di Gabriele Pazzaglia
Napolitano ha firmato la legge-scudo fiscale. Ma perché lo ha fatto? E soprattutto, avrebbe dovuto fare diversamente?
Per quanto riguarda la prima domanda i motivi della firma li ha spiegati lui stesso. Non mi riferisco alla “sfuriata” avuta con un privato cittadino in Basilicata il quale, alla sua richiesta di non firmare, si è sentito rispondere che, se non avesse firmato, il parlamento avrebbe riapprovato lo stesso testo ed allora sarebbe obbligato. Credo che il Capo dello Stato abbia detto ciò in un momento di normale agitazione dovuta alla discussione, perché, anche se il ragionamento è in astratto vero, se il Presidente pensa che siano state violate norme costituzionali deve rimandarle al parlamento, il quale si prenderà la responsabilità politica di riapprovare un testo identico a quello valutato incostituzionale dal PdR. Evidentemente, Napolitano non ha pensato ad alcuna violanzione, così come il suo staff di costituzionalisti.
Le motivazioni sono quelle espresse nella lettera di "accompagnamento" alla promulgazione nella quale viene citata un'ordinanza della Corte Costituzionale (n.109/2009), la quale a sua volta cita le altre sentenze sulle quali si è formata la giurisprudenza. Questa, e qui sono necessari alcuni tecnicismi, è stata emessa su ricorso del Tribunale di Spoleto presso il quale era in corso un processo per reati tributari per i quali, però, la legge 289/2002 (cioè la Finanziaria 2003) escludeva la punibilità nei confronti di chi, avendo un contenzioso fiscale in sospeso con la Guardia di Finanza, accettava la sua chiusura pagando un decimo dell'importo. Insomma bastava pagare subito e si evitava non solo l'indagine fiscale approfondita, ma anche il processo penale. Il Tribunale sosteneva che, essendo questo un provvedimento di clemenza (qualificabile, a prescindere dal nome, come un'amnistia) ricadeva comunque nella procedura dettata dall'art.79 della Costituzione (che prevede una maggioranza di due terzi dei voti dei parlamentari).
La Corte Costituzionale obiettava che, mentre l'amnistia è un provvedimento generalizzato, il condono necessita di un atto di volontà del soggetto il quale deve fare domanda di accedere al pagamento ridotto. Inoltre, dice sempre la Corte, che «il codice penale prevede i casi di oblazione» (il pagamento di una somma in sostituzione del carcere ammesso per una serie di reati minori), «casi nei quali (anche temporaneamente) un fatto cessa di essere previsto come reato e, inoltre, la «previsione di estinzione di reati collegata ad adempimenti agli autori degli stessi» (es. non reiterare il fatto per tot anni dopo la sospensione condizionale della pena). Dice, quindi, che essendo il condono un atto diverso dall'amnistia, il fatto che sia approvato con la maggioranza semplice e non con quella dei due terzi (prevista dall'amnistia) non rende la legge incostituzionale.
Con tutto il rispetto che si deve alla Corte Costituzionale, per l'importante ruolo di garanzia, visto che le sentenze sono un prodotto umano e quindi passibili di fallacia, io mi permetto di dire che la penso diversamente: infatti la Corte soffermandosi sulle differenze non dà sufficiente importanza alle caratteristiche che il condono ha in comune con l'amnistia: entrambi, infatti, determinano la rinuncia dell'azione punitiva dello stato rispetto a fatti precedenti alla legge. Entrambi i provvedimenti non sono altro che la conclusione di un periodo nel quale lo Stato dice ai cittadini: “chi tiene questo comportamento sarà punito”, poi si arriva alla punizione e si dice: “abbiamo scherzato”. Inoltre, premesso che questi tipi di provvedimenti non dovrebbero esistere, visto che la Costituzione li prevede (come ho detto nel precedente articolo), data la palese ingiustizia che entrambi vanno a provocare devono, come minimo, essere entrambi approvati con una larga maggioranza, presupposto unico affinché vi sia un, seppur ipotizzato, consenso sociale.
Legittimare l'adozione del condono citando le altre leggi che prevedono una rinuncia da parte dello Stato all'attività punitiva (pagamento di denaro in sostituzione della galera, sospensione dei reati che per un periodo non sono tali e la previsione di adempimenti che li estinguano), non tiene conto di una differenza tra il condono e le altre leggi che invece dovrebbe rilevare. Gli altri casi regolano fatti successivi alla legge e quindi i cittadini sanno quali sono le loro facoltà e non ci sono furbi che si avvantaggiano di un'inaspettata rinuncia alla pretesa punitiva dello Stato, proprio perché quella rinuncia non era inaspettata ma conosciuta. Meglio: visto che sono leggi penali più favorevoli agiscono anche in modo retroattivo e ne guadagnano anche quelli che il reato l'hanno commesso prima della legge, ma una cosa è dire che si smette di punire (per sempre) un comportamento perché non è giusto reprimerlo (e allora è ovvio che si fermino le punizioni già iniziate), un'altra è dire che tot persone che nel passato hanno fatto le furbe la faranno franca e da domani si ricomincerà a punire come si sarebbe dovuto fare in passato.
Oltre al ragionamento sul procedimento parlamentare da usare, la Corte spiega la costituzionalità del cd. condono finanziario individuando una differenza con condono edilizio. Questo, infatti, necessita del bilanciamento di interessi tutti costituzionalizzati (il governo del territorio con la tutela paesaggio, ambiente etc), il condono fiscale, invece, non necessita di alcun bilanciamento perché «è essenzialmente diretto a soddisfare l'interesse costituzionale all'acquisizione delle disponibilità ... ridurre il contenzioso (anche potenziale) con i contribuenti e conseguire un immediato introito finanziario»: nonostante anche qui si possano esprimere dubbi (per la valutazione riduttiva che la Corte fa, nella citata sentenza 172/1986, dell'art.53 della Costituzione che impone una contribuzione tributaria proporzionale alla capacità di ogni cittadino), se la Corte ha una giurisprudenza che, per il numero di sentenze citate pare piuttosto consolidata, questa non può essere ignorata dal Presidente della Repubblica nella sua attività di vaglio della costituzionalità delle leggi. Ed anzi, alla luce di ciò possiamo rispondere alla seconda domanda: doveva Napolitano firmare? Sì, doveva. Perché, anche se si può non concordare con la giurisprudenza della Corte Costituzionale, se quest'ultima dà un'interpretazione così precisa e divergente rispetto ad ogni sospetto di incostituzionalità, per quanto questa legge ci faccia specie, il fatto che il Presidente della Repubblica esegua un controllo non politico (non arbitrario) ma “costituzionale” (prendendola come parametro di giudizio) per quanto possa sembrare strano, è una garanzia per tutti noi, perché sottrae al ricatto e alla pressione delle opposte fazioni la promulgazione o meno di tutte le leggi. Ricordiamocelo la prossima volta che verrà promulgato un provvedimento che “a noi” piace.
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