martedì 6 ottobre 2009

La legge del popolo

di Stefano Petrucciani, il manifesto, 2 ottobre 2009

Interrogarsi oggi sulle questioni della democrazia significa innanzitutto mettere a tema una crisi e una difficoltà. A questa crisi, dunque, è necessario dedicare qualche osservazione.

La situazione odierna potrebbe essere messa a fuoco in prima battuta partendo dalle parole-chiave crisi di fiducia, o crisi di legittimità. Il discredito sempre più grave che investe le pratiche, gli attori e talvolta anche le istituzioni della democrazia rappresentativa (e che ha avuto ed ha nella cosiddetta «antipolitica» la sua manifestazione più eclatante) affonda le sue radici in una serie di trasformazioni dei processi politici che si sono verificate negli ultimi anni e che hanno prodotto un panorama dalle caratteristiche inedite e, per certi versi, anche pericolose. Proviamo a enucleare qualche aspetto di queste trasformazioni, che peraltro sono sotto gli occhi di tutti.

In primo luogo sembra che sia venuta meno, dopo la crisi dei socialismi reali e l'affermazione sostanzialmente incontrastata delle ideologie neoliberiste, una delle caratteristiche sostanziali che avevano caratterizzato la vita democratica per molti decenni, cioè il confronto o conflitto tra opzioni valoriali e orizzonti politici radicalmente diversi.

Il sequestro della tecnocrazia
Accade infatti che, nell'età del neoliberismo e del mercato globale, molte delle scelte più rilevanti siano di fatto sottratte a un vero dibattito pubblico e conflitto politico, perché: o trascendono l'ambito della politica a misura di stato-nazione e vengono sequestrate da tecnocrazie sovrananzionali lontane e poco controllabili; o vengono ricondotte a considerazioni di tipo tecnico che il pubblico dei profani è costretto ad accettare passivamente; oppure rispondono a opzioni sulle quali entrambi gli schieramenti in competizione si trovano d'accordo.

Per esempio, si concorda, per ragioni «tecniche» (la presunta difesa del consumatore, mille svolte smentita dagli effettivi andamenti dei prezzi) sulla necessità di liberalizzare e ricondurre a logiche di mercato la fornitura di servizi essenziali come l'acqua, l'energia elettrica, il trasporto ferroviario o quant'altro, e ci si divide solo in funzione dei gruppi di interesse, o delle cordate imprenditoriali, che vengono dall'una o dall'altra parte favorite. In sostanza, dopo una trentina d'anni di martellanti campagne, l'egemonia delle parole d'ordine neo-liberali si è affermata sui due principali schieramenti politici in competizione, costringendo i cittadini a scegliere tra alternative che in molti casi non sono tali, e inducendo dunque la chiara sensazione della futilità e inefficacia della loro partecipazione.

In conseguenza di queste trasformazioni, è completamente saltata anche un'altra caratteristica costitutiva della democrazia europea postbellica, e cioè la simmetria tra la geografia degli schieramenti politici e quella degli interessi sociali e delle classi che (sebbene con molte complicazioni e possibilità intermedie) assegnava alla sinistra la rappresentanza dei ceti popolari e alla destra quella dei ceti borghesi. Da un lato, infatti, appare evidente come l'accettazione delle coordinate fondamentali del neoliberismo da parte dello schieramento di centrosinistra abbia prodotto la separazione tra questo e ampi strati della cittadinanza operaia e popolare. Sottoscrivendo, per esempio, la privatizzazione di servizi essenziali e la riduzione dei diritti del lavoro, il centrosinistra non poteva non alienarsi le simpatie di molti strati sottoprivilegiati, che hanno dunque perso la fiducia nelle loro rappresentanze storiche.

Il problema, però, non si esaurisce in questa prima constatazione elementare. Il fatto è che, nell'età del mercato globale, la classe operaia e il popolo, cioè gli strati sociali che la sinistra aveva preteso per decenni di rappresentare, sono a loro volta divenuti, per così dire, «irrappresentabili», in quanto hanno subito un peggioramento delle loro condizioni di vita che però era molto difficile da contrastare, soprattutto se lo si voleva fare appoggiandosi sui valori tradizionali della sinistra. Gli operai del settore manifatturiero hanno visto svanire il loro potere contrattuale di fronte alla concorrenza dei prodotti asiatici o alla delocalizzazione delle produzioni nell'Est europeo; mentre il popolo delle periferie metropolitane vedeva le sue già difficili condizioni di vita degradarsi ulteriormente, ed era tentato di darne la colpa alle cospicue ondate migratorie che hanno investito il nostro paese. Cosa poteva fare la sinistra per proteggere questi interessi? È molto difficile rispondere. Certo non poteva chiedere il ritorno al protezionismo o la blindatura delle frontiere. Ma il risultato di queste difficoltà è stata la produzione di un popolo senza rappresentanza. (E dunque esposto a farsi rappresentare dai peggiori e dai più improbabili).

Il dominio della casta
La crisi della sinistra, però, non è cosa diversa dalla crisi della democrazia. La sinistra, infatti, è la parte politica che difende il valore della politica, mentre la destra è la parte politica che svaluta la politica. Dunque, la crisi della sinistra si traduce inevitabilmente in una crisi della politica democratica.

Lo stato di sofferenza della politica democratica oggi deve però essere compreso anche come il risultato di processi di lungo periodo che hanno prodotto quella che può essere chiamata una riduzione del tasso di democraticità della democrazia. Processi di neo-elitizzazione e di sdemocratizzazione hanno investito sia gli assetti giuridici e politici sia la configurazione materiale della società. Per quanto riguarda il quadro «legale» della democrazia basterà ricordare, per esempio, la riduzione del ruolo del Parlamento rispetto all'esecutivo, la diminuzione della possibilità di controllo dei cittadini sulla scelta dei candidati (con sistemi come i collegi uninominali o l'abolizione delle preferenze), la sempre più marcata separazione dei rappresentanti dai rappresentati (il tema della «casta»).

La nuova «elitizzazione», non solo della società, ma anche delle dinamiche politiche (su questo ha osservazioni interessanti Jacques Rancière nel suo recente libro L'odio per la democrazia) si può facilmente riscontrare nel fatto che l'accesso alla competizione politico-elettorale è diventato sempre più ristretto a causa della crescente quantità di risorse economiche che è necessario mettere in campo; il ruolo sempre più rilevante della comunicazione televisiva, inoltre, ha ridotto il numero di coloro che sono protagonisti della scena e la mediatizzazione ha concentrato tutto l'interesse su pochi leader, sostenendo una forte spinta verso la oligarchizzazione del potere politico. Leaderismo e personalizzazione, ovviamente, si sono diffusi anche all'interno dei partiti, che hanno visto anch'essi diminuire (quando non sparire del tutto) il loro tasso di democrazia interna.

In nome dei Lumi
Non c'è dunque da meravigliarsi se, su questa base, fioriscono e prosperano quelle tendenze emergenti e pericolose che sembrano caratterizzare la politica del nostro tempo: quella che si profila è, ex parte populi, una politica del risentimento, dove il rancore, variamente indirizzato, prende il posto della critica razionale e della difesa dei propri interessi effettivi, che sono stati sostanzialmente marginalizzati. Ex parte principis, invece, quella che si viene affermando è una politica del populismo: che va definito come la pretesa di offrire soluzioni politiche che siano in sintonia con il sentire immediato della «gente», e che dunque pretendono di porsi al di là della dicotomia destra/sinistra. Risentimento e populismo, si potrebbe sostenere, sono l'altra faccia dell'eclisse del conflitto sociale, e configurano una vera e propria riduzione al grado zero della discussione pubblica.

Rispetto a questa situazione critica la teoria politica democratica tende a rispondere, oggi, attraverso una ricerca sui modi in cui si possano rilanciare la sfera pubblica e la discussione argomentata. All'uso politico dei sentimenti (e soprattutto dei risentimenti) si tenta di contrapporre la riscoperta dell'uso pubblico della ragione, la vecchia parola d'ordine kantiana che viene oggi rivisitata e attualizzata da tutta quella variegata famiglia di teorie che si raccolgono nel grande contenitore della «democrazia deliberativa». Il punto di fondo che accomuna gli approcci «deliberativi», che sono divenuti ormai, soprattutto nella letteratura politica anglofona, una vera e propria galassia, si può sintetizzare in una tesi molto semplice e anche piuttosto persuasiva: se la democrazia è un buon modo per prendere decisioni, e per dare ad esse una legittimità, non è solo perché in democrazia si contano i voti, e dunque prevale la volontà della maggioranza. Più importante ancora è, per i «deliberativi», il fatto che, prima di decidere, si discute, si esaminano i pro e i contro, si confrontano ragioni e argomenti a sostegno dell'una o dell'altra alternativa.

L'opinione pubblica, e la discussione attraverso la quale essa si forma (tra i cittadini, nei giornali, nelle organizzazioni e associazioni, nelle pubbliche manifestazioni), è per i deliberativi non solo il sale della democrazia ma, più in profondità, ciò su cui riposa in ultima istanza la sua legittimità: rispettiamo le decisioni di maggioranza in quanto risultano (o meglio dovrebbero risultare) da un confronto aperto e paritario, che autorizza dunque, per dirla con Jürgen Habermas, una presunzione di razionalità, o quantomeno di ragionevolezza, degli esiti a cui si perviene.

Tra dialogo e conflitto
I processi della democrazia reale, però, sembrano allontanarsi sempre più dal modello che, secondo i deliberativi, dovrebbe ispirarli; ed ecco dunque un fiorire di ricerche su come re-innestare discorsi e buone ragioni dentro una sfera pubblica che è sempre meno capace di ospitarli: per esempio affiancando alla politica parlamentare sedi diverse, forum nei quali si possano confrontare cittadini informati, oppure istituzioni partecipative che possano fungere da contraltare rispetto a una politica di professione divenuta sempre più autoreferenziale (su alcuni di questi temi è da leggere un testo recente di Yves Sintomer, Il potere al popolo, pubblicato da Dedalo).

Data la triste situazione in cui le procedure democratiche versano oggi, le proposte volte a rinnovarle e a rivitalizzarle non possono che essere salutate con favore. È necessario però porsi anche le domande che molte teorie della democrazia deliberativa sembrano lasciare in qualche modo inevase: che rapporto c'è tra la democrazia procedurale, che si vorrebbe rafforzare, e la democrazia sostanziale che manca nella società? E che validità può avere il modello discorsivo di fronte a conflitti culturali, religiosi o tra convinzioni morale profonde, che sembrano segnati da una rigidità che li rende quali impermeabili alla discussione pubblica? Insomma, come si rapportano tra loro il paradigma del dialogo e quello del conflitto?

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