mercoledì 14 ottobre 2009

Aquila, il gelo sulle tendopoli con seimila irriducibili

Meno uno. Poco dopo il telegiornale della sera, il termometro appeso al pilone in cima al quale sventola la bandiera italiana dice così. Siamo sottozero. Per la prima volta da quando tutto questo è cominciato. Il piazzale è deserto, le luci dei riflettori sono spente.

Le tende blu ondeggiano, scosse dal vento gelido. Un cane abbaia nel buio. Gli umani si riparano nella casetta di plastica bianca. Stasera niente doccia, l'acqua potrebbe ghiacciare nei tubi. E comunque fa troppo freddo. Il campo di accoglienza di Poggio di Roio chiude domani. Era la cima Everest delle tendopoli aquilane, il più alto di tutti, 1.030 metri sul livello del mare. Le tre famiglie che ancora ci vivono sono destinate a Lucoli, in un albergo attaccato alle piste sciistiche di Campo Felice. «Non possiamo più stare» dice Raffaella Curci, che prima del 6 aprile viveva in un condominio di Roio, quattrocento metri più in basso. «Bello caldo, stavamo in casa con la maglietta. Un sogno». Qui non è possibile rimanere.

Più delle parole della madre, lo testimonia la gemma sbocciata sulla guancia destra del figlio Massimo, un bambinone di nove anni. «È un eczema da freddo, me lo ha detto il dottore» spiega lui, orgoglioso. L'altra guancia, ci ha pensato lui a proteggerla. «Mi sono appicciato a mamma mentre dormiva». Chiudono i campi, quasi ovunque. La desolazione ispirata dalla vista delle tende arrotolate a terra, delle «salette di socializzazione» desolatamente vuote, è la feritoia dalla quale passa la rabbia di chi invece resta, ancora senza fissa o temporanea dimora. Sono seimila, sparsi in 60 punti di accoglienza, sotto duemila tende. Ci sono quelli che hanno una casa assegnata e aspettano «il rispetto degli impegni presi». Alcuni sono stati respinti dall'algoritmo che regola l'attribuzione degli appartamenti in costruzione e hanno rifatto domanda. Altri sperano di tornare dov'erano, titolari di abitazioni «di classe B», lesionate ma in attesa del decreto di agibilità. Tutti, o quasi, non vogliono rassegnarsi ad aspettare altrove. Sono gli «irriducibili» dei quali ha parlato Guido Bertolaso, ammettendo al tempo stesso che la promessa chiusura delle tendopoli a fine settembre è slittata per via delle ultime scosse di terremoto. «Ma siamo in condizioni di chiuderle tutte. Contemporaneamente si è però messo in moto un passa parola di irriducibili che stanno facendo circolare un messaggio: non bisogna cedere ai programmi del governo. Una bella strumentalizzazione».

Nelle parole del dirigente Fabrizio Curcio si percepisce un'urgenza nuova. «Capiamo che è difficile — dice —. Ma in tenda non si può più stare. Gli sfollati devono stringere i denti per qualche mese, e accettare una sistemazione provvisoria nella provincia dell'Aquila». Non è certo un caso che il Capo della Protezione civile abbia alzato i toni proprio ieri. È arrivato l'inverno, perché lo diceva anche un proverbio che L'Aquila non conosce l'autunno. Constatazione banale, che assume però aspetti tragici per chi ancora vive nella precarietà più assoluta. Alle 12.30 di lunedì c'erano 18,3 gradi. Dodici ore dopo erano diventati 2.9, una escursione termica da record. Vento che tirava a ottanta all'ora, nel pomeriggio un temporale da quasi venti millimetri di pioggia. Al mattino, il Gran Sasso completamente imbiancato, i primi fiocchi caduti anche a valle. E d'improvviso la vita nei campi è diventata ancora più insopportabile. «Jì l'ero ittu a maggio», lo avevo detto a maggio. Corradino Tarquini trema di freddo e di rabbia. È un anziano di 73 anni, occhi chiari, barba sfatta, un cappuccio di lana in testa. Mostra il pavimento di tela della sua tenda completamente zuppo di acqua e fango. Il vento l'ha quasi sradicata, dalle fessure alla base entravano rivoli di pioggia. «Se ci avessero ascoltato, avrebbero messo subito i prefabbricati, e poi avrebbero requisito le case sfitte. E adesso saremmo tutti qui, non sparsi chissà dove, negli alberghi e al mare. E io non sarei solo come un cane, come mi sento in questo momento».

Si guarda intorno, e vede un gran movimento che riguarda tutti tranne lui. Camion che portano via le toilette chimiche, addetti della Protezione civile che ripiegano fasciatoi per bimbi e mettono in uno scatolone i giocattoli d'uso comune. Stretta tra i binari della ferrovia e la strada provinciale, la tendopoli di Bazzano era arrivata a ospitare 320 persone. Oggi ne restano 26, compresi Tarquini e sua moglie, invalida, influenzata e stesa sotto una pila di coperte. Nella tenda accanto, il muratore macedone Bejtulahai Vahit accarezza i capelli della sua Leila. La chiama «citola», piccolina, in perfetto dialetto abruzzese. «Impossibile restare qui. Mia figlia non ha più compagni per giocare, è rimasta sola. E la scorsa notte, quando è uscita per fare la pipì, a momenti restava sotto a un albero caduto dalla strada». Indica il cantiere in fondo alla via, una delle 19 aree del progetto Case varato dal governo. Sulla strada che dal Gran Sasso porta a L'Aquila ce ne sono sette, alcune quasi ultimate. «Stanno lavorando», dice Bejtulahai. «Ma a sentire gli annunci di questi giorni sembra che ormai la ricostruzione sia terminata. Non è così, e la gente nelle tende lo capisce bene». La reception del campo di Paganica, il più grande con le sue 52 tende, sembra quella di un hotel svizzero. Controlli e badge elettronici, un addetto per ogni evenienza. Si fa avanti Franco Angeletti, tenda numero 28, due figli e moglie a carico. «Posso avere un radiatore e una stufetta in più?» Nella stanza si diffonde un certo imbarazzo. «Gliela cerchiamo, ma deve aspettare». Angeletti sembra un cane bastonato. «Scusi se insisto. Ma io ho freddo ora».

1 commento:

  1. chde alternative hanno i seimila irriducibili? Che cosa viene loro offerto al posto della ospitalità in tenda?

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