come processo di una pretesa autorealizzazione dell’uomo in termini di infinitezza, di onnipotenza, quindi di “indiamento”. Di ciò la tradizione testamentaria e cristiana in genere verrebbe allora ad essere soltanto la prefigurazione mitica.
Questo rischio si va sensibilmente accentuando oggi, di pari passo col progredire della scienza e della tecnica. Aumentano gli Autori (anche di elevato livello) secondo i quali tale progresso – considerato punta di diamante dello sviluppo umano nella sua accezione più ampia – rivelerebbe un itinerario avente inizio, in termini biblici, dal “peccato” commesso da Eva ed Adamo mangiando il frutto del primo “albero proibito”, quello della “conoscenza del bene e del male” (“Genesi”: 2, 8 sgg – 3,1 sgg.) e compimento nell’appropriazione umana del secondo “albero” dell’Eden, quello “della vita” (Ivi: 3, 21-23), vale a dire dell’immortalità, che nemmeno il “serpente” osò nominare e alla cui custodia Dio pensò bene, vista l’antifona, di mettere «i cherubini e la spada della fiamma folgorante».
Afferma ad esempio Aldo Schiavone che «attraverso la scienza e la tecnica l’infinito – l’infinito come assenza totale di confini alle possibilità del fare, come caduta di ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi (“omnis determinatio est negatio”) – sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini» (“Storia e destino” – Einaudi 2007, p.98). Con lui consente Giorgio Ruffolo citando, commentando, sviluppando (“Il capitalismo ha i secoli contati” – Einaudi 2008, p. 282 – 283). Sostanzialmente su analoga linea si pongono, estraendo proposizioni filosofiche dai più recenti sviluppi delle proprie discipline, alcuni degli stessi scienziati, come ad esempio Edoardo Boncinelli e Galeazzo Sciarretta, i quali però, al titolo del loro libro “Verso l’immortalità?” (Raffaello Cortina Editore, 2005) hanno avuto almeno la prudenza di apporre un punto interrogativo.
Quelle che nel post-conciliare papa Montini erano travagliate ambiguità, appaiono esplicitate in papa Ratzinger (considerato e criticato infatti da molti cattolici come anti-conciliare, per quanti residuali richiami al Vaticano II vi siano nei suoi pronunciamenti, compresa l’enciclica in questione) quali inequivocabili affermazioni d’integralismo. Ci soffermiamo principalmente sull’Introduzione della “Caritas in veritate” e sul suo primo capitolo, dedicato al «Messaggio della “Populorum progressio”». Della predetta esplicitazione vi si possono individuare – da un punto di vista logico – tre momenti o gradini, sebbene le loro espressioni vi siano alternate e intrecciate.
In primo luogo, l’enciclica pare limitarsi a rivendicare una semplice (sebbene laicamente sempre inaccettabile) superiorità, nell’umano adoperarsi per un autentico sviluppo, da parte di chi è animato dalla fede in Cristo. Si ammette che anche altri approcci possano essere validi, ma quello cristiano-cattolico li sovrasta, li mette insieme, li organizza secondo un senso compiuto: «Aperta alla verità da qualsiasi sapere provenga, la dottrina sociale della Chiesa l’accoglie, compone in unità i frammenti in cui spesso la ritrova» (n.9). Un concetto, questo, che abbiamo già evidenziato nella “Populorum progressio”, ma che papa Ratzinger accentua e intensifica attribuendo a Paolo VI l’aver proposto «la carità cristiana come principale [n. c.] forza a servizio dello sviluppo» (n.13).
In secondo luogo, la “Caritas in veritate” sostiene che almeno un aspetto essenziale al “vero” sviluppo umano si dà soltanto in termini cristiani. Nella “Populorum progressio”, parlando di un mondo «malato», Paolo VI aveva detto che il male risiede «nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (n.66). Ma «questa fraternità – si domanda retoricamente Benedetto XVI nella “Caritas in veritate” – gli uomini potranno mai ottenerla da soli? La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civile tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità» (n.19).
Su questo punto va concesso che effettivamente, nella storia moderna, della famosa triade “Liberté, égalité, fraternité” bandiera della Rivoluzione francese, il terzo termine è rimasto parecchio indietro (cfr. in proposito gli studi di Stefano Sacconi, anche nel suo sito www.mareaperto.net ). Ma papa Ratzinger trasforma una deficienza di fatto, come tale sempre superabile quale ne sia la difficoltà, in impossibilità di principio: gli uomini, affidandosi alla sola ragione, «non potranno mai» fondare la fraternità. Questa «ha origine [n. c.] da una vocazione trascendente di Dio Padre» (ivi).
A tale proposito – e siamo ora al terzo dei momenti o gradini sopra accenati - papa Ratzinger cita ancora un brano della “Populorum progressio” che, dopo aver definito la pienezza del “vero sviluppo” come «il passaggio, per ciascuno e per tutti [n. c.] da condizioni meno umane a condizioni più umane» (n.20), dice che tra queste ultime è tale «soprattutto» (ossia è massimamente umana) «la fede, dono di Dio accolto dalla buona volontà dell’uomo e [solo da qui comincia, non a caso, la citazione nella “Caritas in veritate”] l’unità nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini» (n.21). Papa Ratzinger trascura però le altre “condizioni più umane” enumerate da papa Montini prima di quel “soprattutto”, molte delle quali sono e sono da lui riconosciute, appunto, propriamente, autonomamente e universalmente umane, cioè realizzabili dall’uomo senza bisogno di divini supporti: «l’ascesa dalla miseria verso il possesso del necessario, la vittoria sui flagelli sociali, l’ampliamento delle conoscenze, l’acquisizione della cultura, [nonché] l’accresciuta considerazione della dignità degli altri, l’orientarsi verso lo spirito di povertà, la cooperazione al bene comune, la volontà di pace» (ivi).
Secondo papa Ratzinger – viene da domandarsi – Paolo VI sbaglia nel ritenere almeno queste condizioni (sulle quali così distesamente si sofferma lui stesso, Ratzinger, nei capitoli successivi della “Caritas in veritate”) come “humanae tantum”? A nostro avviso è evidente che su questo punto di capitale importanza papa Ratzinger non si limita, nella “Caritas in veritate” a «rendere omaggio e tributare onore alla memoria del grande Pontefice Paolo VI», riprendendo i suoi insegnamenti per attualizzarli (n.8), ma lo contraddice e lo corregge. Sostanzialmente anzi - per essere ancora più precisi – lo capovolge, tagliando con l’accetta ogni nodo, ogni problematicità del suo “santo predecessore”, ogni sua prudenza animata comunque dall’intenzione di porsi in continuità con il Concilio.
Afferma infatti decisamente Benedetto XVI che «l’adesione ai valori del cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile [n. c.] per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale» (n.4); che «senza la prospettiva di una vita eterna, il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro» (n.11); che «l’uomo non si sviluppa con le sole proprie forze», restando «chiuso dentro la storia» (ivi); che «quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il “bene”, comincia a svanire» (n.18 – qui cita se stesso, dal suo “Discorso ai giovani sul molo di Barangaroo, luglio 2008). Ma se senza Dio viene meno il bene, cosa può conseguirne se non che, senza Dio, l’uomo è capace di fare soltanto il male? Non sembri una bestemmia a cattolici anche sinceri, ma ci torna alla mente la luterana determinazione intrinseca dell’umanità al male, eccezion fatta per quei pochissimi che Dio ha “predestinato alla salvezza”.
Nella «Conclusione» dell’enciclica, papa Ratzinger riprende brevemente le tesi di questo tenore sostenute in precedenza – con particolare decisione nell’Introduzione e nel Capitolo I – sintetizzandole nella seguente asserzione lapidaria, inequivocabile, incontrovertibile: «Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (n.66). Sembra quasi un macigno, o meglio un “diktat” imposto non solo ai cattolici ma, almeno nelle intenzioni, a tutti.

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