sabato 17 ottobre 2009

La crisi è alle nostre spalle. O qualcuno volta le spalle alla crisi?

di Maurizio Franzini

Se in pochi - ma più di quanti si dica - hanno previsto la crisi, sono in tanti – forse troppi – a prevedere che la ripresa è alle porte. Leggiamo, su molti giornali, che la crisi è oramai alle spalle e che i segnali di una prossima fase di espansione si fanno sempre più chiari. Spesso queste notizie prendono spunto da documenti redatti da prestigiose organizzazioni internazionali. Forse sarebbe meglio dire: da qualche affermazione presente in tali documenti. E’ questo, ad esempio, il caso del recente World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale che si apre richiamando alcuni recenti segnali positivi a livello mondiale – riguardanti, ad esempio, l’andamento delle borse e la liquidità delle banche - e su questa base fa affermazioni orientate all’ottimismo. Naturalmente la considerazione di altri dati potrebbe mettere in dubbio questi ottimistici orientamenti; in particolare, quelli sulla disoccupazione che segnalano, a livello di paesi OCSE, un forte peggioramento nel corso dell’anno conclusosi a agosto scorso e illustrano tendenze spesso non incoraggianti nei mesi più vicini. Ma più che a questi dati, per meglio apprezzare le basi dell’ottimismo, è utile fare riferimento al senso generale del documento stesso. Una lettura più attenta del World Economic Outlook chiarisce che, se alcuni problemi sono alle nostre spalle (in particolare il timore di un collasso del sistema finanziario e creditizio), molti sono ancora – drammaticamente irrisolti – davanti a noi. Dunque, si può affermare che la crisi è alle nostre spalle solo se la si intende in un senso molto restrittivo.
Un altro esempio è un documento dell’OCSE che rende noto il valore assunto da un indice composito diretto a cogliere, sotto diversi profili, l’andamento dell’economia. Questo indice segnala un miglioramento rispetto ai mesi scorsi e colloca la Francia e l’Italia nelle posizioni migliori. La notizia ha avuto ampio risalto su larga parte dei nostri giornali, che hanno sostanzialmente equiparato il miglioramento dell’indice all’annuncio di un’imminente ripresa. In realtà basta leggere qualche riga del documento dell’OCSE per comprendere che l’indice – quando funziona – segnala soltanto l’avvicinarsi della fine della fase di caduta, ma nulla è in grado di dire su quello che accadrà dopo, se l’economia decollerà, se si fermerà per un po’ per poi precipitare di nuovo verso il basso o chissà cos’altro.
Qualche volta i giudizi improntati all’ottimismo sembrano scaturire dal sollievo per avere evitato una crisi rapida e violenta come quello degli anni ’30. Questo pericolo, che era stato evocato con eccessiva facilità, è stato scongiurato, in larghissima misura, grazie al poderoso intervento pubblico, le cui potenzialità nel fronteggiare crisi anche virulente sono note oggi come non erano ottanta anni fa.
La politica fiscale e quella monetaria, al di là delle polemiche spesso strumentali innescate da alcuni “acerrimi amici” del mercato, sono state utilizzate – nella gran parte dei paesi – come doveva essere fatto, per scongiurare un disastro come quello degli anni ’30. E hanno, nel complesso, ottenuto, il loro scopo. Ma proprio da qui occorre partire per esprimersi con più precisione sulla questione se la crisi sia davvero alle nostre spalle.
Leggendo il World Economic Outlook, è facile cogliere il punto essenziale, peraltro ben illustrato anche da un buon numero di attenti commentatori. L’intervento fiscale e monetario ha frenato la crisi, ma questa è cosa ben diversa dall’affermare che se questo intervento, soprattutto quello fiscale, venisse ridimensionato le cose tornerebbero alla normalità e i pericoli che abbiamo corso non si ripresenterebbero, forse in forma più acuta. Insomma, in gran parte dei paesi avanzati, se l’intervento pubblico venisse ricondotto alla “normalità” precedente la crisi, i sistemi economici sarebbero incapaci di sostenere elevati livelli di attività economica. Dunque, si potrebbe dire che la cura ha frenato il decorso della malattia senza, però, ricostituire la normale fisiologia del malato. Ma questo non risolve il problema, perché si tratta di definire la “normalità” e di individuare il sentiero che consente di raggiungerla.
E’ evidente che per molti la “normalità” consiste – eventualmente con marginali aggiustamenti - in quelle stesse regole del gioco che erano in vigore prima di questo “incidente di percorso”. Ed è probabilmente questa la ragione per la quale non si hanno tracce di un’ansia riformatrice adeguata alla serietà delle questioni.
Nell’idea di “normalità” non rientrano, naturalmente, deficit e debiti pubblici dell’entità attuale. Come è ovvio, per effetto del rallentamento dell’economia e dell’espansione della spesa pubblica, l’eccesso di uscite sulle entrate pubbliche, in rapporto al Pil, è cresciuto a dismisura, trascinando con sé anche il debito. Non occorre essere appassionati difensori della tesi che il bilancio pubblico debba essere in pareggio, per ritenere “non normale” la situazione attuale. Ma, naturalmente, questa è cosa diversa dal convincimento che siano immodificabili le regole o le concezioni dominanti prima della crisi. Si spera che questo non sia il convincimento della Commissione Europea e che le procedure di infrazione da essa aperte nei confronti di numerosi paesi, per eccesso di deficit, non abbiano lo scopo di riaffermare rigidamente le regole del Patto di Crescita e Stabilità. Si spera questo perché ripristinare quella “normalità” equivarrebbe a privare il malato di quelle cure essenziali da cui ancora dipende in modo decisivo.
Nel citato documento del FMI, la consapevolezza di questo problema è vivissima e la prosa non nasconde questo decisivo dilemma: che fare se la “normalità” impone di ridimensionare la cura ma il malato non si regge ancora sulle sue gambe?
I suggerimenti, ancorché molto ragionevoli, appaiono privi di forza e oscillano tra la raccomandazione di verificare che la cura (anormale) non crei altre patologie (perché il sistema non sopporterebbe deficit pubblici prolungati), e il timore che, senza cure, la malattia peggiori. Al di sopra di tutto aleggia la speranza che il malato si riprenda da solo, magari rinvigorito dallo scampato pericolo (non è il ’29!). Insomma un bel pasticcio, aggravato dal fatto che se si riducono le dosi di cura fiscale non si può fare ricorso in modo compensativo alla cura monetaria, perché anche questa è stata somministrata in dosi eccezionali.
La costruzione di una nuova “normalità” con un meno esteso intervento pubblico dipende da molte condizioni. Una delle più importanti, a livello internazionale, richiede che i paesi in precedenza orientati alle esportazioni e molto risparmiatori (come la Cina) consumino di più e quelli con caratteristiche opposte (come gli Usa) consumino meno. Il primo effetto dovrebbe eccedere il secondo in modo da ampliare la domanda globale mondiale, senza necessità di altre compensazioni, come potrebbero essere quelle derivanti da un peso stabilmente maggiore degli investimenti produttivi. Assicurare questo cambiamento non è per nulla agevole e richiede, a sua volta, la soddisfazione di un complesso insieme di condizioni.
Tra queste, assume importanza anche la distribuzione del reddito all’interno dei vari paesi per gli effetti positivi che una riduzione delle disuguaglianze, generalmente molto elevate ovunque, potrebbe avere sulla domanda di consumo e su altri comportamenti favorevoli allo stabilirsi di una nuova “normalità”. Per raggiungere questo obiettivo non occorre basarsi soltanto o prevalentemente sul sistema fiscale e sulla spesa sociale. Possono essere, ad esempio, molto utili interventi incisivi sul mercato del lavoro che rovescino la tendenza alla stagnazione dei salari manifestatasi per lunghi anni in molti paesi, tra i quali il nostro.
Anche altri interventi sui sistemi di Welfare potrebbero aiutare. Ad esempio, la realizzazione in Cina di un buon sistema previdenziale pubblico potrebbe avere l’effetto di ridurre i risparmi precauzionali effettuati allo scopo di limitare i rischi di povertà in vecchiaia e, quindi, di contribuire all’espansione dei consumi. Naturalmente, la complessiva desiderabilità di questi cambiamenti dipende anche da altre considerazioni, come quelle relative all’impatto dei maggiori consumi sulla sostenibilità ambientale. Ma questo è un problema troppo complesso per essere affrontato qui.
Dunque, la costruzione di una nuova “normalità” che non abbia i difetti della vecchia e che consenta di limitare le dosi della cura fiscale e monetaria (che rischia di procurare essa stessa ulteriori danni) richiede interventi ben più incisivi e, sotto molti aspetti, più radicali rispetto a quelli finora realizzati e a quelli di cui si discute nel mondo occidentale, senza dire del nostro paese. Tali interventi dovrebbero porsi prioritariamente l’obiettivo di fare in modo che il mercato produca “spontaneamente” (e non solo per effetto di un’azione redistributiva del Welfare difficile da realizzare su ampia scala) una minore disuguaglianza e, anche per questo, conduca a una maggiore capacità di assorbimento della produzione.
Quando si afferma che la crisi è alle spalle e non si tiene conto di questi problemi viene di pensare che nulla è cambiato tranne la direzione in cui molti voltano le proprie spalle.

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