di Beppe Lopez
Con la mobilitazione del 3 ottobre, finalmente, si passa dalle polemiche di carta a una mobilitazione di uomini e donne in carne ed ossa. La grande manifestazione romana, promossa da Fnsi e Articolo 21, costituisce una tempestiva e utile occasione di aggregazione e di lotta per sollecitare una ”opinione pubblica” frastornata a prendere coscienza del punto-limite al quale sono giunti la democrazia e i diritti sociali nel nostro Paese.
Si faranno dei passi concreti su questa strada, però, se insieme ad una forte e convinta partecipazione a questo movimento matureranno la capacità di distinguere le diverse componenti e le ragioni strutturali dell’inadeguato funzionamento del sistema democratico nel nostro Paese e delle contraddizioni e manchevolezze di fondo del ruolo che vi svolge il sistema informativo (concentrazione proprietaria, omologazione informativa, subalternità al potere prima politico e oggi economico-affaristico, assimilazione al Palazzo, autoreferenzialità, ecc.). Queste ragioni strutturali, colte e sfruttate sino alle estreme conseguenze da Berlusconi - così come è avvenuto in politica, nella strutturazione partitica, per la logica maggioritaria, ecc. - sono le stesse che il ”berlusconismo” accentua e impedisce di aggredire o anche solo di rilevare in tutta la loro gravità e persistenza.
Si potrebbe cominciare col chiarire che la stessa espressione ”libertà di stampa” (e quella connessa di ”attentati alla libertà di stampa”) comprende due cose, intrecciate ma diverse: la libertà di opinione e la libertà di informazione. E cioè: da un canto il diritto di ”manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, sancito dall’art.21 della Costituzione, e dall’altro il diritto ad essere informati, letteralmente non previsto dalla cultura liberal-ottocentesca che ispirò quello specifico disposto costituzionale, in un Paese che non aveva mai avuto un sistema informativo moderno, ma prepotentemente impostosi come diritto di base del cittadino nella seconda metà del XX secolo.
In realtà, in Italia abbiamo una solida tradizione di eccesso di ”giornalismo indipendente” innervato di opinionismo e di editorialismo. Da noi i fatti non sono mai stati separati dalle opinioni. Mentre altrove nasceva e si sviluppava il mercato dell’informazione - con una solida rete di giornali locali di informazione, una diffusa abitudine popolare alla lettura e giornalisti che tentano di recuperare una dimensione etica al proprio lavoro rappresentandosi come ”controllori del potere” - i nostri sono sempre stati giornali ”politicizzati”, nazionali, di parte, di Palazzo. Pieni di editoriali e commenti, con le notizie in funzione gregaria e le ”informazioni di servizio” marginalizzate. Giornali naturalmente poco venduti perché estranei agli interessi della gente e per niente utili (abbiamo notoriamente indici di lettura fra i più bassi al mondo, prima ancora di essere agli ultimi posti nelle graduatorie della ”libertà di informazione”). E la situazione è andata peggiorando. Con ”controllori del potere” pagati dal potere.
E’ in questo scenario che hanno fatto irruzione Berlusconi, il berlusconismo, le sue tv, il suo impero editoriale, il suo dominio nel mercato della raccolta pubblicitaria e il suo Partito Mediale di Massa al potere. Una conglomerata animata da spregiudicatezza, avventurismo e cultura anti-sociale, e in alterno rapporto di complicità e competizione con i ”poteri forti”.
Qui ed ora, l’emergenza democratica è indubbiamente quella di contrastare, isolare e battere questo tentativo di involuzione stabilmente anti-democratica. Sapendo che i problemi strutturali (che questo tentativo hanno peraltro consentito e nutrito) sono altrove. E’ emblematica, appunto, lo stato dell’informazione giornalistica e televisiva: concentrata in poche mani, omologata, centralizzata. Da questo punto di vista, Berlusconi sarebbe solo uno dei finanzieri e affaristi che si sono impadroniti del sistema mediatico, se non fosse disceso in politica, aggiungendo alla proprietà del più potente gruppo editoriale, televisivo e pubblicitario italiano la padronanza del più grande partito, della maggioranza parlamentare e del governo.
Il brodo di coltura (prima ancora che di cultura) del Partito Mediale di Massa è costituito esattamente dalle degenerazioni del sistema democratico e informativo che ne hanno consentito l’insorgere e ne consentono oggi l’arroganza e la sopravvivenza. Nella misura in cui anche i quadri dirigenti dei partiti della sinistra e/o ex-sinistra, gli intellettuali cosiddetti di sinistra (a cominciare dai giornalisti) e i sindacati (primo fra tutti quello dei giornalisti) hanno dato l’impressione di farsi assimilare (o si sono fatti in una qualche misura assimilare) alla casta del potere, permettendo al più spregiudicato della casta di emergere e spadroneggiare.
Ora è necessaria una capacità di mobilitazione non episodica e una capacità di analisi più articolata e lucida che nel passato. Un cambiamento culturale a 360 gradi che porti tutti i ”democratici” a prendere coscienza della profonda separatezza che divide la classe politica dagli elettori, i giornali dai lettori, la Tv (anche il servizio pubblico) dai telespettatori. E a farsi carico, con quotidiana coerenza, del proprio ruolo sociale in un Paese dove deve essere assicurata la libertà di opinione. Ma dove, soprattutto, deve essere riconosciuto concretamente ai cittadini il diritto ad essere informati da giornalisti competenti e con la schiena dritta, e non ”disinformati” da opinionisti più o meno illuminati, più o meno asserviti al Partito Mediale di Massa, più o meno condizionati dagli interessi del proprio editore, sia esso finanziere o banchiere o palazzinaro o costruttore di automobili.
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