lunedì 29 giugno 2009
Recensioni: A casa nostra - Danilo Guerretta e Monica Zornetta
"Parlare di mafia in Veneto? Ma se qui la mafia non c'è". Quante volte si è detto e ripetuto: e in Veneto si lavora sodo. Eppure qui sono stati mandati al confino personaggi che hanno contribuito a scrivere alcune delle pagine più importanti della mafia. Qui sono arrivati "Totuccio" Contorno, Salvatore Badalamenti, nipote di quel "Tano" che fece ammazzare Peppino Impastato. Qui Giuseppe Madonia ha potuto condurre i propri business, con la complicità di alcuni imprenditori locali. Ma il Veneto non ha solo importato mafia: l'ha pure creata. In nessun'altra regione italiana, al di fuori di quelle meridionali, è nata un'organizzazione con le caratteristiche del 416 bis. Il Veneto l'ha avuta e l'ha chiamata Mala del Brenta
La sicurezza sui luoghi di lavoro battuta dalla campagna elettorale
di Antonio Boccuzzi
La settimana che ci siamo lasciati alle spalle,ha segnato un passaggio importante nella nostra battaglia contro gli incidenti sul lavoro. Diversi sono stati gli appuntamenti che nel bene e nel male hanno contraddistinto questi ultimi giorni . Mercoledì si è chiuso con il voto in commissione alla camera e al senato l'iter del decreto di modifiche al Testo Unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Un provvedimento con luci e ombre... scarse le prime , notevoli e pericolose le seconde.
Abbiamo visto prevalere, nonostante il nostro voto contrario, insieme a quello di Italia dei Valori, un voto favorevole nei confronti di un parere che ha recepito molte delle nostre critiche, ma non ancora sufficientemente calibrato verso un testo che avrebbe dovuto migliorare l'originale.
Tengo a precisare, che il nostro non è stato un voto politico, così come asserito da qualche esponente della maggioranza, ma l'espressione di una posizione che abbiamo sintetizzato entrando più volte nel merito delle numerose criticità che il provvedimento contiene.
Abbiamo apprezzato l'attenzione dei relatori nel redigere il loro parere ,che contiene numerosi elementi positivi,molti dei quali condivisi anche in quello presentato dal Partito Democratico.
Tuttavia, esistono ancora, e non hanno trovato una traduzione esaustiva molte, troppe zone d'ombra all'interno del provvedimento.
Ci si attendeva una formulazione chiara circa le indicazioni da fornire al Governo in ordine alle modifiche soprattutto legate all'art. 10 bis, che ha indotto addirittura il Presidente della Repubblica ad esprimere perplessità, e ad invitare il Ministro Sacconi ad una riscrittura dello stesso.
Non condividiamo il giudizio complessivo sulla rivisitazione delle sanzioni penali; così come lascia perplessi,nonostante da più parti sia stata evidenziata la necessità di mantenere i requisiti per ottenere la qualificazione per la partecipazione a gare e appalti come elementi "vincolanti",anzichè come "elemento preferenziale",la totale assenza di riferimenti in proposito.
Nessun accenno poi neanche all'art. 16, relativo ai 90 giorni di tempo per le imprese di nuova costituzione,per redigere il documento di valutazione rischi,che diviene una cosa quasi "personale" in luogo dell'attuale procedura standardizzata.
La formulazione dell'articolo 10 bis ,costituisce sicuramente un passo avanti,laddove il relatore richiama direttamente sia l'art. 40 del codice penale,che il Governo sembrava voler aggirare ,sia l'esplicito riferimento alla direttiva europea. Ma, nonostante si chieda una riconsiderazione della norma nel suo complesso, il relatore avrebbe a nostro avviso dovuto richiamare l'esplicito riferimento alla soppressione della lettera “d”, dato lo scalpore che ha suscitato nell'opinione pubblica,con le reazioni dei mezzi d'informazione,dei sindacati e dei lavoratori,al punto tale che proprio su questo articolo,come già detto,si è espresso anche il Presidente della Repubblica.
Per tutti questi motivi, e molti altri che si possono evincere nel nostro parere ,seppur abbiamo dimostrato apprezzamento per lo "sforzo" fatto dal relatore,non abbiamo ritenuto esaustivo il parere presentato dalla maggioranza,per cui abbiamo espresso un voto contrario.
Ma come detto all'inizio, questa settimana è stata segnata da altri appuntamenti importanti, come l'incontro di sabato, organizzato dalla rete per la sicurezza nei luoghi di lavoro, a cui hanno partecipato alcuni miei cari amici, esponenti del comitato legami d'acciaio, e del comitato Giuseppe Coletti.
Il ritrovo di Roma, ha gettato le basi perchè si proceda verso una grande manifestazione, un momento per dare uno scossone, per risvegliare le coscienze assopite e distratte da altri problemi che affliggono il nostro Paese.
Sono state sintetizzate anche alcune proposte, una su tutte, che merita la massima attenzione, legata alla incredibile realtà che vivono gli Rls che in seguito all'esercizio del loro ruolo hanno perso il posto di lavoro, con tutte le difficoltà annesse. Così, come per i noti, quanto assurdi casi di Dante De Angelis e Salvatore Palumbo, si dovrebbe pensare di costituire un fondo che garantisca sostegno per coloro che hanno tentato di portare avanti la loro missione e la loro battaglia per affrontare e sconfiggere il drago dell'insicurezza sul lavoro.
Possiamo ancora considerare civile ,un Paese che permette il sopruso degli ideali e la negazione degli stessi?Solo l'abdicazione dell'intelletto potrebbe accettare e permettere una situazione tanto triste e amara.
Altra tappa fondamentale in questa settimana,è filata via,"rubando" un pò di spazio ad alcuni quotidiani,nella mattinata di mercoledì, quando il presidente Commissario Marco Fabio Sartori ha presentato alla Camera il rapporto annuale dell'Inail.
E, a questo punto,vorrei approfittare dello spazio concessomi per scusarmi con la maggioranza, per aver mosso loro delle critiche ,"solo" perchè non hanno presenziato alle audizioni in commissione; numerosi e soprattutto interessanti incontri con diversi esponenti del mondo sindacale, imprenditoriale, delle università, con associazioni che da decenni si battono per contribuire a lenire le sofferenze di chi rimane gravemente infortunato sul lavoro, come l'ANMIL, altre associazioni che si occupano di ambiente e lavoro,ed un incontro con il dottor Guariniello, intervento il suo apprezzato anche dagli onorevoli Cazzola e Mussolini, tra i pochi deputati della maggioranza presenti, che hanno colto spunti inseriti poi nel parere.
Ma come stavo dicendo... cosa può fare uno sciocco che si illude che il dramma dell'insicurezza nei luoghi di lavoro possa interessare alla maggioranza? se non chiedere scusa per aver nutrito illusioni velleitarie, per aver vanamente creduto che questa tragedia potesse essere condivisa e si potese insieme dare un contributo virtuoso alla soluzione della stessa.
D'altra parte, così come sottolineato da un esponente del PDL , nel momento del voto in commissione, ho solo polemizzato per l'assenza dei loro deputati; non una parola sul merito del mio intervento, in cui ho tentato di sottolineare gli aspetti critici che permangono, nonostante lo sforzo dell'onorevole Cazzola, ma un giudizio che definirei ridicolo sulla mia presunta polemica, che ha toccato l'apice nell'epilogo finale, nel difficile tentativo di giustificare la loro assenza, il nostro, si esibiva in un esercizio di rara difficoltà e partoriva una perla di proporzioni eccezionali: "in quei giorni avevamo la campagna elettorale".
In alcuni casi amo ascoltare il silenzio degli uomini. Purtroppo questa volta il mio piacere è stato negato, deturpato da questa frase che ancora rieccheggia nelle mie orecchie.
Ma chiedo ancora scusa, e con me lo fanno i 1120 morti sul lavoro dello scorso anno, con me si scusano gli 874940 infortunati del 2008. Già,dobbiamo delle scuse per esserci illusi che la sicurezza sul lavoro potesse anteporsi alla campagna elettorale.
Sapete, nulla è più facile che illudersi, perchè l'uomo crede vero ciò che desidera.
Forse siamo davvero degli sciocchi, che con slanci di protagonismo pensiamo di occupare qualche riga di un quotidiano o i titoli che scorrono veloci, in basso nel video, di qualche tg; e tendiamo a questa mania cadendo da un'impalcatura ,rimanendo schiacciati sotto un trattore, morendo in fabbrica,o perdendo la vita mentre si sta lavorando sulla strada.
Questi ultimi, probabilmente sono davvero i peggiori, cosi' come ha sottolineato il viceministro Castelli, vantando per altro di averlo gia' affermato in piu' occasioni.
Si sa, caro viceministro, che i profeti non vengono mai ascoltati.
Questi ultimi , dicevamo, hanno la sfacciataggine di comparire ancora nei dati e nelle statistiche dell'INAIL , facendo lievitare il numero dei decessi sul lavoro.
OCCULTARLI???...
Potrebbe essere un'idea.
Cosa ne pensa signor viceministro?
Qui ci vorrebbe davvero un genio per trovare una soluzione, ed è per questo che mi appello a Lei, per trovare una risposta a questo quesito, magari che preveda una volta tanto un po' di razionalita' , e che possa far sparire davvero questi morti dalle liste dell'INAIL, senza occultarli, o "classificarli" in liste diverse, ma creando situazioni di lavoro consone ad un Paese civile, che permetta a chi esce di casa per recarsi al lavoro, per guadagnarsi il pane, di farvi ritorno; perche' esistono cose piu' importanti delle campagne elettorali: gli elettori.
La settimana che ci siamo lasciati alle spalle,ha segnato un passaggio importante nella nostra battaglia contro gli incidenti sul lavoro. Diversi sono stati gli appuntamenti che nel bene e nel male hanno contraddistinto questi ultimi giorni . Mercoledì si è chiuso con il voto in commissione alla camera e al senato l'iter del decreto di modifiche al Testo Unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Un provvedimento con luci e ombre... scarse le prime , notevoli e pericolose le seconde.
Abbiamo visto prevalere, nonostante il nostro voto contrario, insieme a quello di Italia dei Valori, un voto favorevole nei confronti di un parere che ha recepito molte delle nostre critiche, ma non ancora sufficientemente calibrato verso un testo che avrebbe dovuto migliorare l'originale.
Tengo a precisare, che il nostro non è stato un voto politico, così come asserito da qualche esponente della maggioranza, ma l'espressione di una posizione che abbiamo sintetizzato entrando più volte nel merito delle numerose criticità che il provvedimento contiene.
Abbiamo apprezzato l'attenzione dei relatori nel redigere il loro parere ,che contiene numerosi elementi positivi,molti dei quali condivisi anche in quello presentato dal Partito Democratico.
Tuttavia, esistono ancora, e non hanno trovato una traduzione esaustiva molte, troppe zone d'ombra all'interno del provvedimento.
Ci si attendeva una formulazione chiara circa le indicazioni da fornire al Governo in ordine alle modifiche soprattutto legate all'art. 10 bis, che ha indotto addirittura il Presidente della Repubblica ad esprimere perplessità, e ad invitare il Ministro Sacconi ad una riscrittura dello stesso.
Non condividiamo il giudizio complessivo sulla rivisitazione delle sanzioni penali; così come lascia perplessi,nonostante da più parti sia stata evidenziata la necessità di mantenere i requisiti per ottenere la qualificazione per la partecipazione a gare e appalti come elementi "vincolanti",anzichè come "elemento preferenziale",la totale assenza di riferimenti in proposito.
Nessun accenno poi neanche all'art. 16, relativo ai 90 giorni di tempo per le imprese di nuova costituzione,per redigere il documento di valutazione rischi,che diviene una cosa quasi "personale" in luogo dell'attuale procedura standardizzata.
La formulazione dell'articolo 10 bis ,costituisce sicuramente un passo avanti,laddove il relatore richiama direttamente sia l'art. 40 del codice penale,che il Governo sembrava voler aggirare ,sia l'esplicito riferimento alla direttiva europea. Ma, nonostante si chieda una riconsiderazione della norma nel suo complesso, il relatore avrebbe a nostro avviso dovuto richiamare l'esplicito riferimento alla soppressione della lettera “d”, dato lo scalpore che ha suscitato nell'opinione pubblica,con le reazioni dei mezzi d'informazione,dei sindacati e dei lavoratori,al punto tale che proprio su questo articolo,come già detto,si è espresso anche il Presidente della Repubblica.
Per tutti questi motivi, e molti altri che si possono evincere nel nostro parere ,seppur abbiamo dimostrato apprezzamento per lo "sforzo" fatto dal relatore,non abbiamo ritenuto esaustivo il parere presentato dalla maggioranza,per cui abbiamo espresso un voto contrario.
Ma come detto all'inizio, questa settimana è stata segnata da altri appuntamenti importanti, come l'incontro di sabato, organizzato dalla rete per la sicurezza nei luoghi di lavoro, a cui hanno partecipato alcuni miei cari amici, esponenti del comitato legami d'acciaio, e del comitato Giuseppe Coletti.
Il ritrovo di Roma, ha gettato le basi perchè si proceda verso una grande manifestazione, un momento per dare uno scossone, per risvegliare le coscienze assopite e distratte da altri problemi che affliggono il nostro Paese.
Sono state sintetizzate anche alcune proposte, una su tutte, che merita la massima attenzione, legata alla incredibile realtà che vivono gli Rls che in seguito all'esercizio del loro ruolo hanno perso il posto di lavoro, con tutte le difficoltà annesse. Così, come per i noti, quanto assurdi casi di Dante De Angelis e Salvatore Palumbo, si dovrebbe pensare di costituire un fondo che garantisca sostegno per coloro che hanno tentato di portare avanti la loro missione e la loro battaglia per affrontare e sconfiggere il drago dell'insicurezza sul lavoro.
Possiamo ancora considerare civile ,un Paese che permette il sopruso degli ideali e la negazione degli stessi?Solo l'abdicazione dell'intelletto potrebbe accettare e permettere una situazione tanto triste e amara.
Altra tappa fondamentale in questa settimana,è filata via,"rubando" un pò di spazio ad alcuni quotidiani,nella mattinata di mercoledì, quando il presidente Commissario Marco Fabio Sartori ha presentato alla Camera il rapporto annuale dell'Inail.
E, a questo punto,vorrei approfittare dello spazio concessomi per scusarmi con la maggioranza, per aver mosso loro delle critiche ,"solo" perchè non hanno presenziato alle audizioni in commissione; numerosi e soprattutto interessanti incontri con diversi esponenti del mondo sindacale, imprenditoriale, delle università, con associazioni che da decenni si battono per contribuire a lenire le sofferenze di chi rimane gravemente infortunato sul lavoro, come l'ANMIL, altre associazioni che si occupano di ambiente e lavoro,ed un incontro con il dottor Guariniello, intervento il suo apprezzato anche dagli onorevoli Cazzola e Mussolini, tra i pochi deputati della maggioranza presenti, che hanno colto spunti inseriti poi nel parere.
Ma come stavo dicendo... cosa può fare uno sciocco che si illude che il dramma dell'insicurezza nei luoghi di lavoro possa interessare alla maggioranza? se non chiedere scusa per aver nutrito illusioni velleitarie, per aver vanamente creduto che questa tragedia potesse essere condivisa e si potese insieme dare un contributo virtuoso alla soluzione della stessa.
D'altra parte, così come sottolineato da un esponente del PDL , nel momento del voto in commissione, ho solo polemizzato per l'assenza dei loro deputati; non una parola sul merito del mio intervento, in cui ho tentato di sottolineare gli aspetti critici che permangono, nonostante lo sforzo dell'onorevole Cazzola, ma un giudizio che definirei ridicolo sulla mia presunta polemica, che ha toccato l'apice nell'epilogo finale, nel difficile tentativo di giustificare la loro assenza, il nostro, si esibiva in un esercizio di rara difficoltà e partoriva una perla di proporzioni eccezionali: "in quei giorni avevamo la campagna elettorale".
In alcuni casi amo ascoltare il silenzio degli uomini. Purtroppo questa volta il mio piacere è stato negato, deturpato da questa frase che ancora rieccheggia nelle mie orecchie.
Ma chiedo ancora scusa, e con me lo fanno i 1120 morti sul lavoro dello scorso anno, con me si scusano gli 874940 infortunati del 2008. Già,dobbiamo delle scuse per esserci illusi che la sicurezza sul lavoro potesse anteporsi alla campagna elettorale.
Sapete, nulla è più facile che illudersi, perchè l'uomo crede vero ciò che desidera.
Forse siamo davvero degli sciocchi, che con slanci di protagonismo pensiamo di occupare qualche riga di un quotidiano o i titoli che scorrono veloci, in basso nel video, di qualche tg; e tendiamo a questa mania cadendo da un'impalcatura ,rimanendo schiacciati sotto un trattore, morendo in fabbrica,o perdendo la vita mentre si sta lavorando sulla strada.
Questi ultimi, probabilmente sono davvero i peggiori, cosi' come ha sottolineato il viceministro Castelli, vantando per altro di averlo gia' affermato in piu' occasioni.
Si sa, caro viceministro, che i profeti non vengono mai ascoltati.
Questi ultimi , dicevamo, hanno la sfacciataggine di comparire ancora nei dati e nelle statistiche dell'INAIL , facendo lievitare il numero dei decessi sul lavoro.
OCCULTARLI???...
Potrebbe essere un'idea.
Cosa ne pensa signor viceministro?
Qui ci vorrebbe davvero un genio per trovare una soluzione, ed è per questo che mi appello a Lei, per trovare una risposta a questo quesito, magari che preveda una volta tanto un po' di razionalita' , e che possa far sparire davvero questi morti dalle liste dell'INAIL, senza occultarli, o "classificarli" in liste diverse, ma creando situazioni di lavoro consone ad un Paese civile, che permetta a chi esce di casa per recarsi al lavoro, per guadagnarsi il pane, di farvi ritorno; perche' esistono cose piu' importanti delle campagne elettorali: gli elettori.
Questo paese è anche il nostro, l’odissea degli studenti stranieri
Postato il 29 giugno 2009 da L.Longo
Attualmente studiano in Italia circa 20.000 studenti stranieri (1,3% degli studenti totali), il dato è tra i più bassi a livello europeo. Negli anni ‘90 si è registrata una flessione della presenza degli stranieri nelle università italiane, soprattutto a danno di asiatici e americani.
Gli immigrati sono spesso alle prese con i tempi lunghissimi dei rinnovi nelle questure, soprattutto i giovani che hanno in mano un tipo particolare di documento: il permesso di soggiorno per motivi di studio.
Ogni anno sono sottoposti a un processo che dura circa dieci mesi, per ottenere un documento che ne vale dodici, e la cui validità è in gran parte già scaduta a causa dei tempi della burocrazia italiana. Questi ragazzi, in attesa del documento, non possono viaggiare fuori dai confini italiani. Le loro “finestre di libertà” durano solitamente due o tre mesi, dall’ottenimento del permesso di soggiorno e prima della scadenza dello stesso, quando si trovano ad aspettare nuovamente da capo.
C’è chi non solo aspetta da un anno il permesso di soggiorno (della durata di un anno per motivi di studio) ma è pure in attesa della cittadinanza da anni. Molti di questi ragazzi hanno frequentato tutte le scuole dell’obbligo italiane e ora studiano all’università. Qui hanno la loro vita, gli amici, c’è chi ha anche parenti e affetti; l’italiano lo conoscono come se fosse una lingua madre.
Otto mesi esatti per la prima convocazione in questura. Una carta di soggiorno che gli costerà quasi il doppio, a causa dei ritardi, per un volo diretto rispetto al biglietto aereo con uno scalo in Europa; scalo vietato agli immigrati che sono in attesa di un permesso di soggiorno e che possono provare la propria regolarità in Italia solo con il “cedolino” che attesta la richiesta di rinnovo.
Sul Sole 24 Ore troviamo la testimonianza di un italiano che, in questi anni, ha lavorato al ministero dell’Interno. L’articolo parla della sua esperienza diretta con l’immigrazione in USA e in Svizzera e sottolinea come nei due paesi i tempi per ottenere permessi di soggiorno siano di gran lunga inferiori ai nostri. Possibile che in Italia passi così tanto tempo?
COSA DICE LA NOSTRA LEGGE?
L’attuale legge in materia di immigrazione, la Bossi-Fini, come peraltro le precedenti, sembra scoraggiare il cittadino straniero a trasferirsi in Italia per frequentare le nostre università.
Se infatti la legge sancisce la parità tra studenti stranieri ed italiani quanto ad accesso all’università e diritto di studio, il regolamento di attuazione pone forti limiti a chi desidera studiare in Italia: basti pensare alla programmazione annua dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per motivi di studio, all’incertezza del rinnovo annuale di questi permessi, ai requisiti economici per l’ingresso del nostro paese, al difficile meccanismo di riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero, alle questioni legate all’ assistenza sanitaria e all’accesso degli stranieri al diritto allo studio.
Qual è l’iter burocratico che uno studente straniero deve intraprendere per venire a studiare in Italia?
Tutto comincia in patria. Lo studente si deve rivolgere all’ambasciata italiana per il rilascio del permesso di soggiorno.
Il numero di visti concessi è stabilito in base alla disponibilità di posti dei singoli atenei. La contingenza è definita dalle università ad aprile.
Il permesso di soggiorno è rilasciato a fine agosto. Il forte ritardo fa in modo che lo studente possa venire in Italia solo pochi giorni prima della prova d’italiano, prevista ai primi di settembre.
Per ottenere il visto si deve dimostrare di avere i mezzi di sussistenza necessari per mantenersi nel nostro paese: più di 350 euro per ogni mese di durata del permesso di soggiorno. Il visto dura un anno e facendo i conti arriviamo a circa 4500 euro. Essendo difficile per un giovane straniero possedere questa somma molti ragazzi si mettono d’accordo, fanno un conto unico con tutti i loro risparmi e se lo scambiano.
Il problema rimane per chi non conosce altri ragazzi che debbano trasferirsi in Italia. Se non si è in possesso della cifra richiesta si può dimostrare di avere garanzie economiche da parte di enti italiani di volontariato che nel loro statuto prevedano l’erogazione di borse di studio. Negli anni si sono creati continui ostacoli anche a questi enti. Fino a poco tempo fa inoltre la garanzia economica poteva essere offerta anche da una persona fisica, oggi non è più così.
ALLOGGI
Al momento dell’iscrizione all’università lo studente deve dichiarare di possedere un alloggio idoneo. Ovvio le case dello studente ma sembra che ci sono tanti studenti invece costretti a dormire nei parchi o nelle stazioni. Il motivo è la difficoltà per un giovane straniero di trovare camere in affitto. Molti studenti stranieri sono ritornati nel paese d’origine proprio perchè non hanno trovato un posto per dormire. C’è chi si rivolge alle agenzie per l’affitto. In un’agenzia chiedono il pagamento anticipato della stanza. I soldi vengono trattenuti fino a quando l’alloggio non si trova. C’è chi rimane mesi senza casa.
RINNOVO DEL PERMESSO DI SOGGIORNO
Quando un ragazzo straniero viene in Italia, ha il permesso di soggiorno valido solo fino a dicembre. Prima del 31 dicembre deve chiedere il rinnovo.
Non passano meno di cinque mesi prima che il nuovo visto sia rilasciato. Sapete che succede? Il permesso scadrà di nuovo a dicembre. La sua durata risulterà quindi inferiore ai dodici mesi. Oltre all’attesa ciò significa non poter ottenere la residenza per la quale si deve avere un permesso di tale durata. Non avere la residenza vuol dire per un giovane studente, ad esempio, non avere il medico di base. Per il rinnovo del permesso si deve andare in questura. Si passano ore in coda anche perché lo sportello è unico per tutti gli stranieri in Italia, senza distinzioni tra studenti, rifugiati politici etc. L’attesa è di almeno cinque mesi ma può capitare che la questura perda alcuni documenti e i tempi si allunghino.
Se non si riesce a prendere il permesso prima delle vacanze si deve rimanere in Italia e passarle lontano da casa.
RICONOSCIMENTO TITOLI DI STUDIO
Non esistono dei criteri comuni per il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero. Spetta alle università farlo, caso per caso, attraverso un percorso abbastanza lungo e tortuoso. Molti atenei hanno stabilito di non riconoscere per intero (equipollenza) il titolo accademico conseguito all’estero. Non riconoscere titoli di studio conseguiti all’estero dimostra scarsa fiducia delle nostre istituzioni nei confronti di quelle degli altri paesi. Serve una collaborazione tra paesi, la creazione di criteri per i quali la laurea e gli esami superati in un paese siano riconosciuti in qualunque altro senza che il giovane debba tornare a studiare o perda tempo a ripetere esami già superati.
DIRITTO ALLO STUDIO
L’Italia ha un programma di cooperazione per lo sviluppo cui destina circa 2 milioni di euro l’anno. Il Ministero degli Esteri attribuisce a borse di studio per il terzo mondo solo il 2% di questa somma. Queste borse di studio sono solo per le specializzazioni, non per i normali corsi di laurea.
Alla borsa di studio degli enti regionali (Adisu) si può accedere solo dopo aver rinnovato il permesso di soggiorno. Il tetto massimo concesso è di circa 3500 euro l’anno. E’ difficile mantenersi completamente in Italia con tale cifra.
RINNOVO ANNUALE
I permessi di soggiorno per motivi di studio sono rinnovati agli studenti che nel primo anno di corso abbiano superato una verifica di profitto e negli anni successivi almeno due verifiche. Il rinnovo non può essere comunque rilasciato per più di tre anni oltre la durata del corso di studio.
Il rinnovo del permesso di soggiorno annuale lascia lo studente straniero in una condizione di costante incertezza di poter continuare gli studi. Sono sempre più numerosi gli studenti stranieri presenti nelle nostre università, nonostante l’Italia rimanga uno dei paesi Ocse che ospita la minore percentuale di studenti universitari di diversa nazionalità. Sono infatti solo il 2% del totale contro il 28% degli USA , il 14% del Regno Unito e l’8% della Francia.
Qualche tempo fa si è tornato a parlare di “ fuga dei cervelli “. Medici e scienziati italiani sarebbero spesso spinti a migrare in altri paesi alla ricerca di migliori condizioni di lavoro. Anche gli studenti e ricercatori più promettenti andrebbero all’estero a specializzarsi e spesso lì rimarrebbero.
Ma se tanti e promettenti italiani vanno all’estero a perfezionare i propri studi vuol dire che i paesi che li ospitano offrono delle condizioni di accesso e di studio invitanti, cosa che sicuramente non avviene in Italia.
Allora invece di lamentare la fuga all’estero dei migliori “cervelli locali” perché non cercare di attrarre i migliori “cervelli globali” dotando le nostre università di strumenti e strutture che richiamino lo studente straniero piuttosto che cacciarlo? Perché non rinnovare la didattica e le strutture universitarie così che diventino un forte elemento di attrazione per chi si sposta dal proprio paese per motivi di studio?
Per fare questo però serve una legge sull’immigrazione che in materia d’istruzione sia più aperta allo scambio interculturale e che consideri lo studente straniero non più solo un problema da arginare ma anche una risorsa per la crescita culturale, scientifica e tecnologica del nostro paese.
*fonti: studenti.it, ilsole24ore.com
Attualmente studiano in Italia circa 20.000 studenti stranieri (1,3% degli studenti totali), il dato è tra i più bassi a livello europeo. Negli anni ‘90 si è registrata una flessione della presenza degli stranieri nelle università italiane, soprattutto a danno di asiatici e americani.
Gli immigrati sono spesso alle prese con i tempi lunghissimi dei rinnovi nelle questure, soprattutto i giovani che hanno in mano un tipo particolare di documento: il permesso di soggiorno per motivi di studio.
Ogni anno sono sottoposti a un processo che dura circa dieci mesi, per ottenere un documento che ne vale dodici, e la cui validità è in gran parte già scaduta a causa dei tempi della burocrazia italiana. Questi ragazzi, in attesa del documento, non possono viaggiare fuori dai confini italiani. Le loro “finestre di libertà” durano solitamente due o tre mesi, dall’ottenimento del permesso di soggiorno e prima della scadenza dello stesso, quando si trovano ad aspettare nuovamente da capo.
C’è chi non solo aspetta da un anno il permesso di soggiorno (della durata di un anno per motivi di studio) ma è pure in attesa della cittadinanza da anni. Molti di questi ragazzi hanno frequentato tutte le scuole dell’obbligo italiane e ora studiano all’università. Qui hanno la loro vita, gli amici, c’è chi ha anche parenti e affetti; l’italiano lo conoscono come se fosse una lingua madre.
Otto mesi esatti per la prima convocazione in questura. Una carta di soggiorno che gli costerà quasi il doppio, a causa dei ritardi, per un volo diretto rispetto al biglietto aereo con uno scalo in Europa; scalo vietato agli immigrati che sono in attesa di un permesso di soggiorno e che possono provare la propria regolarità in Italia solo con il “cedolino” che attesta la richiesta di rinnovo.
Sul Sole 24 Ore troviamo la testimonianza di un italiano che, in questi anni, ha lavorato al ministero dell’Interno. L’articolo parla della sua esperienza diretta con l’immigrazione in USA e in Svizzera e sottolinea come nei due paesi i tempi per ottenere permessi di soggiorno siano di gran lunga inferiori ai nostri. Possibile che in Italia passi così tanto tempo?
COSA DICE LA NOSTRA LEGGE?
L’attuale legge in materia di immigrazione, la Bossi-Fini, come peraltro le precedenti, sembra scoraggiare il cittadino straniero a trasferirsi in Italia per frequentare le nostre università.
Se infatti la legge sancisce la parità tra studenti stranieri ed italiani quanto ad accesso all’università e diritto di studio, il regolamento di attuazione pone forti limiti a chi desidera studiare in Italia: basti pensare alla programmazione annua dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per motivi di studio, all’incertezza del rinnovo annuale di questi permessi, ai requisiti economici per l’ingresso del nostro paese, al difficile meccanismo di riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero, alle questioni legate all’ assistenza sanitaria e all’accesso degli stranieri al diritto allo studio.
Qual è l’iter burocratico che uno studente straniero deve intraprendere per venire a studiare in Italia?
Tutto comincia in patria. Lo studente si deve rivolgere all’ambasciata italiana per il rilascio del permesso di soggiorno.
Il numero di visti concessi è stabilito in base alla disponibilità di posti dei singoli atenei. La contingenza è definita dalle università ad aprile.
Il permesso di soggiorno è rilasciato a fine agosto. Il forte ritardo fa in modo che lo studente possa venire in Italia solo pochi giorni prima della prova d’italiano, prevista ai primi di settembre.
Per ottenere il visto si deve dimostrare di avere i mezzi di sussistenza necessari per mantenersi nel nostro paese: più di 350 euro per ogni mese di durata del permesso di soggiorno. Il visto dura un anno e facendo i conti arriviamo a circa 4500 euro. Essendo difficile per un giovane straniero possedere questa somma molti ragazzi si mettono d’accordo, fanno un conto unico con tutti i loro risparmi e se lo scambiano.
Il problema rimane per chi non conosce altri ragazzi che debbano trasferirsi in Italia. Se non si è in possesso della cifra richiesta si può dimostrare di avere garanzie economiche da parte di enti italiani di volontariato che nel loro statuto prevedano l’erogazione di borse di studio. Negli anni si sono creati continui ostacoli anche a questi enti. Fino a poco tempo fa inoltre la garanzia economica poteva essere offerta anche da una persona fisica, oggi non è più così.
ALLOGGI
Al momento dell’iscrizione all’università lo studente deve dichiarare di possedere un alloggio idoneo. Ovvio le case dello studente ma sembra che ci sono tanti studenti invece costretti a dormire nei parchi o nelle stazioni. Il motivo è la difficoltà per un giovane straniero di trovare camere in affitto. Molti studenti stranieri sono ritornati nel paese d’origine proprio perchè non hanno trovato un posto per dormire. C’è chi si rivolge alle agenzie per l’affitto. In un’agenzia chiedono il pagamento anticipato della stanza. I soldi vengono trattenuti fino a quando l’alloggio non si trova. C’è chi rimane mesi senza casa.
RINNOVO DEL PERMESSO DI SOGGIORNO
Quando un ragazzo straniero viene in Italia, ha il permesso di soggiorno valido solo fino a dicembre. Prima del 31 dicembre deve chiedere il rinnovo.
Non passano meno di cinque mesi prima che il nuovo visto sia rilasciato. Sapete che succede? Il permesso scadrà di nuovo a dicembre. La sua durata risulterà quindi inferiore ai dodici mesi. Oltre all’attesa ciò significa non poter ottenere la residenza per la quale si deve avere un permesso di tale durata. Non avere la residenza vuol dire per un giovane studente, ad esempio, non avere il medico di base. Per il rinnovo del permesso si deve andare in questura. Si passano ore in coda anche perché lo sportello è unico per tutti gli stranieri in Italia, senza distinzioni tra studenti, rifugiati politici etc. L’attesa è di almeno cinque mesi ma può capitare che la questura perda alcuni documenti e i tempi si allunghino.
Se non si riesce a prendere il permesso prima delle vacanze si deve rimanere in Italia e passarle lontano da casa.
RICONOSCIMENTO TITOLI DI STUDIO
Non esistono dei criteri comuni per il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero. Spetta alle università farlo, caso per caso, attraverso un percorso abbastanza lungo e tortuoso. Molti atenei hanno stabilito di non riconoscere per intero (equipollenza) il titolo accademico conseguito all’estero. Non riconoscere titoli di studio conseguiti all’estero dimostra scarsa fiducia delle nostre istituzioni nei confronti di quelle degli altri paesi. Serve una collaborazione tra paesi, la creazione di criteri per i quali la laurea e gli esami superati in un paese siano riconosciuti in qualunque altro senza che il giovane debba tornare a studiare o perda tempo a ripetere esami già superati.
DIRITTO ALLO STUDIO
L’Italia ha un programma di cooperazione per lo sviluppo cui destina circa 2 milioni di euro l’anno. Il Ministero degli Esteri attribuisce a borse di studio per il terzo mondo solo il 2% di questa somma. Queste borse di studio sono solo per le specializzazioni, non per i normali corsi di laurea.
Alla borsa di studio degli enti regionali (Adisu) si può accedere solo dopo aver rinnovato il permesso di soggiorno. Il tetto massimo concesso è di circa 3500 euro l’anno. E’ difficile mantenersi completamente in Italia con tale cifra.
RINNOVO ANNUALE
I permessi di soggiorno per motivi di studio sono rinnovati agli studenti che nel primo anno di corso abbiano superato una verifica di profitto e negli anni successivi almeno due verifiche. Il rinnovo non può essere comunque rilasciato per più di tre anni oltre la durata del corso di studio.
Il rinnovo del permesso di soggiorno annuale lascia lo studente straniero in una condizione di costante incertezza di poter continuare gli studi. Sono sempre più numerosi gli studenti stranieri presenti nelle nostre università, nonostante l’Italia rimanga uno dei paesi Ocse che ospita la minore percentuale di studenti universitari di diversa nazionalità. Sono infatti solo il 2% del totale contro il 28% degli USA , il 14% del Regno Unito e l’8% della Francia.
Qualche tempo fa si è tornato a parlare di “ fuga dei cervelli “. Medici e scienziati italiani sarebbero spesso spinti a migrare in altri paesi alla ricerca di migliori condizioni di lavoro. Anche gli studenti e ricercatori più promettenti andrebbero all’estero a specializzarsi e spesso lì rimarrebbero.
Ma se tanti e promettenti italiani vanno all’estero a perfezionare i propri studi vuol dire che i paesi che li ospitano offrono delle condizioni di accesso e di studio invitanti, cosa che sicuramente non avviene in Italia.
Allora invece di lamentare la fuga all’estero dei migliori “cervelli locali” perché non cercare di attrarre i migliori “cervelli globali” dotando le nostre università di strumenti e strutture che richiamino lo studente straniero piuttosto che cacciarlo? Perché non rinnovare la didattica e le strutture universitarie così che diventino un forte elemento di attrazione per chi si sposta dal proprio paese per motivi di studio?
Per fare questo però serve una legge sull’immigrazione che in materia d’istruzione sia più aperta allo scambio interculturale e che consideri lo studente straniero non più solo un problema da arginare ma anche una risorsa per la crescita culturale, scientifica e tecnologica del nostro paese.
*fonti: studenti.it, ilsole24ore.com
domenica 28 giugno 2009
È un movimento democratico gandhiano
di Viviana Mazza - da corriere.it
L' intervista Il filosofo Ramin Jahanbegloo legge gli avvenimenti di questi giorni come una crisi di legittimità del sistema.
Dialettica Una dialettica tra democratici non violenti e il potere che usa la violenza L' arcolaio Gandhi adottò l' arcolaio, il movimento ha trovato in Neda la madre della resistenza
«Stiamo vivendo un momento "gandhiano" in Iran» dice Ramin Jahanbegloo, il filosofo iraniano incarcerato nel 2006 nel suo Paese con l' accusa di sostenere la «rivoluzione di velluto», oggi docente di Storia contemporanea dell' Iran a Toronto. Nel suo libro pubblicato a dicembre, Leggere Gandhi a Teheran (Marsilio), Jahanbegloo individuava nella riflessione gandhiana percorsi di nonviolenza per promuovere sviluppi liberali nel mondo islamico, a cominciare dall' Iran. Ma l' «Onda verde» ha superato le sue stesse aspettative. Mousavi, come dicono alcuni, è un Gandhi islamico? «No, non lo definirei un Gandhi islamico. Ha mostrato molto coraggio, ma per essere un Gandhi devi essere a un altro livello di psicologia umana, avere qualità profetiche. Forse Mousavi ha preso la via di Gandhi senza rendersene conto. D' altra parte Gandhi diceva che la nonviolenza è antica quanto le montagne: chiunque si trovi davanti all' ingiustizia è spesso portato alla nonviolenza. E così è diventata una strategia rilevante per il movimento iraniano». Il movimento ha superato dunque Mousavi? «Se Gandhi adottò l' arcolaio come simbolo della nonviolenza, il movimento in Iran all' inizio ha assunto Mousavi come simbolo, ma poi ha trovato in Neda la madre della resistenza nonviolenta. Queste manifestazioni senza precedenti in 30 anni sono spesso viste come uno scontro tra i sostenitori di Mousavi e Ahmadinejad, ma credo che le richieste vadano oltre le elezioni e oltre Mousavi: è in corso una crisi di legittimità del sistema. C' è una dialettica tra coloro che cercano la democrazia con metodi non violenti e il potere che usa la violenza. E' un movimento per il cambiamento, fatto soprattutto di giovani, frustrati da economia, politica e società. Gandhi diceva: devi essere il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Persone come Neda, la studentessa di filosofia caduta sotto i proiettili, mostrano che la gioventù in Iran è abbastanza matura da portare al cambiamento». Lei credeva che i giovani iraniani non fossero pronti? «Per lungo tempo, tutti hanno pensato che fossero vittima di quella che chiamo "sindrome di James Dean": che fossero ribelli senza causa, senza spessore etico, edonisti, individualisti, egoisti. Ma stanno mostrando di possedere il senso della solidarietà, della reciprocità, della nonviolenza». L' islam ha nella sua tradizione il fondamento spirituale per una disobbedienza civile non violenta? «Tutti i tipi di religione e di spiritualità hanno un potenziale non violento accanto a un potenziale violento. Non vedo contraddizione tra spiritualità e nonviolenza». E l' Iran ha una tradizione simile? «La rivoluzione del 1979 è stata essa stessa un movimento nonviolento contro la dittatura. Nella storia abbiamo avuto tanti tiranni, ma molti dei nostri eroi sono figure mistiche e religiose non violente». Obama dice che «renderà testimonianza» al coraggio degli iraniani. Per il Wall Street Journal è una dichiarazione «gandhiana»: è «la testimonianza che dà potere all' approccio nonviolento rendendo pubblica la sofferenza privata». «Credo che non sia un approccio "gandhiano", ma cauto. Da quando è al potere, ha cercato il dialogo con l' Iran, ma si trova in una situazione complicata. Se la violenza nelle strade dovesse aumentare, sarà difficile un dialogo tra Iran e Stati Unit, e anche tra Iran ed Europa. L' Iran si trova in un momento cruciale sia per la politica interna che estera. Il "genio" della nonviolenza è uscito dalla lampada ed è difficile che possa rientrarvi. Né Obama né Berlusconi né Sarkozy possono ignorarlo. Ma hanno fatto bene a non fare dichiarazioni più aggressive. Non devono dare la sensazione che il movimento sia diretto dagli stranieri». Che probabilità di successo ha la protesta? «L' unico modo è che resti nonviolenta o sarà una carneficina. Credo che possano non solo avere la solidarietà del mondo ma anche quella di parte della nomenklatura. E anche se l' attuale regime dovesse prevalere e Ahmadinejad restare, il cambiamento arriverà nei mesi e anni a venire. E' già cambiata la mentalità della gente. Il paradigma repubblicano, motore della rivoluzione del ' 79, e il principio di sovranità popolare sono stati violati dal paradigma autoritario. Non credo però che la resistenza porterà a una rivoluzione di velluto. Ciò che è accaduto in Cecoslovacchia e nell' Est europeo potrebbe non accadere in Iran. Ma ciò che conta è lo spessore morale di ogni iraniano, è sfidare l' illegittimità della violenza, è la volontà di costruire il futuro dell' Iran sull' idea di verità».
L' intervista Il filosofo Ramin Jahanbegloo legge gli avvenimenti di questi giorni come una crisi di legittimità del sistema.
Dialettica Una dialettica tra democratici non violenti e il potere che usa la violenza L' arcolaio Gandhi adottò l' arcolaio, il movimento ha trovato in Neda la madre della resistenza
«Stiamo vivendo un momento "gandhiano" in Iran» dice Ramin Jahanbegloo, il filosofo iraniano incarcerato nel 2006 nel suo Paese con l' accusa di sostenere la «rivoluzione di velluto», oggi docente di Storia contemporanea dell' Iran a Toronto. Nel suo libro pubblicato a dicembre, Leggere Gandhi a Teheran (Marsilio), Jahanbegloo individuava nella riflessione gandhiana percorsi di nonviolenza per promuovere sviluppi liberali nel mondo islamico, a cominciare dall' Iran. Ma l' «Onda verde» ha superato le sue stesse aspettative. Mousavi, come dicono alcuni, è un Gandhi islamico? «No, non lo definirei un Gandhi islamico. Ha mostrato molto coraggio, ma per essere un Gandhi devi essere a un altro livello di psicologia umana, avere qualità profetiche. Forse Mousavi ha preso la via di Gandhi senza rendersene conto. D' altra parte Gandhi diceva che la nonviolenza è antica quanto le montagne: chiunque si trovi davanti all' ingiustizia è spesso portato alla nonviolenza. E così è diventata una strategia rilevante per il movimento iraniano». Il movimento ha superato dunque Mousavi? «Se Gandhi adottò l' arcolaio come simbolo della nonviolenza, il movimento in Iran all' inizio ha assunto Mousavi come simbolo, ma poi ha trovato in Neda la madre della resistenza nonviolenta. Queste manifestazioni senza precedenti in 30 anni sono spesso viste come uno scontro tra i sostenitori di Mousavi e Ahmadinejad, ma credo che le richieste vadano oltre le elezioni e oltre Mousavi: è in corso una crisi di legittimità del sistema. C' è una dialettica tra coloro che cercano la democrazia con metodi non violenti e il potere che usa la violenza. E' un movimento per il cambiamento, fatto soprattutto di giovani, frustrati da economia, politica e società. Gandhi diceva: devi essere il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Persone come Neda, la studentessa di filosofia caduta sotto i proiettili, mostrano che la gioventù in Iran è abbastanza matura da portare al cambiamento». Lei credeva che i giovani iraniani non fossero pronti? «Per lungo tempo, tutti hanno pensato che fossero vittima di quella che chiamo "sindrome di James Dean": che fossero ribelli senza causa, senza spessore etico, edonisti, individualisti, egoisti. Ma stanno mostrando di possedere il senso della solidarietà, della reciprocità, della nonviolenza». L' islam ha nella sua tradizione il fondamento spirituale per una disobbedienza civile non violenta? «Tutti i tipi di religione e di spiritualità hanno un potenziale non violento accanto a un potenziale violento. Non vedo contraddizione tra spiritualità e nonviolenza». E l' Iran ha una tradizione simile? «La rivoluzione del 1979 è stata essa stessa un movimento nonviolento contro la dittatura. Nella storia abbiamo avuto tanti tiranni, ma molti dei nostri eroi sono figure mistiche e religiose non violente». Obama dice che «renderà testimonianza» al coraggio degli iraniani. Per il Wall Street Journal è una dichiarazione «gandhiana»: è «la testimonianza che dà potere all' approccio nonviolento rendendo pubblica la sofferenza privata». «Credo che non sia un approccio "gandhiano", ma cauto. Da quando è al potere, ha cercato il dialogo con l' Iran, ma si trova in una situazione complicata. Se la violenza nelle strade dovesse aumentare, sarà difficile un dialogo tra Iran e Stati Unit, e anche tra Iran ed Europa. L' Iran si trova in un momento cruciale sia per la politica interna che estera. Il "genio" della nonviolenza è uscito dalla lampada ed è difficile che possa rientrarvi. Né Obama né Berlusconi né Sarkozy possono ignorarlo. Ma hanno fatto bene a non fare dichiarazioni più aggressive. Non devono dare la sensazione che il movimento sia diretto dagli stranieri». Che probabilità di successo ha la protesta? «L' unico modo è che resti nonviolenta o sarà una carneficina. Credo che possano non solo avere la solidarietà del mondo ma anche quella di parte della nomenklatura. E anche se l' attuale regime dovesse prevalere e Ahmadinejad restare, il cambiamento arriverà nei mesi e anni a venire. E' già cambiata la mentalità della gente. Il paradigma repubblicano, motore della rivoluzione del ' 79, e il principio di sovranità popolare sono stati violati dal paradigma autoritario. Non credo però che la resistenza porterà a una rivoluzione di velluto. Ciò che è accaduto in Cecoslovacchia e nell' Est europeo potrebbe non accadere in Iran. Ma ciò che conta è lo spessore morale di ogni iraniano, è sfidare l' illegittimità della violenza, è la volontà di costruire il futuro dell' Iran sull' idea di verità».
Nicola Terracciano, C'è Liberalsocialismo e Liberalsocialismo
6 ottobre 2006.
Nel mondo intellettuale, artistico, politico non esiste la proprietà privata delle tradizioni storiche.
Nessuno è proprietario privato di Socrate o di Seneca, del Cristianesimo, dell’Umanesimo, dell’Illuminismo, del Romanticismo, del Risorgimento, del Liberalismo, del Socialismo, della Democrazia, dell’Impressionismo.
Questo vale anche per l’Azionismo, per il Liberalsocialismo, e noi, ad esempio, nel piccolo, non abbiamo mai preteso, né pretendiamo la proprietà privata di essi.
Ma se non vale la proprietà privata, non esiste, per dovere di verità, di rispetto ai Testimoni delle tradizioni storiche, nemmeno l’arbitrio, e quindi la critica è legittima, a volte anche dura.
Hitler ha potuto chiamare il suo movimento’ nazionalsocialista’ , ma sono stati e sono doverosi la critica feroce, la contrapposizione al suo scellerato, assurdo, demoniaco modo di aver inteso e di aver tradotto concretamente il suo nominale richiamo al ‘socialismo’.
E questo vale per tanti altri casi storici (es. il comunismo, il repubblicanesimo, la democrazia che, assunti nominalmente, sono stati nei fatti e nei comportamenti traditi, deformati, sfregiati, capovolti). Secondo la giusta espressione evangelica, l’albero si vede e si giudica dai frutti.
L’arbitrio e la deformazione nascono spesso dall’ignoranza storica, filologica, o anche dalla malafede astuta, strumentale, demoniaca.
In questi casi sono doverose, si ripete, la demistificazione, la critica, la contrapposizione.
Alcuni esempi di questi ultimi anni possono esemplificare la delicata e importante questione.
Ci si è richiamati al ‘liberalsocialismo’ da parte di forze, che si sono schierate a destra, accanto a forze di origini fasciste, clericali, secessioniste.
E’ chiaro che si tratta di posizioni radicalmente traditrici del ‘liberalsocialismo storico’, che è tradizione politica di sinistra, sempre di sinistra, di sinistra libera, laica, risorgimentale, antifascista.
Parlare di sbandamento, di tradimento è doveroso per rispetto ad elementari valori di verità, di dignità, di memoria, di non corruzione etico-politica in un paese poi come il nostro che, per mille motivi storici, a quei valori di verità, di dignità, di non corruzione non è molto sensibile.
Ci si è richiamati al ‘liberalsocialismo’ da parte di chi, invece di testimoniarlo su posizione chiare, autonome, con sacrifici estremi doverosi e possibili, lo ha fatto diventare una corrente interna al partito post-comunista dei Democratici di Sinistra (il più ferocemente antiazionista e antiliberalsocialista nella sua storia e nella storia della sinistra italiana), garantendosi una costante sopravvivenza politica in termini di elezioni parlamentari.
Pur nel rispetto di una collocazione chiaramente a sinistra e nella concessione soggettiva di una buona volontà di sopravvivenza realistica in contesti politici duramente partitocratrici, non si può negare la legittimità di una critica a posizioni che attenuano e negano sostanzialmente la forza storica del Liberalsocialismo, che non è stato e non è corrente interna di altre forze, e tanto meno di forze post-comuniste, ma autonomo e originale forza di rinnovamento e di contestazione verso le forze politiche liberali, democratiche, socialiste, comuniste prefasciste, che sono state riprese tali e quali in età repubblicana ed ancora dominano tragicamente la scena politica.
Ci si è richiamati al ‘liberalsocialismo’ da parte di chi ha mantenuto un’autonoma e letterale denominazione ‘socialista’ o ‘socialista democratica’, collocato doverosamente a sinistra ed alleato, per sostanziali ragioni di potere, di tutte, tutte (da quelle giustizialiste e cattolico-conservatrici di Di Pietro e Mastella a quella comunista di Diliberto), le forze dell’attuale centro-sinistra italiano.
Pur nel riconoscimento di una maggiore fedeltà storica nella collocazione storico-politica, che ha permesso loro di dialogare, a volte di collaborare, con la tradizione azionista liberalsocialista, occorre sottolineare, per ossequio alla verità storica, che le tradizioni ‘socialiste’ e ‘socialdemocratiche’ sono state sconfitte storicamente dal fascismo e dal nazismo ( e mai sono divenute forza maggioritaria nella storia politica italiana, come è avvenuto in tanti paesi europei ed extraeuropei), incapaci di contrapporsi ad essi, incapaci di capire le ragioni del consenso totalitario, incapaci di fare autocritica sia nel dopoguerra, sia dopo, sia oggi.
Il Liberalsocialismo non è una ingenua, elementare, astratta somma di alcuni aspetti del liberalismo e di altri aspetti del socialismo, come qualche lucido ed astuto socialista democratico, come Ugo Intini, parlamentare sopravvissuto volpinamente a tutte le recenti, anche tragiche, disavventure ‘socialiste’ e ‘socialdemocratiche’, vuole fare intendere (vedi l’intervento all’assemblea del movimento, anch’esso interno ai DS, di ‘Libertàeguale’ di Orvieto dei giorni scorsi, di preparazione alla nascita dell’equivoco Partito Democratico).
Il Liberalsocialismo è una autonoma, sofferta tradizione politica, nata tra le due guerre, sotto il martello dei totalitarismi di ogni colore (nero, bruno, rosso), ferocemente critico anche dell’esperienza’socialista’ e ‘socialdemocratica’, oltre che di quella ‘liberale’, di quella ‘democratica’, e soprattutto di ‘quella comunista’, naufragate e sconfitte storicamente, per recuperare, salvaguardare anzitutto elementari valori di umanità, di libertà, di dignità, di serietà morale, insieme alle ragioni e ai valori più vivi delle grandi tradizioni politiche ottocentesche e del più autentico Risorgimento liberaldemocratico e repubblicano, per cercare di creare, con tormento e profonda, diuturna rimeditazione critica, teorica, nuovi strumenti politici di partecipazione, di coinvolgimento, di educazione civile per le masse, che irrompevano e irrompono tumultuosamente nella vita politica, nuove istituzioni repubblicane liberaldemocratiche e liberalsocialiste, nuova moralità etico-politca, nella diuturna consapevolezza delle tragedie estreme alle quali la storia era giunta, è giunta (dai gulag alle complicità cristiano-clericali coi totalitarismi, ad Auschwitz), nel doveroso dialogo con i Testimoni che per il Liberalsocialismo, per l’Azionismo hanno dato anche la vita ( dai Fratelli Rosselli a Duccio Galimberti, a Pilo Albertelli), disposti a sacrifici personali estremi, nella coerenza, nell’integrità, nella capacità anche di affrontare la solitudine, quando sono doverosi.
Mai avverti nelle parole, nel tono, nelle azioni di quelli che occasionalmente si chiamano’liberalsocialisti’ (e che poi non hanno osato storicamente costituire formazioni che richiamino il liberalsocialismo letteralmente), consonanze profonde con il Liberalsocialismo storico.
E sul piano effettuale la storia ‘socialista’ e ‘socialdemocratica’ è stata costantemente solcata (fino a tempi recenti) dal dogmatismo marxista e anche filo-comunista, ed ancora oggi è caratterizzata dall’insensibilità tragica alla questione morale a livello locale e nazionale, lontana pertanto mille miglia dal feroce spirito critico e autocritico della tradizione azionista liberalsocialista, dalla sua devozione religiosa al bene comune, dal richiamo e dal rispetto del rapporto tra etica e politica, dal dovere di costruire e incarnare, con chiarezza e forza, lucidamente, un’altra strada autonoma, anche indipendente, per creare storia politica nuova salvifica, e non ripetere da pigri, vili, sbandati opportunisti spesso (concedendo sempre tanti casi di buona fede) pericolosa, tragica storia vecchia, con tante facce vecchie di bronzo, che continuano ad occupare la scena politica, senza un minimo di pudore politico o di umile autocritica, per lasciare spazio almeno, ritirandosi discretamente, alle nuove generazioni.
Nel mondo intellettuale, artistico, politico non esiste la proprietà privata delle tradizioni storiche.
Nessuno è proprietario privato di Socrate o di Seneca, del Cristianesimo, dell’Umanesimo, dell’Illuminismo, del Romanticismo, del Risorgimento, del Liberalismo, del Socialismo, della Democrazia, dell’Impressionismo.
Questo vale anche per l’Azionismo, per il Liberalsocialismo, e noi, ad esempio, nel piccolo, non abbiamo mai preteso, né pretendiamo la proprietà privata di essi.
Ma se non vale la proprietà privata, non esiste, per dovere di verità, di rispetto ai Testimoni delle tradizioni storiche, nemmeno l’arbitrio, e quindi la critica è legittima, a volte anche dura.
Hitler ha potuto chiamare il suo movimento’ nazionalsocialista’ , ma sono stati e sono doverosi la critica feroce, la contrapposizione al suo scellerato, assurdo, demoniaco modo di aver inteso e di aver tradotto concretamente il suo nominale richiamo al ‘socialismo’.
E questo vale per tanti altri casi storici (es. il comunismo, il repubblicanesimo, la democrazia che, assunti nominalmente, sono stati nei fatti e nei comportamenti traditi, deformati, sfregiati, capovolti). Secondo la giusta espressione evangelica, l’albero si vede e si giudica dai frutti.
L’arbitrio e la deformazione nascono spesso dall’ignoranza storica, filologica, o anche dalla malafede astuta, strumentale, demoniaca.
In questi casi sono doverose, si ripete, la demistificazione, la critica, la contrapposizione.
Alcuni esempi di questi ultimi anni possono esemplificare la delicata e importante questione.
Ci si è richiamati al ‘liberalsocialismo’ da parte di forze, che si sono schierate a destra, accanto a forze di origini fasciste, clericali, secessioniste.
E’ chiaro che si tratta di posizioni radicalmente traditrici del ‘liberalsocialismo storico’, che è tradizione politica di sinistra, sempre di sinistra, di sinistra libera, laica, risorgimentale, antifascista.
Parlare di sbandamento, di tradimento è doveroso per rispetto ad elementari valori di verità, di dignità, di memoria, di non corruzione etico-politica in un paese poi come il nostro che, per mille motivi storici, a quei valori di verità, di dignità, di non corruzione non è molto sensibile.
Ci si è richiamati al ‘liberalsocialismo’ da parte di chi, invece di testimoniarlo su posizione chiare, autonome, con sacrifici estremi doverosi e possibili, lo ha fatto diventare una corrente interna al partito post-comunista dei Democratici di Sinistra (il più ferocemente antiazionista e antiliberalsocialista nella sua storia e nella storia della sinistra italiana), garantendosi una costante sopravvivenza politica in termini di elezioni parlamentari.
Pur nel rispetto di una collocazione chiaramente a sinistra e nella concessione soggettiva di una buona volontà di sopravvivenza realistica in contesti politici duramente partitocratrici, non si può negare la legittimità di una critica a posizioni che attenuano e negano sostanzialmente la forza storica del Liberalsocialismo, che non è stato e non è corrente interna di altre forze, e tanto meno di forze post-comuniste, ma autonomo e originale forza di rinnovamento e di contestazione verso le forze politiche liberali, democratiche, socialiste, comuniste prefasciste, che sono state riprese tali e quali in età repubblicana ed ancora dominano tragicamente la scena politica.
Ci si è richiamati al ‘liberalsocialismo’ da parte di chi ha mantenuto un’autonoma e letterale denominazione ‘socialista’ o ‘socialista democratica’, collocato doverosamente a sinistra ed alleato, per sostanziali ragioni di potere, di tutte, tutte (da quelle giustizialiste e cattolico-conservatrici di Di Pietro e Mastella a quella comunista di Diliberto), le forze dell’attuale centro-sinistra italiano.
Pur nel riconoscimento di una maggiore fedeltà storica nella collocazione storico-politica, che ha permesso loro di dialogare, a volte di collaborare, con la tradizione azionista liberalsocialista, occorre sottolineare, per ossequio alla verità storica, che le tradizioni ‘socialiste’ e ‘socialdemocratiche’ sono state sconfitte storicamente dal fascismo e dal nazismo ( e mai sono divenute forza maggioritaria nella storia politica italiana, come è avvenuto in tanti paesi europei ed extraeuropei), incapaci di contrapporsi ad essi, incapaci di capire le ragioni del consenso totalitario, incapaci di fare autocritica sia nel dopoguerra, sia dopo, sia oggi.
Il Liberalsocialismo non è una ingenua, elementare, astratta somma di alcuni aspetti del liberalismo e di altri aspetti del socialismo, come qualche lucido ed astuto socialista democratico, come Ugo Intini, parlamentare sopravvissuto volpinamente a tutte le recenti, anche tragiche, disavventure ‘socialiste’ e ‘socialdemocratiche’, vuole fare intendere (vedi l’intervento all’assemblea del movimento, anch’esso interno ai DS, di ‘Libertàeguale’ di Orvieto dei giorni scorsi, di preparazione alla nascita dell’equivoco Partito Democratico).
Il Liberalsocialismo è una autonoma, sofferta tradizione politica, nata tra le due guerre, sotto il martello dei totalitarismi di ogni colore (nero, bruno, rosso), ferocemente critico anche dell’esperienza’socialista’ e ‘socialdemocratica’, oltre che di quella ‘liberale’, di quella ‘democratica’, e soprattutto di ‘quella comunista’, naufragate e sconfitte storicamente, per recuperare, salvaguardare anzitutto elementari valori di umanità, di libertà, di dignità, di serietà morale, insieme alle ragioni e ai valori più vivi delle grandi tradizioni politiche ottocentesche e del più autentico Risorgimento liberaldemocratico e repubblicano, per cercare di creare, con tormento e profonda, diuturna rimeditazione critica, teorica, nuovi strumenti politici di partecipazione, di coinvolgimento, di educazione civile per le masse, che irrompevano e irrompono tumultuosamente nella vita politica, nuove istituzioni repubblicane liberaldemocratiche e liberalsocialiste, nuova moralità etico-politca, nella diuturna consapevolezza delle tragedie estreme alle quali la storia era giunta, è giunta (dai gulag alle complicità cristiano-clericali coi totalitarismi, ad Auschwitz), nel doveroso dialogo con i Testimoni che per il Liberalsocialismo, per l’Azionismo hanno dato anche la vita ( dai Fratelli Rosselli a Duccio Galimberti, a Pilo Albertelli), disposti a sacrifici personali estremi, nella coerenza, nell’integrità, nella capacità anche di affrontare la solitudine, quando sono doverosi.
Mai avverti nelle parole, nel tono, nelle azioni di quelli che occasionalmente si chiamano’liberalsocialisti’ (e che poi non hanno osato storicamente costituire formazioni che richiamino il liberalsocialismo letteralmente), consonanze profonde con il Liberalsocialismo storico.
E sul piano effettuale la storia ‘socialista’ e ‘socialdemocratica’ è stata costantemente solcata (fino a tempi recenti) dal dogmatismo marxista e anche filo-comunista, ed ancora oggi è caratterizzata dall’insensibilità tragica alla questione morale a livello locale e nazionale, lontana pertanto mille miglia dal feroce spirito critico e autocritico della tradizione azionista liberalsocialista, dalla sua devozione religiosa al bene comune, dal richiamo e dal rispetto del rapporto tra etica e politica, dal dovere di costruire e incarnare, con chiarezza e forza, lucidamente, un’altra strada autonoma, anche indipendente, per creare storia politica nuova salvifica, e non ripetere da pigri, vili, sbandati opportunisti spesso (concedendo sempre tanti casi di buona fede) pericolosa, tragica storia vecchia, con tante facce vecchie di bronzo, che continuano ad occupare la scena politica, senza un minimo di pudore politico o di umile autocritica, per lasciare spazio almeno, ritirandosi discretamente, alle nuove generazioni.
Carlo Rosselli e il socialismo liberale
Edizione economica Einaudi Tascabili (L. 15.000) con saggi introduttivi di Norberto Bobbio e John Rosselli (figlio di Carlo e storico). Pubblicato a Parigi nel 1930, ma composto in larga parte nel corso del confino nell'isola di Lipari, rappresenta l'opera più compiuta di Rosselli, anche se non bisogna dimenticare gli scritti apparsi in seguito sulla stampa antifascista. "Socialismo liberale", lucida e stringente critica del socialismo marxista e di quello riformista del suo tempo, presenta spunti di riflessione molto validi di teoria della politica per la sinistra dei nostri giorni. Alla luce della lettura di questo lavoro risulta chiaro che il suo assassinio per mano fascista ha privato l'Italia di un leader politico originale e coraggioso.
" I MIEI CONTI COL MARXISMO "
Da:Socialismo Liberale, Einaudi, Torino, 1997, pp. 143-144.
Li vado facendo da parecchi anni sotto la scorta di molti nemici e carabinieri dottrinali, in compagnia di pochi eretici amici. Voglio renderne conto qui prima di tutti a me stesso, poi a quei miei compagni di destino che non credono terminate alle Alpi le frontiere del mondo. Sarò chiaro, semplice, sincero e, poi che i libri mi mancano, procederò per chiaroscuri senza i famosi "abiti professionali" e i non meno famosi "sussidi di note". Intanto, chi sono. Sono un socialista. Un socialista che, malgrado sia stato dichiarato motto da un pezzo, sente ancora il sangue circolar nelle arterie e affluire al cervello. Un socialista che non si liquida né con la critica dei vecchi programmi, né col ricordo della sconfitta, né col richiamo alle responsabilità del passato, né con le polemiche sulla guerra combattuta. Un socialista giovane, di una marca nuova e pericolosa, che ha studiato, sofferto, meditato e qualcosa capito della storia italiana lontana e vicina. E precisamente ha capito.
i Che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale, e in secondo luogo trasformazione materiale.
ii. Che, come tale, si attua sin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza bisogno di aspettare il sole dell'avvenire.
iii. Che tra socialismo e marxismo non v'è parentela necessaria.
iv. Che anzi, ai giorni nostri, la filosofia marxista minaccia di compromettere la marcia socialista.
v. Che socialismo senza democrazia è come volere la botte piena (uomini, non servi; coscienze, non numeri; produttori, non prodotti) e la moglie ubriaca (dittatura).
vi. Che il socialismo, in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera, oppressa, è l'erede del liberalismo.
vii. Che la libertà, presupposto della vita morale così del singolo come delle collettività, è il più efficace mezzo e l'ultimo fine del socialismo.
viii. Che la socializzazione è un mezzo, sia pure importantissimo.
ix. Che lo spauracchio della rivoluzione sociale violenta spaventa ormai solo i passerotti e gli esercenti, e mena acqua al mulino reazionario.
x. Che il socialismo non si decreta dall'alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura.
xi. Che ha bisogno di idee poche e chiare, di gente nuova, di amore ai problemi concreti.
xii. Che il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo dai piedi al capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.
xiii. Che è assurdo imporre a così gigantesco moto di masse una unica filosofia, un unico schema, una sola divisa intellettuale.
Il primo liberalismo ha da attuarsi all'interno.
Le tesi sono tredici. Il tredici porta fortuna. Chi vivrà vedrà.
Nota: "Socialismo senza democrazia significa fatalmente dittatura e dittatura significa uomini servi, numeri e non coscienze, prodotti e non produttori, e significa quindi negare i fini primi del socialismo".
"Intervista a "L'Italia del Popolo" del 30 settembre 1929"
Da:Liberalismo socialista e socialismo liberale, a cura di N. Terracciano, Galzerano, Casalvelino Scalo, 1992, pp. 53-54.
Domanda:-... Tra i socialisti giovani tu eri quello che forse più di ogni altro sostenevi la necessità di una profonda revisione delle posizioni teoriche e pratiche del moto socialista. Sei sempre dello stesso avviso?
Risposta: ... - Sono convinto più che mai della necessità della revisione, dell'urgenza di un coraggioso esame di coscienza. Durante questi ultimi tre anni di riposo obbligato ho esaminato a fondo tutti i problemi del moto socialista giungendo a conclusioni ancora più radicali, se possibile. Queste conclusioni le ho anzi sviluppate in un breve libro scritto nascostamente al confino: libro che mi propongo presto di pubblicare.
Domanda: - Non potresti riassumere le tesi principali?
Risposta: - Mi riesce difficile, anche perché le questioni affrontate sono numerose e complesse. Se ti interessa posso citarti qualcuna delle tesi che mi paiono significative. Sarò però telegrafico. Dunque io sostengo che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale e in secondo luogo trasformazione materiale. Che come tale può attuarsi fin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza bisogno di attendere il sole dell'avvenire. Che tra socialismo e marxismo non v'è parentela necessaria, e anzi, ai giorni nostri, la filosofia marxista minaccia di compromettere la marcia socialista. Che il socialismo senza democrazia è negazione dei fini primi del socialismo. Che il socialismo in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera e oppressa, è l'erede del liberalismo. Che la libertà, presupposto della vita morale così del singolo come della collettività, è il più efficace mezzo e l'ultimo fine del socialismo. Che la socializzazione è un mezzo, sia pure importantissimo. Che il socialismo non si decreta dall'alto, ma si conquista e si costruisce dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura, attraverso le innumeri, libere, autonome esperienze del moto operaio. Che il nuovo movimento socialista italiano non sarà probabilmente il frutto di appiccicature di vecchi partiti, ma organismo nuovo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.
Domanda: - ... sui rapporti tra socialismo e libertà, davvero il problema più interessante in questo momento.
Risposta: - E costituisce l'argomento essenziale del mio libro. Io sono un socialista liberale. Nella parola libertà si riassume per me tutto il finalismo socialista. Libertà come metodo e come fine. Libertà intesa e realizzata in senso integrale, in tutte le sfere dell'esistenza, e non solo in quella politica e spirituale.
" I MIEI CONTI COL MARXISMO "
Da:Socialismo Liberale, Einaudi, Torino, 1997, pp. 143-144.
Li vado facendo da parecchi anni sotto la scorta di molti nemici e carabinieri dottrinali, in compagnia di pochi eretici amici. Voglio renderne conto qui prima di tutti a me stesso, poi a quei miei compagni di destino che non credono terminate alle Alpi le frontiere del mondo. Sarò chiaro, semplice, sincero e, poi che i libri mi mancano, procederò per chiaroscuri senza i famosi "abiti professionali" e i non meno famosi "sussidi di note". Intanto, chi sono. Sono un socialista. Un socialista che, malgrado sia stato dichiarato motto da un pezzo, sente ancora il sangue circolar nelle arterie e affluire al cervello. Un socialista che non si liquida né con la critica dei vecchi programmi, né col ricordo della sconfitta, né col richiamo alle responsabilità del passato, né con le polemiche sulla guerra combattuta. Un socialista giovane, di una marca nuova e pericolosa, che ha studiato, sofferto, meditato e qualcosa capito della storia italiana lontana e vicina. E precisamente ha capito.
i Che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale, e in secondo luogo trasformazione materiale.
ii. Che, come tale, si attua sin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza bisogno di aspettare il sole dell'avvenire.
iii. Che tra socialismo e marxismo non v'è parentela necessaria.
iv. Che anzi, ai giorni nostri, la filosofia marxista minaccia di compromettere la marcia socialista.
v. Che socialismo senza democrazia è come volere la botte piena (uomini, non servi; coscienze, non numeri; produttori, non prodotti) e la moglie ubriaca (dittatura).
vi. Che il socialismo, in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera, oppressa, è l'erede del liberalismo.
vii. Che la libertà, presupposto della vita morale così del singolo come delle collettività, è il più efficace mezzo e l'ultimo fine del socialismo.
viii. Che la socializzazione è un mezzo, sia pure importantissimo.
ix. Che lo spauracchio della rivoluzione sociale violenta spaventa ormai solo i passerotti e gli esercenti, e mena acqua al mulino reazionario.
x. Che il socialismo non si decreta dall'alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura.
xi. Che ha bisogno di idee poche e chiare, di gente nuova, di amore ai problemi concreti.
xii. Che il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo dai piedi al capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.
xiii. Che è assurdo imporre a così gigantesco moto di masse una unica filosofia, un unico schema, una sola divisa intellettuale.
Il primo liberalismo ha da attuarsi all'interno.
Le tesi sono tredici. Il tredici porta fortuna. Chi vivrà vedrà.
Nota: "Socialismo senza democrazia significa fatalmente dittatura e dittatura significa uomini servi, numeri e non coscienze, prodotti e non produttori, e significa quindi negare i fini primi del socialismo".
"Intervista a "L'Italia del Popolo" del 30 settembre 1929"
Da:Liberalismo socialista e socialismo liberale, a cura di N. Terracciano, Galzerano, Casalvelino Scalo, 1992, pp. 53-54.
Domanda:-... Tra i socialisti giovani tu eri quello che forse più di ogni altro sostenevi la necessità di una profonda revisione delle posizioni teoriche e pratiche del moto socialista. Sei sempre dello stesso avviso?
Risposta: ... - Sono convinto più che mai della necessità della revisione, dell'urgenza di un coraggioso esame di coscienza. Durante questi ultimi tre anni di riposo obbligato ho esaminato a fondo tutti i problemi del moto socialista giungendo a conclusioni ancora più radicali, se possibile. Queste conclusioni le ho anzi sviluppate in un breve libro scritto nascostamente al confino: libro che mi propongo presto di pubblicare.
Domanda: - Non potresti riassumere le tesi principali?
Risposta: - Mi riesce difficile, anche perché le questioni affrontate sono numerose e complesse. Se ti interessa posso citarti qualcuna delle tesi che mi paiono significative. Sarò però telegrafico. Dunque io sostengo che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale e in secondo luogo trasformazione materiale. Che come tale può attuarsi fin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza bisogno di attendere il sole dell'avvenire. Che tra socialismo e marxismo non v'è parentela necessaria, e anzi, ai giorni nostri, la filosofia marxista minaccia di compromettere la marcia socialista. Che il socialismo senza democrazia è negazione dei fini primi del socialismo. Che il socialismo in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera e oppressa, è l'erede del liberalismo. Che la libertà, presupposto della vita morale così del singolo come della collettività, è il più efficace mezzo e l'ultimo fine del socialismo. Che la socializzazione è un mezzo, sia pure importantissimo. Che il socialismo non si decreta dall'alto, ma si conquista e si costruisce dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura, attraverso le innumeri, libere, autonome esperienze del moto operaio. Che il nuovo movimento socialista italiano non sarà probabilmente il frutto di appiccicature di vecchi partiti, ma organismo nuovo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.
Domanda: - ... sui rapporti tra socialismo e libertà, davvero il problema più interessante in questo momento.
Risposta: - E costituisce l'argomento essenziale del mio libro. Io sono un socialista liberale. Nella parola libertà si riassume per me tutto il finalismo socialista. Libertà come metodo e come fine. Libertà intesa e realizzata in senso integrale, in tutte le sfere dell'esistenza, e non solo in quella politica e spirituale.
Leo Valiani, l'antifascista testimone di questo secolo
Leo Weiczen nasce a Fiume nel 1909 quando la cittadina istriana è ancora uno dei principali porti dell'ormai morente Impero Austro-Ungarico. A soli undici anni diviene socialista (lo raccontò lui stesso) e a diciotto italianizzò il cognome da Weiczen in Valiani. In questo periodò conobbe i principali leader socialisti e maturò il suo attivismo antifascista che gli costò, nel 1928, un anno di confino a Ponza dove, entrato in contatto con gli oltre cinquecento comunisti lì rinchiusi, ne condivise le idee divenendo comunista. Nel 1931 viene di nuovo arrestato e, nel 1939 a seguito del Patto Ribbentrop-Molotov con cui Stalin e Hitler si spartivano le spoglie della Polonia, rompe con il Pci e, influenzato da Altiero Spinelli e dalla lettura degli scritti dei fratelli Rosselli, aderisce al movimento liberalsocialista Giustizia e Libertà (GL) e poi al Partito d'Azione (Pd'A) di cui diventerà uno dei massimi leader, ricoprendone anche la carica di segretario per l'Italia settentrionale nel 1944.
Nel 1936, uscito di prigione, va in Spagna a combattere, anche se era partito come giornalista e corrispondente di guerra del foglio comunista Grido del popolo diretto da Teresa Noce, moglie di Luigi Longo.
Nel 1939, sospettato di essere comunista, viene internato nel campo francese di Vernet. Rifiutò la scarcerazione che poteva facilmente ottenere se avesse pubblicamente ammesso di non essere più comunista, ma non volendo apparire un opportunista tacque rimanendo, così, prigioniero, ma meritando il rispetto, la stima ed il saluto dei suoi ex compagni. Con i comunisti italiani Leo Valiani si ritrovò fianco a fianco nella nuova avventura in cui si stava cimentando: la Resistenza di cui fu uno dei massimi dirigenti. Per conto del Partito d'Azione assunse la carica, con Emilio Sereni (sostituito poi da luigi Longo) e Sandro Pertini (indicati rispettivamente dal Partito Comunista e dal Partito Socialista), di membro del Comitato di Liberazione Alta Italia (CNLAI). Fu in questa veste che, mentre dai microfoni di Radio Milano Liberata la voce del giornalista e socialista Umberto Calosso invitava i cittadini all'insurrezione democratica ed antinazifascista, decise, con Sereni e Pertini, la condanna a morte di Benito Mussolini. Con la stessa fermezza con cui aveva sostenuto la necessità della fucilazione del Duce condannò la vergognosa e macabra esposizione dei cadaveri del Duce e dei suoi compagni di fuga avvenuta a Piazzale Loreto che lo stesso Ferruccio Parri aveva bollato come "macelleria messicana".
Nel 1946 è uno dei pochi (in tutto solo 7 e pensare che nella Resistenza erano stati secondi, per uomini e mezzi impiegati nella guerra di liberazione, solo ai ben organizzati comunisti!) eletti del Pd'A all'Assemblea Costituente. È in questa sede che continuerà la sua battaglia per una rivoluzione democratica all'insegna dei principi di una sinistra riformista di stampo europeo ed europeista, in Italia: sperava, come pure quell'altro grande galantuomo che fu Pietro Nenni (Psi), che su tutta l'Italia cominciasse a spirare quell'aria di innovazione progressista nota con il nome di vento del nord. In un paese ritenuto geneticamente e fortemente conservatore e privo di un reale senso civico pubblico, Valiani credeva che il miglior modo per la sinistra, di cui sarebbe stato sicuramente il leader naturale se si fosse andati oltre la ristrette e restrittiva formula frontista del 1948, per arriva al governo fosse quello di agire in un quadro istituzionale di tipo presidenzialista. Fu per questo che, insieme al giurista Piero Calamandrei, sostenne l'adozione di una forma di governo di tipo repubblicano presidenzialista che, però, non raccolse i voti sufficienti in seno alla Costituente che preferì adottare un modello di repubblica parlamentare: nonostante non ne condividesse l'aspetto puramente istituzionale Leo Valiani fu sempre un fermo e sincero difensore dei valori e dei principi della Costituzione repubblicane del 1948 che lui stesso aveva contribuito a redigere.
Al momento dello scioglimento del Partito d'Azione si ritira dalla politica attiva per dedicarsi alla sua attività di storico (ricca e di primo livello fu la sua produzione storiografica) e di giornalista (fu chiamato come editorialista al Corriere della Sera nel 1970 dal suo amico direttore Giovanni Spadolini e vi rimase fino alla morte) difendendo sempre i principi di libertà e di democrazia sociale in cui aveva creduto fin dalla tenera età di undici anni. Durante gli anni del terrorismo fu uno strenuo sostenitore della linea della fermezza e della difesa dello stato repubblicano (di cui non rinunciò ma a criticare i limiti ed i ritardi) contro ogni tentativo lassista di compromesso con i terroristi: contrario ad ogni trattativa lo fu anche durante i giorni del sequestro dello statista democristiano Aldo Moro, facendo propria e sostenendo dalle colonne del Corriere, la linea della fermezza, nota come linea Zaccagnini-Berlinguer-La Malfa, in chiara opposizione con ogni velleità trattatista di Bettino Craxi (Psi) e del nuovo gruppo dirigente del Partito Socialista che aveva conquistato la guida del partito di via del Corso dopo il congresso del Midas nel 1976.
Aderì, per un breve periodo al Partito Radicale, prima che questo cadesse nelle mani di Marco Pannella ed egli ex goliardi. Sostenne il centro-sinistra degli anni '60 dei Governi Fanfani e Moro, la Solidarietà nazionale negli anni '70 dei Governi Andreotti e poi l'esperienza di centrosinistra del l'Ulivo dei Governi Prodi e D'Alema sul finire degli anni '90.
Nel 1980 il suo vecchio amico Sandro Pertini lo nominò Senatore a vita e Leo Valiani, nell'accettare questa nomina che lo riportava in un'assemblea legislativa oltre tre decenni, aderì, nel periodo 1980-94, come indipendente al gruppo dei senatori del Partito Repubblicano Italiano per poi aderire, nel 1994-96, al gruppo della Sinistra democratica ideato e presieduto dal senatore Libero Gualtieri, suo vecchi amico e capogruppo dei tempi della comune militanza sui banchi dei senatori dell'edera.
Sabato 18 settembre 1999 moriva nella sua Milano dopo aver festeggiato da soli sette mesi il suo novantesimo compleanno.
Luca Molinari
27 dicembre 2001
Nel 1936, uscito di prigione, va in Spagna a combattere, anche se era partito come giornalista e corrispondente di guerra del foglio comunista Grido del popolo diretto da Teresa Noce, moglie di Luigi Longo.
Nel 1939, sospettato di essere comunista, viene internato nel campo francese di Vernet. Rifiutò la scarcerazione che poteva facilmente ottenere se avesse pubblicamente ammesso di non essere più comunista, ma non volendo apparire un opportunista tacque rimanendo, così, prigioniero, ma meritando il rispetto, la stima ed il saluto dei suoi ex compagni. Con i comunisti italiani Leo Valiani si ritrovò fianco a fianco nella nuova avventura in cui si stava cimentando: la Resistenza di cui fu uno dei massimi dirigenti. Per conto del Partito d'Azione assunse la carica, con Emilio Sereni (sostituito poi da luigi Longo) e Sandro Pertini (indicati rispettivamente dal Partito Comunista e dal Partito Socialista), di membro del Comitato di Liberazione Alta Italia (CNLAI). Fu in questa veste che, mentre dai microfoni di Radio Milano Liberata la voce del giornalista e socialista Umberto Calosso invitava i cittadini all'insurrezione democratica ed antinazifascista, decise, con Sereni e Pertini, la condanna a morte di Benito Mussolini. Con la stessa fermezza con cui aveva sostenuto la necessità della fucilazione del Duce condannò la vergognosa e macabra esposizione dei cadaveri del Duce e dei suoi compagni di fuga avvenuta a Piazzale Loreto che lo stesso Ferruccio Parri aveva bollato come "macelleria messicana".
Nel 1946 è uno dei pochi (in tutto solo 7 e pensare che nella Resistenza erano stati secondi, per uomini e mezzi impiegati nella guerra di liberazione, solo ai ben organizzati comunisti!) eletti del Pd'A all'Assemblea Costituente. È in questa sede che continuerà la sua battaglia per una rivoluzione democratica all'insegna dei principi di una sinistra riformista di stampo europeo ed europeista, in Italia: sperava, come pure quell'altro grande galantuomo che fu Pietro Nenni (Psi), che su tutta l'Italia cominciasse a spirare quell'aria di innovazione progressista nota con il nome di vento del nord. In un paese ritenuto geneticamente e fortemente conservatore e privo di un reale senso civico pubblico, Valiani credeva che il miglior modo per la sinistra, di cui sarebbe stato sicuramente il leader naturale se si fosse andati oltre la ristrette e restrittiva formula frontista del 1948, per arriva al governo fosse quello di agire in un quadro istituzionale di tipo presidenzialista. Fu per questo che, insieme al giurista Piero Calamandrei, sostenne l'adozione di una forma di governo di tipo repubblicano presidenzialista che, però, non raccolse i voti sufficienti in seno alla Costituente che preferì adottare un modello di repubblica parlamentare: nonostante non ne condividesse l'aspetto puramente istituzionale Leo Valiani fu sempre un fermo e sincero difensore dei valori e dei principi della Costituzione repubblicane del 1948 che lui stesso aveva contribuito a redigere.
Al momento dello scioglimento del Partito d'Azione si ritira dalla politica attiva per dedicarsi alla sua attività di storico (ricca e di primo livello fu la sua produzione storiografica) e di giornalista (fu chiamato come editorialista al Corriere della Sera nel 1970 dal suo amico direttore Giovanni Spadolini e vi rimase fino alla morte) difendendo sempre i principi di libertà e di democrazia sociale in cui aveva creduto fin dalla tenera età di undici anni. Durante gli anni del terrorismo fu uno strenuo sostenitore della linea della fermezza e della difesa dello stato repubblicano (di cui non rinunciò ma a criticare i limiti ed i ritardi) contro ogni tentativo lassista di compromesso con i terroristi: contrario ad ogni trattativa lo fu anche durante i giorni del sequestro dello statista democristiano Aldo Moro, facendo propria e sostenendo dalle colonne del Corriere, la linea della fermezza, nota come linea Zaccagnini-Berlinguer-La Malfa, in chiara opposizione con ogni velleità trattatista di Bettino Craxi (Psi) e del nuovo gruppo dirigente del Partito Socialista che aveva conquistato la guida del partito di via del Corso dopo il congresso del Midas nel 1976.
Aderì, per un breve periodo al Partito Radicale, prima che questo cadesse nelle mani di Marco Pannella ed egli ex goliardi. Sostenne il centro-sinistra degli anni '60 dei Governi Fanfani e Moro, la Solidarietà nazionale negli anni '70 dei Governi Andreotti e poi l'esperienza di centrosinistra del l'Ulivo dei Governi Prodi e D'Alema sul finire degli anni '90.
Nel 1980 il suo vecchio amico Sandro Pertini lo nominò Senatore a vita e Leo Valiani, nell'accettare questa nomina che lo riportava in un'assemblea legislativa oltre tre decenni, aderì, nel periodo 1980-94, come indipendente al gruppo dei senatori del Partito Repubblicano Italiano per poi aderire, nel 1994-96, al gruppo della Sinistra democratica ideato e presieduto dal senatore Libero Gualtieri, suo vecchi amico e capogruppo dei tempi della comune militanza sui banchi dei senatori dell'edera.
Sabato 18 settembre 1999 moriva nella sua Milano dopo aver festeggiato da soli sette mesi il suo novantesimo compleanno.
Luca Molinari
27 dicembre 2001
sabato 27 giugno 2009
Il profumo della vita
Le ultime esternazioni di quell'uomo che occupa probabilmente in modo abusivo Palazzo Chigi mi fanno non solo inorridire e vergognare di essere rappresentato nel mondo da un individuo simile, ma mi fanno addirittura preccupare.
"Alle parti sociali che ho incontrato questa mattina ho detto che questa crisi economica ha come primo fattore quello psicologico. - ha esordito Berlusconi, a Palazzo Chigi - Ho detto tante volte, e l'ho ribadito anche a loro, che il fattore ottimismo è fondamentale per uscire dalla crisi: la gente deve tornare agli stili di vita precedente e deve rialzare i consumi. Anche perché la gente non ha motivi per diminuire i consumi".
Certo la gente non ha alcun motivo per diminuire i consumi: stipendi più bassi d'Europa, perdita di posti di lavoro, imprese in crisi, tasse che aumentano senza ricevere nulla di adeguato in cambio non sono di certo motivi sufficienti per risparmiare qualche euro. E sicuramente la crisi c'è solo per un fattore psicologico. Un giorno ci si sveglia, ci si illude di aver perso 30.000€ in borsa per colpa di un Tanzi o di un Ricucci qualsiasi, le fabbriche vicine a dove lavoriamo chiudono, alcuni amici restano in cassa integrazione. Ma chiaramente è una crisi psicologica, la finanza sregolata di matrice reaganiana-bushiana non centra nulla, così come non ha nulla a che fare con tutto ciò la criminalità organizzata, il riciclaggio di denaro sporco, la crisi energetica e lo stile di vita eccessivamente alto rispetto agli introiti delle famiglie americane. Curioso che la ricetta berlusconista per uscire dalla crisi sia quasi identica alla causa per cui ci siamo entrati.
"Ma le organizzazioni internazionali, invece un giorno sì e uno no escono e dicono che il deficit è al 5%, meno consumi del 5%, crisi di qui, crisi di là, la crisi ci sarà per fino al 2010, la crisi si chiuderà nel 2011... Un disastro: dovremmo veramente chiudere la bocca a tutti questi signori che parlano, magari perchè di cose che i loro uffici studi gli dicono possono verificarsi, ma che così facendo distruggono la fiducia dei cittadini dell'Europa e del mondo"
Grande esempio di libertà da colui che si definisce il campione della liberal-democrazia, il leader del "Popolo della Libertà". Chissà come la intende Berlusconi la libertà. Forse per lui la libertà non è quella di essere informati o di poter informare o di poter avere le proprie idee. La libertà secondo Berlusconi probabilmente si limita ad arrogarsi il diritto di decidere cosa e come gli italiani dovrebbero venire a conoscenza delle notizie.
Il caso Parmalat è ancora una volta esemplare (ricordiamo che è uno degli scandali finanziari più grossi d'Europa, forse il più grosso in assoluto): nessuno sapeva come versasse in realtà l'azienda di Tanzi, dunque tutti si fidavano. I risparmiatori compravano azioni e bond, gli allevatori vendevano il latte facendo credito alla Parmalat. Grazie a un sistema di corruzione Tanzi è riuscito a tenere tutto nascosto. la gente è rimasta "ottimista" (come direbbe il pazzoide) ed ha perso un mucchio di soldi. Chissà cosa sarebbe successo se, invece di aver avuto un tipico esempio di mercato berlusconista si avesse un avuto un mercato liberale, dove l'informazione esatta sullo stato di salute della Parmalat avrebbe sicuramente evitato una gestione criminale di quel tipo. Ma si sa, secondo le recenti teorie economiche berlusconiste colui che opera nel mercato non ha diritto a essere informato adeguatamente, bensì dev'essere dotato di "ottimismo".
"Agli imprenditori ho detto: 'minacciate di non dare la pubblicità a quei media che sono anch'essi fattori di crisi, perché la crisi a questo punto è eminentemente psicologica"
Ultimo, ma non ultimo a livello di gravità l'invito a non dare la pubblicità ai media che diffondono il pessimismo. Ovvero, guai a chi aumenterà la quote pubblicitarie sui giornali di De Benedetti. Ennesimo colpo di coda della guerra di Segrate? Forse, ma forse più che altro la voglia di mettere in difficoltà un gruppo editoriale che ultimamente si è fatto più aggressivo nei confronti dell'Imperator.
Non sono un esperto di legge però mi pare comunque molto grave che un uomo che gestisce, direttamente o indirittamente tutto il mercato televisivo e buona parte di quello cartaceo e che, per di più, è leader di una coalizione di servi e capo del governo possa permettersi di ordinare alle imprese a quale editore dare le proprie quote pubblicitarie. Se questo è un esempio di libero mercato allora siamo messi davvero bene. Siamo di sicuro in pole position per crollare sotto la malagestione di quest'uomo, chiaramente inadatto a gestire una crisi di cui non ha capito le cause e le origine nè ha idea di come si possa fronteggiarla. Un uomo che pensa di essere l'assoluto padrone dell'Italia, un uomo che confonde la cosa pubblica con la cosa privata, l'azione pubblica con quella privata. Un uomo che è sceso in politica senza smettere di gestire le sue aziende, spesso ricorrendo all'indubbio vantaggio di essere capo del governo o comunque membro influente della politica. Un uomo che rifiuta come eversivi i diritti alla libertà di opinione, di stampa, di informazione e, dulcis in fundo, di mercato.
Gli italiani hanno deciso che quest'uomo è quello adatto a governare un paese sull'orlo del baratro. E se si fosse candidato Provenzano, cos'avrebbero deciso?
"Alle parti sociali che ho incontrato questa mattina ho detto che questa crisi economica ha come primo fattore quello psicologico. - ha esordito Berlusconi, a Palazzo Chigi - Ho detto tante volte, e l'ho ribadito anche a loro, che il fattore ottimismo è fondamentale per uscire dalla crisi: la gente deve tornare agli stili di vita precedente e deve rialzare i consumi. Anche perché la gente non ha motivi per diminuire i consumi".
Certo la gente non ha alcun motivo per diminuire i consumi: stipendi più bassi d'Europa, perdita di posti di lavoro, imprese in crisi, tasse che aumentano senza ricevere nulla di adeguato in cambio non sono di certo motivi sufficienti per risparmiare qualche euro. E sicuramente la crisi c'è solo per un fattore psicologico. Un giorno ci si sveglia, ci si illude di aver perso 30.000€ in borsa per colpa di un Tanzi o di un Ricucci qualsiasi, le fabbriche vicine a dove lavoriamo chiudono, alcuni amici restano in cassa integrazione. Ma chiaramente è una crisi psicologica, la finanza sregolata di matrice reaganiana-bushiana non centra nulla, così come non ha nulla a che fare con tutto ciò la criminalità organizzata, il riciclaggio di denaro sporco, la crisi energetica e lo stile di vita eccessivamente alto rispetto agli introiti delle famiglie americane. Curioso che la ricetta berlusconista per uscire dalla crisi sia quasi identica alla causa per cui ci siamo entrati.
"Ma le organizzazioni internazionali, invece un giorno sì e uno no escono e dicono che il deficit è al 5%, meno consumi del 5%, crisi di qui, crisi di là, la crisi ci sarà per fino al 2010, la crisi si chiuderà nel 2011... Un disastro: dovremmo veramente chiudere la bocca a tutti questi signori che parlano, magari perchè di cose che i loro uffici studi gli dicono possono verificarsi, ma che così facendo distruggono la fiducia dei cittadini dell'Europa e del mondo"
Grande esempio di libertà da colui che si definisce il campione della liberal-democrazia, il leader del "Popolo della Libertà". Chissà come la intende Berlusconi la libertà. Forse per lui la libertà non è quella di essere informati o di poter informare o di poter avere le proprie idee. La libertà secondo Berlusconi probabilmente si limita ad arrogarsi il diritto di decidere cosa e come gli italiani dovrebbero venire a conoscenza delle notizie.
Il caso Parmalat è ancora una volta esemplare (ricordiamo che è uno degli scandali finanziari più grossi d'Europa, forse il più grosso in assoluto): nessuno sapeva come versasse in realtà l'azienda di Tanzi, dunque tutti si fidavano. I risparmiatori compravano azioni e bond, gli allevatori vendevano il latte facendo credito alla Parmalat. Grazie a un sistema di corruzione Tanzi è riuscito a tenere tutto nascosto. la gente è rimasta "ottimista" (come direbbe il pazzoide) ed ha perso un mucchio di soldi. Chissà cosa sarebbe successo se, invece di aver avuto un tipico esempio di mercato berlusconista si avesse un avuto un mercato liberale, dove l'informazione esatta sullo stato di salute della Parmalat avrebbe sicuramente evitato una gestione criminale di quel tipo. Ma si sa, secondo le recenti teorie economiche berlusconiste colui che opera nel mercato non ha diritto a essere informato adeguatamente, bensì dev'essere dotato di "ottimismo".
"Agli imprenditori ho detto: 'minacciate di non dare la pubblicità a quei media che sono anch'essi fattori di crisi, perché la crisi a questo punto è eminentemente psicologica"
Ultimo, ma non ultimo a livello di gravità l'invito a non dare la pubblicità ai media che diffondono il pessimismo. Ovvero, guai a chi aumenterà la quote pubblicitarie sui giornali di De Benedetti. Ennesimo colpo di coda della guerra di Segrate? Forse, ma forse più che altro la voglia di mettere in difficoltà un gruppo editoriale che ultimamente si è fatto più aggressivo nei confronti dell'Imperator.
Non sono un esperto di legge però mi pare comunque molto grave che un uomo che gestisce, direttamente o indirittamente tutto il mercato televisivo e buona parte di quello cartaceo e che, per di più, è leader di una coalizione di servi e capo del governo possa permettersi di ordinare alle imprese a quale editore dare le proprie quote pubblicitarie. Se questo è un esempio di libero mercato allora siamo messi davvero bene. Siamo di sicuro in pole position per crollare sotto la malagestione di quest'uomo, chiaramente inadatto a gestire una crisi di cui non ha capito le cause e le origine nè ha idea di come si possa fronteggiarla. Un uomo che pensa di essere l'assoluto padrone dell'Italia, un uomo che confonde la cosa pubblica con la cosa privata, l'azione pubblica con quella privata. Un uomo che è sceso in politica senza smettere di gestire le sue aziende, spesso ricorrendo all'indubbio vantaggio di essere capo del governo o comunque membro influente della politica. Un uomo che rifiuta come eversivi i diritti alla libertà di opinione, di stampa, di informazione e, dulcis in fundo, di mercato.
Gli italiani hanno deciso che quest'uomo è quello adatto a governare un paese sull'orlo del baratro. E se si fosse candidato Provenzano, cos'avrebbero deciso?
“Socialismo liberale”: ossimoro o tautologia?
I casi sono due: o si accosta ad una parola un’altra parola di senso contrario, oppure l’aggettivo ripete il concetto già contenuto nel sostantivo
di Vittorio Valenza
Da qualche tempo, sono tornati in uso gli appellativi di “socialismo liberale”, di “liberalsocialismo” e, perché no?, di “liberalismo sociale”. La cosa non è di quelle destinate a togliere il sonno al popolo e forse non merita neanche di essere sottolineata. Tuttavia, poiché, come sostiene un autorevole storico delle dottrine politiche, George Lichtheim, “la scelta della terminologia politica non è mai accidentale”, ma evidenzia “un modo nuovo di guardare il mondo” e tende “a creare forme di vita sociale”; forse è importante, per quanto ne siamo capaci, approfondire la questione. Norberto Bobbio scrive che “liberalismo” e “socialismo”, “sono storicamente considerati due termini antitetici”, tanto che “tutta la storia del pensiero politico dell’Ottocento, e in parte anche del Novecento, potrebbe essere raccontata come la storia del contrasto tra liberalismo e socialismo.” Il mettere insieme i due termini darebbe, quindi, vita a un “ossimoro”, cioè al procedimento retorico che consiste nell’accostare due parole di senso contrario. “Socialismo liberale” sarebbe, pertanto, una contraddizione in termini. Tuttavia, la critica che il socialismo rivolge alla dottrina liberale non è indirizzata, come quella dei reazionari o dei totalitari, contro i principi, i valori e i fondamenti del liberalismo. Per esempio, i socialisti non hanno mai messo in discussione la libertà di pensiero, di parola, d’associazione, di voto, e così via. Né i socialisti hanno mai contestato il principio d’isonomia, cioè l’eguaglianza di fronte alla legge. Neanche hanno mai inteso confutare quelli che sono i fondamenti del liberalismo: l’empirismo, l’anti-innatismo, cioè l’educazionismo, il contrattualismo sociale e la sovranità popolare. Anzi, il socialismo nasce proprio per dare concreta e universale realizzazione al progetto liberale. Come scrive Norberto Bobbio, “il socialismo fu concepito come un naturale sviluppo storico del liberalismo nel processo di emancipazione dell’umanità.” L’imputazione che il socialismo muove al liberalismo è, quindi, quella d’inadempienza: la mancata attuazione di qualcosa da parte di chi vi si dice impegnato. Che valore possono, infatti, avere le cosiddette “libertà di” (la libertà di religione, di parola, di stampa, di associazione, di partecipazione al potere politico, di iniziativa economica e così via), quando non sono supportate dalle “libertà da” e cioè la libertà dal bisogno, dall’incertezza per il domani, dall’ignoranza? Nello stato liberale, gli individui sono uguali davanti alla legge, ma sensibile e stridente rimane l’ineguaglianza economica e sociale. Anzi, quest’ultima rischia di vanificare la prima. Citiamo Carlo Rosselli: “Dice il socialismo: l’astratto riconoscimento della libertà di coscienza e delle libertà politiche a tutti gli uomini, se rappresenta un momento essenziale nello sviluppo della teoria politica, ha un valore ben relativo quando la maggioranza degli uomini, per condizioni intrinseche e ambientali, per miseria morale e materiale, non sia posta in grado di apprezzarne il significato e di valersene concretamente. La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria, umiliato dalla sua soggezione; […]. Libero di diritto, è servo di fatto.” La critica socialista del liberalismo s’innesta, pertanto, in quelle contraddizioni che impediscono al liberalismo stesso di tener fede alle sue promesse. Per esempio, l’incoerenza tra i principi d’isonomia e di sovranità popolare con la pratica delle discriminazioni elettorali. Oppure la contraddizione tra la proclamata libertà d’associazione e la pratica delle leggi antisindacali sul modello della celebre “legge Le Châtelier”, che proibiva le associazioni operaie in quanto lesive della libera concorrenza e della cosiddetta “libertà di contratto”. La quale “libertà di contratto” evidenzia, peraltro, un’altra contraddizione. Infatti, il rapporto che fa entrare il “prestatore d’opera” nella produzione non è un contratto con mezzi di produzione, ma con chi li detiene, cioè con il capitalista. Questo rapporto prende la forma giuridica di un “libero contratto” che fissa le condizioni del lavoro: il salario, il tempo di lavoro e così via. I contraenti figurano come “due persone giuridiche sullo stesso piano” ma l’uno dispone di danaro, l’altro soltanto della sua forz a di lavoro. La “libertà di contratto” nasconde, in realtà, la più completa disuguaglianza se non la più assoluta costrizione. Se non esce da questo schema, il “prestatore d’opera” può usufruire tutt’al più della libertà di morire di fame. Non si pensi che questi esempi appar-tengano a un lontano quanto non riproponibile passato. Ancora oggi fanno scuola le parole di uno dei più autorevoli pensatori liberali, Friedrich von Hayek: “Il campo in cui la mancata applicazione dei principi liberali ha comportato lo sviluppo di impedimenti sempre maggiori per il funzionamento del sistema di mercato è quello del monopolio del lavoro organizzato, ovvero i sindacati. […] Questa posizione dei sindacati operai, appunto, ha reso largamente inoperante in materia di determinazione dei salari il meccanismo di mercato ed è più che dubbio che un’economia di mercato possa continuare a sussistere quando la determinazione concorrenziale dei prezzi non vale anche per i salari.” Come si concilia questa realtà con il principio formulato dalla dottrina liberale secondo il quale la libertà può essere realizzata soltanto se, come afferma la famosa formula di Emanuele Kant, la libertà di ciascuno non va oltre ciò che è compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri. Semplicemente, non si concilia. Gli effetti pratici del liberalismo tendono, infatti, a dar vita a forme di oppressione e di schiavitù di massa. Con il riservare le proprie conquiste a pochi, il liberalismo contraddice sé stesso. Si giunge così all’antinomia per eccellenza. Come sottolinea un più che autorevole storico del pensiero liberale, Guido De Ruggiero, per il liberalismo “la proprietà è un diritto naturale dell’individuo ” . Senza la proprietà ogni indipendenza o autonomia dell’individuo sarebbe resa del tutto vana: “Solo in quanto proprietario, egli è sufficiente a sé stesso e può resistere a tutte le invadenze degli altri individui e dello stato.” Questa legittimazione della proprietà, che ha un posto d’onore in tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo, è comune a tutti i liberali. È rimasta immutata per più di trecento anni, da John Locke a Robert Nozick. Ma, usiamo sempre le parole di De Ruggiero, proprio da questa concezione “derivano alcune imprevedibili conseguenze, che l’intaccano alla base. Se la proprietà è essenziale allo spiegamento della libertà naturale dell’uomo, ciò vuol dire che non alcuni uomini soltanto debbono goderne come di un odioso privilegio, ma che tutti gli uomini debbono essere proprietari.” La contraddizione è più che evidente. Da un lato, la libertà dei liberali presuppone la proprietà, dall’altro, la pratica del liberalismo economico tende a negare la proprietà (e, quindi, la libertà) alla maggior parte degli individui. Infatti, benché i fondatori della teoria liberale, sostenessero che il motore della natura umana, l’amor di sé, può essere indirizzato in modo tale da promuovere, mediante quegli stessi sforzi che compie nel proprio interesse, l’interesse pubblico; si è dimostrato che gli effetti pratici del liberalismo, lasciato a sé stesso, contraddicono i principi del liberalismo stesso. La disuguaglianza, pur non essendo connaturata in senso stretto all’uomo, si sviluppa però inesorabilmente quando gli individui e le forze sociali entrano in concorrenza tra di loro. Come sintetizza Nicola Tranfaglia: il liberalismo, “favorisce la permanenza e l’accrescersi delle situazioni di privilegio e di disuguaglianza presenti nell’ordine capitalistico.” Parafrasando una celebre frase di Karl Marx, possiamo dire che là dove lo stato liberale raggiunge la sua vera fioritura, l’uomo conduce una vita doppia, per così dire “una vita celeste ed una vita terrestre”: la vita nella comunità politica e quella nella società civile. La prima nel regno dell’uguaglianza formale, la seconda nell’ineguaglianza reale. Per far sì che la libertà, diventi patrimonio di tutti, il “dogma” a cui il liberalismo deve rinunciare è, per i socialisti di tutte le scuole, il liberismo con la sua mitica parola d’ordine: “laissez faire, laizzez passer” (lasciar fare, lasciar correre). Non si esce, quindi, dall’ossimoro a meno di non espungere dal liberalismo il liberismo economico. Questa realtà non sfuggì nemmeno a quei liberali, come, per esempio, a John Stuart Mill o a Leonard Trelawney Hobhouse che diedero vita a un liberalismo socialisteggiante. Infatti, come spiega Friedrich von Hayek, per dare una risposta alla questione sociale, il liberalismo dei seguaci di Mill “rinunciò al dogma del non intervento dello Stato nella vita economica e sociale”, a cominciare dalla scuola. “Insomma, il pensiero liberale sperò almeno di poter ridurre le barriere sociali che vincolavano gli individui alla loro classe di origine, fornendo certi servizi a coloro che non erano ancora in grado di procurarseli da soli.” Se poniamo, quindi, una più che seria ipoteca sul liberismo, la formula “socialismo liberale” non dà più luogo a un ossimoro. In compenso, diventa, però, una tautologia. Infatti, se, come scrive Carlo Rosselli, “il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà”; allora dire “socialismo liberale” risulta, quantomeno, ridondante. È una sovrabbondanza e, come tutte le sovrabbondanze, è inutile: “frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora” (è inutile fare con molti quel che si può fare con pochi). Pertanto, noi concordiamo con Ralf Dahrendorf: ci è sufficiente l’appellativo “socialista” e riteniamo che “la posizione di ciascuno vada definita soprattutto attraverso le azioni che
compie.
La Tribuna di Lodi
9 settembre 2000
di Vittorio Valenza
Da qualche tempo, sono tornati in uso gli appellativi di “socialismo liberale”, di “liberalsocialismo” e, perché no?, di “liberalismo sociale”. La cosa non è di quelle destinate a togliere il sonno al popolo e forse non merita neanche di essere sottolineata. Tuttavia, poiché, come sostiene un autorevole storico delle dottrine politiche, George Lichtheim, “la scelta della terminologia politica non è mai accidentale”, ma evidenzia “un modo nuovo di guardare il mondo” e tende “a creare forme di vita sociale”; forse è importante, per quanto ne siamo capaci, approfondire la questione. Norberto Bobbio scrive che “liberalismo” e “socialismo”, “sono storicamente considerati due termini antitetici”, tanto che “tutta la storia del pensiero politico dell’Ottocento, e in parte anche del Novecento, potrebbe essere raccontata come la storia del contrasto tra liberalismo e socialismo.” Il mettere insieme i due termini darebbe, quindi, vita a un “ossimoro”, cioè al procedimento retorico che consiste nell’accostare due parole di senso contrario. “Socialismo liberale” sarebbe, pertanto, una contraddizione in termini. Tuttavia, la critica che il socialismo rivolge alla dottrina liberale non è indirizzata, come quella dei reazionari o dei totalitari, contro i principi, i valori e i fondamenti del liberalismo. Per esempio, i socialisti non hanno mai messo in discussione la libertà di pensiero, di parola, d’associazione, di voto, e così via. Né i socialisti hanno mai contestato il principio d’isonomia, cioè l’eguaglianza di fronte alla legge. Neanche hanno mai inteso confutare quelli che sono i fondamenti del liberalismo: l’empirismo, l’anti-innatismo, cioè l’educazionismo, il contrattualismo sociale e la sovranità popolare. Anzi, il socialismo nasce proprio per dare concreta e universale realizzazione al progetto liberale. Come scrive Norberto Bobbio, “il socialismo fu concepito come un naturale sviluppo storico del liberalismo nel processo di emancipazione dell’umanità.” L’imputazione che il socialismo muove al liberalismo è, quindi, quella d’inadempienza: la mancata attuazione di qualcosa da parte di chi vi si dice impegnato. Che valore possono, infatti, avere le cosiddette “libertà di” (la libertà di religione, di parola, di stampa, di associazione, di partecipazione al potere politico, di iniziativa economica e così via), quando non sono supportate dalle “libertà da” e cioè la libertà dal bisogno, dall’incertezza per il domani, dall’ignoranza? Nello stato liberale, gli individui sono uguali davanti alla legge, ma sensibile e stridente rimane l’ineguaglianza economica e sociale. Anzi, quest’ultima rischia di vanificare la prima. Citiamo Carlo Rosselli: “Dice il socialismo: l’astratto riconoscimento della libertà di coscienza e delle libertà politiche a tutti gli uomini, se rappresenta un momento essenziale nello sviluppo della teoria politica, ha un valore ben relativo quando la maggioranza degli uomini, per condizioni intrinseche e ambientali, per miseria morale e materiale, non sia posta in grado di apprezzarne il significato e di valersene concretamente. La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria, umiliato dalla sua soggezione; […]. Libero di diritto, è servo di fatto.” La critica socialista del liberalismo s’innesta, pertanto, in quelle contraddizioni che impediscono al liberalismo stesso di tener fede alle sue promesse. Per esempio, l’incoerenza tra i principi d’isonomia e di sovranità popolare con la pratica delle discriminazioni elettorali. Oppure la contraddizione tra la proclamata libertà d’associazione e la pratica delle leggi antisindacali sul modello della celebre “legge Le Châtelier”, che proibiva le associazioni operaie in quanto lesive della libera concorrenza e della cosiddetta “libertà di contratto”. La quale “libertà di contratto” evidenzia, peraltro, un’altra contraddizione. Infatti, il rapporto che fa entrare il “prestatore d’opera” nella produzione non è un contratto con mezzi di produzione, ma con chi li detiene, cioè con il capitalista. Questo rapporto prende la forma giuridica di un “libero contratto” che fissa le condizioni del lavoro: il salario, il tempo di lavoro e così via. I contraenti figurano come “due persone giuridiche sullo stesso piano” ma l’uno dispone di danaro, l’altro soltanto della sua forz a di lavoro. La “libertà di contratto” nasconde, in realtà, la più completa disuguaglianza se non la più assoluta costrizione. Se non esce da questo schema, il “prestatore d’opera” può usufruire tutt’al più della libertà di morire di fame. Non si pensi che questi esempi appar-tengano a un lontano quanto non riproponibile passato. Ancora oggi fanno scuola le parole di uno dei più autorevoli pensatori liberali, Friedrich von Hayek: “Il campo in cui la mancata applicazione dei principi liberali ha comportato lo sviluppo di impedimenti sempre maggiori per il funzionamento del sistema di mercato è quello del monopolio del lavoro organizzato, ovvero i sindacati. […] Questa posizione dei sindacati operai, appunto, ha reso largamente inoperante in materia di determinazione dei salari il meccanismo di mercato ed è più che dubbio che un’economia di mercato possa continuare a sussistere quando la determinazione concorrenziale dei prezzi non vale anche per i salari.” Come si concilia questa realtà con il principio formulato dalla dottrina liberale secondo il quale la libertà può essere realizzata soltanto se, come afferma la famosa formula di Emanuele Kant, la libertà di ciascuno non va oltre ciò che è compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri. Semplicemente, non si concilia. Gli effetti pratici del liberalismo tendono, infatti, a dar vita a forme di oppressione e di schiavitù di massa. Con il riservare le proprie conquiste a pochi, il liberalismo contraddice sé stesso. Si giunge così all’antinomia per eccellenza. Come sottolinea un più che autorevole storico del pensiero liberale, Guido De Ruggiero, per il liberalismo “la proprietà è un diritto naturale dell’individuo ” . Senza la proprietà ogni indipendenza o autonomia dell’individuo sarebbe resa del tutto vana: “Solo in quanto proprietario, egli è sufficiente a sé stesso e può resistere a tutte le invadenze degli altri individui e dello stato.” Questa legittimazione della proprietà, che ha un posto d’onore in tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo, è comune a tutti i liberali. È rimasta immutata per più di trecento anni, da John Locke a Robert Nozick. Ma, usiamo sempre le parole di De Ruggiero, proprio da questa concezione “derivano alcune imprevedibili conseguenze, che l’intaccano alla base. Se la proprietà è essenziale allo spiegamento della libertà naturale dell’uomo, ciò vuol dire che non alcuni uomini soltanto debbono goderne come di un odioso privilegio, ma che tutti gli uomini debbono essere proprietari.” La contraddizione è più che evidente. Da un lato, la libertà dei liberali presuppone la proprietà, dall’altro, la pratica del liberalismo economico tende a negare la proprietà (e, quindi, la libertà) alla maggior parte degli individui. Infatti, benché i fondatori della teoria liberale, sostenessero che il motore della natura umana, l’amor di sé, può essere indirizzato in modo tale da promuovere, mediante quegli stessi sforzi che compie nel proprio interesse, l’interesse pubblico; si è dimostrato che gli effetti pratici del liberalismo, lasciato a sé stesso, contraddicono i principi del liberalismo stesso. La disuguaglianza, pur non essendo connaturata in senso stretto all’uomo, si sviluppa però inesorabilmente quando gli individui e le forze sociali entrano in concorrenza tra di loro. Come sintetizza Nicola Tranfaglia: il liberalismo, “favorisce la permanenza e l’accrescersi delle situazioni di privilegio e di disuguaglianza presenti nell’ordine capitalistico.” Parafrasando una celebre frase di Karl Marx, possiamo dire che là dove lo stato liberale raggiunge la sua vera fioritura, l’uomo conduce una vita doppia, per così dire “una vita celeste ed una vita terrestre”: la vita nella comunità politica e quella nella società civile. La prima nel regno dell’uguaglianza formale, la seconda nell’ineguaglianza reale. Per far sì che la libertà, diventi patrimonio di tutti, il “dogma” a cui il liberalismo deve rinunciare è, per i socialisti di tutte le scuole, il liberismo con la sua mitica parola d’ordine: “laissez faire, laizzez passer” (lasciar fare, lasciar correre). Non si esce, quindi, dall’ossimoro a meno di non espungere dal liberalismo il liberismo economico. Questa realtà non sfuggì nemmeno a quei liberali, come, per esempio, a John Stuart Mill o a Leonard Trelawney Hobhouse che diedero vita a un liberalismo socialisteggiante. Infatti, come spiega Friedrich von Hayek, per dare una risposta alla questione sociale, il liberalismo dei seguaci di Mill “rinunciò al dogma del non intervento dello Stato nella vita economica e sociale”, a cominciare dalla scuola. “Insomma, il pensiero liberale sperò almeno di poter ridurre le barriere sociali che vincolavano gli individui alla loro classe di origine, fornendo certi servizi a coloro che non erano ancora in grado di procurarseli da soli.” Se poniamo, quindi, una più che seria ipoteca sul liberismo, la formula “socialismo liberale” non dà più luogo a un ossimoro. In compenso, diventa, però, una tautologia. Infatti, se, come scrive Carlo Rosselli, “il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà”; allora dire “socialismo liberale” risulta, quantomeno, ridondante. È una sovrabbondanza e, come tutte le sovrabbondanze, è inutile: “frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora” (è inutile fare con molti quel che si può fare con pochi). Pertanto, noi concordiamo con Ralf Dahrendorf: ci è sufficiente l’appellativo “socialista” e riteniamo che “la posizione di ciascuno vada definita soprattutto attraverso le azioni che
compie.
La Tribuna di Lodi
9 settembre 2000
Il paese gobbo e gli ultimi azionisti
Il caso Bobbio
di EZIO MAURO
CI DEV'essere qualcosa di formidabile e inspiegabile, se due grandi vecchi come Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone sono ancora il bersaglio della polemica e dell' intolleranza politica di tutte le destre italiane, antiche e nuove, politiche e intellettuali, camuffate o rampanti. I due hanno novantuno e novantadue anni. Vivono riparati, ai margini della polemica politica e culturale, com'è giusto e comprensibile alla loro età. Si parlano qualche volta al telefono, ma più che altro si scambiano i pensieri per lettera, come del resto fanno da mezzo secolo. Attorno Torino è cambiata, quel loro mondo in cui il piemontesismo era concepito come una "condizione condizionante" è finito per sempre, forse addirittura con Pavese - come ha scritto tanti anni fa Bobbio -, forse con le tante mutazioni della città, o più semplicemente con l'inevitabile trasformazione dell'Italia che non ha più una capitale della produzione, perché dalla vecchia fabbrica si affaccia oggi alla new economy.
Eppure, a più di novant'anni, Bobbio e Galante Garrone restano il fantasma fisso, l'ossessione inguaribile delle destre italiane. Non hanno un partito alle spalle, non hanno nemmeno eredi: soltanto quelli che Bobbio chiama dei "fallimenti", o per meglio dire delle speranze deluse, il partito d'Azione, l'unificazione socialista, una sinistra finalmente europea, e riformista. Com'è possibile che questi uomini soli, anziani e soli, siano ancora e costantemente il centro di una polemica politica e culturale che può portare tranquillamente il Polo a negare nei loro confronti il riconoscimento della cittadinanza onoraria di Torino?
Oggi una parte degli avversari si fa indulgente, e chiede alla destra torinese di ripensarci, di non infierire nella guerra simbolica del sigillo civico.
MAGARI, sottovoce, suggerisce di distinguere tra Bobbio che ha riconosciuto qualche anno fa la sua compromissione giovanile col fascismo e Galante che non ha mai giurato fedeltà al regime, come se questa fosse una macchia, nell'Italia del Duemila. Ma questa indulgenza tardiva, questo improvviso buonismo dosato con cura ossessiva, è ipocrita e soprattutto inutile. Davvero gli intellettuali revisionisti possono stupirsi se qualche consigliere comunale di Alleanza Nazionale si oppone ad un riconoscimento civico per Bobbio e Galante Garrone, dopo che per anni i due sono stati investiti da una polemica politica furiosa di aperta delegittimazione?
La verità è che per capire questa ossessione, e le nevrosi culturali che ne derivano, bisogna distinguere, finalmente. Per la destra di An, Bobbio e Galante Garrone sono esattamente due intellettuali antifascisti, irriducibili nel sostenere l'inconciliabilità tra il fascismo e la democrazia, convinti - sbagliando - che dal 1945 l'Italia avesse pronunciato nei confronti del fascismo "una condanna definitiva, e senza appello". Per i revisionisti neoliberali, la colpa è invece un'altra, genetica e irrimediabile: l'azionismo, anzi meglio la corrente torinese dell' azionismo, quel gramsci-azionismo (come viene chiamato spregiativamente) che discende da Piero Gobetti, e che è sopravvissuto ben oltre la morte del partito d'Azione, più di cinquant'anni fa.
Cinquant'anni dopo, dunque, perché l'azionismo fa ancora paura, pur disarmato da ogni strumento diretto di intervento politico? La ragione è ideologica, nient'affatto culturale. I moderni nemici dell' azionismo sono in realtà impegnati in una critica a senso unico della sinistra italiana, e in una riscrittura della storia repubblicana del nostro Paese che è diventata un perno centrale del cambio di egemonia culturale in atto oggi in Italia. E' cioè in corso un trasloco, un cambio di stagione, una destrutturazione del sistema di valori civici su cui si è retta la nostra democrazia per cinquant'anni, un sistema condiviso, coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne derivano, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione.
Per raggiungere questo obiettivo - politico, e ideologico - era necessario attaccare direttamente tre punti fermi della cultura civile repubblicana: l'antifascismo, l'azionismo, il Risorgimento. E' stato fatto, con cura e con impegno, e con risultati di rilievo, che sono sotto gli occhi di tutti. I prossimi passi sono facilmente prevedibili: la Costituzione, troppo vecchia e intrisa di quelle culture ormai delegittimate, poi l'impianto istituzionale repubblicano, troppo arcaico, specchio di quella Costituzione, di quelle culture, di quel mondo passato e finalmente gettato in minoranza.
Il centro del bersaglio è naturalmente l'azionismo, crocevia teorico del Risorgimento e dell'antifascismo, soprattutto nella variante torinese, così intrisa di gobettismo. Un azionismo che tradisce la "neutralità" liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l' anticomunismo. Né comunisti, dunque, né anticomunisti, "né con loro né contro", come Bobbio ricorda la sua posizione negli Anni Cinquanta. Nel tentativo continuo di indicare ai comunisti i limiti del comunismo: a Togliatti all'epoca della polemica di "Politica e cultura"; a Berlinguer ancora nel 1978, quando Bobbio gli ricorda che "la terza via non esiste", tra comunismo e socialdemocrazia bisogna scegliere. Gli azionisti, proprio per queste ragioni, sono pericolosi due volte: perché non portano in sè il peccato originale del comunismo, come la parte maggioritaria della sinistra italiana, e perché non scelgono l'anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Questo liberalismo di sinistra, anzi, nello specifico del caso italiano rifiuta l'equidistanza tra fascismo e comunismo: e gli azionisti vengono perciò accusati in pratica di essere troppo deboli come anticomunisti, troppo severi come antifascisti. "In questi ultimi anni di revisionismo storico - ha scritto Bobbio - mi accade di constatare che il rifiuto del'antifascismo in nome dell'anticomunismo ha finito spesso di condurre a un'altra forma di equidistanza che io considero abominevole: tra fascismo e antifascismo".
E' questa la seconda ragione dell' ossessione per l'azionismo. Il tentativo di ridurre a posteriori il fascismo ad una sorta di debolezza nazionale, di cedimento italico, di vizio collettivo. La delegittimazione sistematica di Bobbio dopo la pubblicazione della sua lettera giovanile al Duce ha raggiunto il suo scopo quando il filosofo ha parlato dell'apatica zona grigia in cui viveva in quegli anni, mentre altri si opponevano alla dittatura. Il fascismo come patrimonio di tutti, verrebbe da dire, salvo pochi fanatici, alla cui scelta si nega pervicacemente ogni valore morale, ogni valore di testimonianza utile anche per oggi. E' la rappresentazione di un'Italia al peggio, in cui tutti sono uguali nei vizi e le virtù civiche non contano perché lo Stato è un estraneo, se non un nemico da cui guardarsi. Un Paese pronto ad ascoltare l'elogio del malandrino, in cui l'avversario viene schernito, i suoi ideali sono messi alla berlina, le virtù civiche vengono derise, la delegittimazione politica, morale, personale va in scena abitualmente, senza più contravveleni.
Ed è chiaro che l'azionismo - sia pure residuale, rarefatto, ormai sterile nel panorama politico italiano - è un'altra volta una pietra d'inciampo per questo disegno ideologico di amalgama culturale verso il peggio. Quell'azionismo che profilava un'Italia di minoranza, intransigente, laica, illuminista, repubblicana davvero, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, convinta della necessità di coniugare l'etica con la politica, religiosa di un'unica religione civica, quella di una democrazia forte. Meglio l'Italia cinica e indifferente della Prima Repubblica e magari di oggi. Meglio una politica che se trova "un Paese gobbo", come diceva Giolitti, si adatta tranquillamente, e gli confeziona "un abito da gobbo". Ecco perché si può tranquillamente rifiutare il sigillo di Torino a Bobbio e Galante Garrone. L'opera lunga e faticosa di demolizione dell'azionismo è probabilmente compiuta. Non era Togliatti, d'altra parte, che chiamava Parri "quel fesso"? E non era Guglielmo Giannini, sull'"Uomo Qualunque", che derideva quei "visi pallidi" degli azionisti? Cinquant'anni dopo, con la sinistra distratta e silenziosa, i revisionisti possono finalmente riposarsi: quel lavoro è finito.
La Repubblica
24.10.2000
di EZIO MAURO
CI DEV'essere qualcosa di formidabile e inspiegabile, se due grandi vecchi come Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone sono ancora il bersaglio della polemica e dell' intolleranza politica di tutte le destre italiane, antiche e nuove, politiche e intellettuali, camuffate o rampanti. I due hanno novantuno e novantadue anni. Vivono riparati, ai margini della polemica politica e culturale, com'è giusto e comprensibile alla loro età. Si parlano qualche volta al telefono, ma più che altro si scambiano i pensieri per lettera, come del resto fanno da mezzo secolo. Attorno Torino è cambiata, quel loro mondo in cui il piemontesismo era concepito come una "condizione condizionante" è finito per sempre, forse addirittura con Pavese - come ha scritto tanti anni fa Bobbio -, forse con le tante mutazioni della città, o più semplicemente con l'inevitabile trasformazione dell'Italia che non ha più una capitale della produzione, perché dalla vecchia fabbrica si affaccia oggi alla new economy.
Eppure, a più di novant'anni, Bobbio e Galante Garrone restano il fantasma fisso, l'ossessione inguaribile delle destre italiane. Non hanno un partito alle spalle, non hanno nemmeno eredi: soltanto quelli che Bobbio chiama dei "fallimenti", o per meglio dire delle speranze deluse, il partito d'Azione, l'unificazione socialista, una sinistra finalmente europea, e riformista. Com'è possibile che questi uomini soli, anziani e soli, siano ancora e costantemente il centro di una polemica politica e culturale che può portare tranquillamente il Polo a negare nei loro confronti il riconoscimento della cittadinanza onoraria di Torino?
Oggi una parte degli avversari si fa indulgente, e chiede alla destra torinese di ripensarci, di non infierire nella guerra simbolica del sigillo civico.
MAGARI, sottovoce, suggerisce di distinguere tra Bobbio che ha riconosciuto qualche anno fa la sua compromissione giovanile col fascismo e Galante che non ha mai giurato fedeltà al regime, come se questa fosse una macchia, nell'Italia del Duemila. Ma questa indulgenza tardiva, questo improvviso buonismo dosato con cura ossessiva, è ipocrita e soprattutto inutile. Davvero gli intellettuali revisionisti possono stupirsi se qualche consigliere comunale di Alleanza Nazionale si oppone ad un riconoscimento civico per Bobbio e Galante Garrone, dopo che per anni i due sono stati investiti da una polemica politica furiosa di aperta delegittimazione?
La verità è che per capire questa ossessione, e le nevrosi culturali che ne derivano, bisogna distinguere, finalmente. Per la destra di An, Bobbio e Galante Garrone sono esattamente due intellettuali antifascisti, irriducibili nel sostenere l'inconciliabilità tra il fascismo e la democrazia, convinti - sbagliando - che dal 1945 l'Italia avesse pronunciato nei confronti del fascismo "una condanna definitiva, e senza appello". Per i revisionisti neoliberali, la colpa è invece un'altra, genetica e irrimediabile: l'azionismo, anzi meglio la corrente torinese dell' azionismo, quel gramsci-azionismo (come viene chiamato spregiativamente) che discende da Piero Gobetti, e che è sopravvissuto ben oltre la morte del partito d'Azione, più di cinquant'anni fa.
Cinquant'anni dopo, dunque, perché l'azionismo fa ancora paura, pur disarmato da ogni strumento diretto di intervento politico? La ragione è ideologica, nient'affatto culturale. I moderni nemici dell' azionismo sono in realtà impegnati in una critica a senso unico della sinistra italiana, e in una riscrittura della storia repubblicana del nostro Paese che è diventata un perno centrale del cambio di egemonia culturale in atto oggi in Italia. E' cioè in corso un trasloco, un cambio di stagione, una destrutturazione del sistema di valori civici su cui si è retta la nostra democrazia per cinquant'anni, un sistema condiviso, coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne derivano, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione.
Per raggiungere questo obiettivo - politico, e ideologico - era necessario attaccare direttamente tre punti fermi della cultura civile repubblicana: l'antifascismo, l'azionismo, il Risorgimento. E' stato fatto, con cura e con impegno, e con risultati di rilievo, che sono sotto gli occhi di tutti. I prossimi passi sono facilmente prevedibili: la Costituzione, troppo vecchia e intrisa di quelle culture ormai delegittimate, poi l'impianto istituzionale repubblicano, troppo arcaico, specchio di quella Costituzione, di quelle culture, di quel mondo passato e finalmente gettato in minoranza.
Il centro del bersaglio è naturalmente l'azionismo, crocevia teorico del Risorgimento e dell'antifascismo, soprattutto nella variante torinese, così intrisa di gobettismo. Un azionismo che tradisce la "neutralità" liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l' anticomunismo. Né comunisti, dunque, né anticomunisti, "né con loro né contro", come Bobbio ricorda la sua posizione negli Anni Cinquanta. Nel tentativo continuo di indicare ai comunisti i limiti del comunismo: a Togliatti all'epoca della polemica di "Politica e cultura"; a Berlinguer ancora nel 1978, quando Bobbio gli ricorda che "la terza via non esiste", tra comunismo e socialdemocrazia bisogna scegliere. Gli azionisti, proprio per queste ragioni, sono pericolosi due volte: perché non portano in sè il peccato originale del comunismo, come la parte maggioritaria della sinistra italiana, e perché non scelgono l'anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Questo liberalismo di sinistra, anzi, nello specifico del caso italiano rifiuta l'equidistanza tra fascismo e comunismo: e gli azionisti vengono perciò accusati in pratica di essere troppo deboli come anticomunisti, troppo severi come antifascisti. "In questi ultimi anni di revisionismo storico - ha scritto Bobbio - mi accade di constatare che il rifiuto del'antifascismo in nome dell'anticomunismo ha finito spesso di condurre a un'altra forma di equidistanza che io considero abominevole: tra fascismo e antifascismo".
E' questa la seconda ragione dell' ossessione per l'azionismo. Il tentativo di ridurre a posteriori il fascismo ad una sorta di debolezza nazionale, di cedimento italico, di vizio collettivo. La delegittimazione sistematica di Bobbio dopo la pubblicazione della sua lettera giovanile al Duce ha raggiunto il suo scopo quando il filosofo ha parlato dell'apatica zona grigia in cui viveva in quegli anni, mentre altri si opponevano alla dittatura. Il fascismo come patrimonio di tutti, verrebbe da dire, salvo pochi fanatici, alla cui scelta si nega pervicacemente ogni valore morale, ogni valore di testimonianza utile anche per oggi. E' la rappresentazione di un'Italia al peggio, in cui tutti sono uguali nei vizi e le virtù civiche non contano perché lo Stato è un estraneo, se non un nemico da cui guardarsi. Un Paese pronto ad ascoltare l'elogio del malandrino, in cui l'avversario viene schernito, i suoi ideali sono messi alla berlina, le virtù civiche vengono derise, la delegittimazione politica, morale, personale va in scena abitualmente, senza più contravveleni.
Ed è chiaro che l'azionismo - sia pure residuale, rarefatto, ormai sterile nel panorama politico italiano - è un'altra volta una pietra d'inciampo per questo disegno ideologico di amalgama culturale verso il peggio. Quell'azionismo che profilava un'Italia di minoranza, intransigente, laica, illuminista, repubblicana davvero, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, convinta della necessità di coniugare l'etica con la politica, religiosa di un'unica religione civica, quella di una democrazia forte. Meglio l'Italia cinica e indifferente della Prima Repubblica e magari di oggi. Meglio una politica che se trova "un Paese gobbo", come diceva Giolitti, si adatta tranquillamente, e gli confeziona "un abito da gobbo". Ecco perché si può tranquillamente rifiutare il sigillo di Torino a Bobbio e Galante Garrone. L'opera lunga e faticosa di demolizione dell'azionismo è probabilmente compiuta. Non era Togliatti, d'altra parte, che chiamava Parri "quel fesso"? E non era Guglielmo Giannini, sull'"Uomo Qualunque", che derideva quei "visi pallidi" degli azionisti? Cinquant'anni dopo, con la sinistra distratta e silenziosa, i revisionisti possono finalmente riposarsi: quel lavoro è finito.
La Repubblica
24.10.2000
venerdì 26 giugno 2009
Recensioni: La questione immorale - Brunto Tinti
“Se oggi c'è un problema della democrazia in Italia, è più un problema di principi che di istituzioni... Dobbiamo essere democratici sempre in allarme."
Norberto Bobbio, “Risorgimento”, 1958
Il problema più urgente: riformare la giustizia. Separazione delle carriere, non obbligatorietà dell’azione penale, responsabilità civile dei magistrati, blocco delle intercettazioni telefoniche. Più che l’efficienza della giustizia ai politici sembra stare a cuore il controllo dei magistrati e la garanzia dell’impunità.
Questo libro spiega il come e il perché. Basta togliere l’iniziativa al pm e metterlo alle dipendenze del potere politico. O gli si può togliere il controllo della polizia giudiziaria. O limitare le intercettazioni. Mentre polizia, servizi e quindi il governo per motivi di sicurezza possono intercettare migliaia di cittadini. Un enorme archivio segreto. E nessuno dice niente.
In realtà molto si potrebbe fare per rendere più efficiente la giustizia. Subito. Tinti lo dimostra. E tutti lo sanno. Ma una giustizia che funzioni veramente fa troppa paura.
Norberto Bobbio, “Risorgimento”, 1958
Il problema più urgente: riformare la giustizia. Separazione delle carriere, non obbligatorietà dell’azione penale, responsabilità civile dei magistrati, blocco delle intercettazioni telefoniche. Più che l’efficienza della giustizia ai politici sembra stare a cuore il controllo dei magistrati e la garanzia dell’impunità.
Questo libro spiega il come e il perché. Basta togliere l’iniziativa al pm e metterlo alle dipendenze del potere politico. O gli si può togliere il controllo della polizia giudiziaria. O limitare le intercettazioni. Mentre polizia, servizi e quindi il governo per motivi di sicurezza possono intercettare migliaia di cittadini. Un enorme archivio segreto. E nessuno dice niente.
In realtà molto si potrebbe fare per rendere più efficiente la giustizia. Subito. Tinti lo dimostra. E tutti lo sanno. Ma una giustizia che funzioni veramente fa troppa paura.
L'Italia va a puttane
Nel momento in cui tutti sono impegnati a parlare delle puttanate (nel vero senso della parola) di Berlusconi ci si dimentica delle grandi imprese dei suoi colonnelli.
Uno ad esempio è Tremonti. Il prode ministro dell'economia, che tanto bene ha fatto agli evasori fiscali di mezza Italia, ha lanciato un ultimatum agli economisti: "tacete fino a settembre". Salvo precisare immediatamente che non si tratta di censura, ma di igiene.
Trovo simpatico che, oltre a ordinare il silenzio al TG più visto d'Italia questo governo abbia l'ardire (e il potere) di fare lo stesso nei confronti degli economisti.
Tutto nasce chiaramente dalla solita querelle tra Draghi e Tremonti. L'uno dipinge una situazione secondo la quale il PIL calerà del 5% al termine dell'anno (con la Marcegaglia che dice "magari!"), l'altro si ostina a dipingere una situazione rosea secondo cui noi usciremo "prima e meglio" dalla crisi rispetto agli altri paesi europei.
Questo mantra del "prima e meglio degli altri" ormai ci viene propinato da quasi un anno. Secondo la destra infatti l'Italia sarebbe in grado (non si sa grazie a quali misteriose virtù) di subire meno la crisi rispetto agli altri paesi europei, più esposti al volere delle banche. Ma fin che si trattava di una crisi finanziaria era un ragionemento tutto sommato ragionevole. Ma resta il fatto che questa non è una crisi prettamente finanziaria. La Banca d'Italia ha rivista al ribasso le stime sul PIL (dal -2% al -5&), cosa sottolineata da Tremonti come per dire che Draghi non sa quel che dice, ma l'ottimista senza se e senza ma è sempre stato lui, non Draghi.
Sembrava che quel -2% fosse la prova che noi stavamo meglio di Spagna, Germania, Inghilterra, che calavano più di noi. Ma, a parte il fatto che loro partivano anche da un livello di crescita maggiore, c'è da dire che ormai noi caliamo esattamente come loro, il che è molto preoccupante visto che già eravamo inferiori.
Dunque aveva ragione chi sosteneva che l'intero sistema economico-produttivo del paese era da rifare e da rivedere (io continuo a sottolineare il grosso impatto che mafia, corruzione ed evasione fiscale hanno in tutto ciò).
Nonostante ciò il governo continua con la campagna dell'ottimismo. Berlusconi che annuncia che il peggio della crisi è passato, Tremonti che chiede il silenzio degli economisti. Ma perchè? Forse perchè c'è il pericolo che nei prossimi mesi escano dei dati che confermano i danni provocati dall'immobilismo del governo? Per distogliere l'attenzione sul fatto che Tremonti e Berlusconi non sanno che pesci pigliare per fronteggiare la crisi, la disoccupazione, la chiusura di migliaia di piccole imprese?
Si continua a chiedere di tagliare la spesa pubblica, ma a che pro? La spesa pubblica può e deve essere un grande volano di coesione sociale e di spinta, basta saperla indirizzare nella giusta maniera, basta investire quei soldi nei settori giusti. Difficilmente miglioreremo il paese aumentando il comfort delle auto blu a scapito della ricerca universitaria, difficilmente modernizzeremo l'Italia regalando 9 miliardi all'anno (almeno) alla Chiesa e lasciando i precari in mezzo a una strada, difficilmente otterremo più sicurezza lasciando che la mafia e qualche imprenditore senza scrupoli si intaschino 60 miliardi all'anno di tangenti al posto di usare quei soldi per velocizzare e razionalizzare la giustizia e migliorare l'azione preventiva delle forze dell'ordine.
La politica economica di questo governo dunque è un sostanziale fallimento e i risultati (questa è la fregatura) difficilmente si vedranno nei prossimi mesi. I risultati di questo fallimento li pagheremo tra qualche anno, quando ormai Berlusconi e Tremonti saranno un lontano e triste ricordo.
Ma tutto ciò, danni presenti e danni futuri, alla sinistra non importa. La gente perde il lavoro, le imprese chiudono, i giovani dovranno rinunciare all'istruzione, il welfare non è dato dallo stato ma da associazioni di volontariato e, sopratutto, dalle famiglie (che però non hanno fondi infiniti). Tutto ciò, dicevo, alla sinistra non importa. La cosa importante, in Italia, sono le puttane di Berlusconi.
Uno ad esempio è Tremonti. Il prode ministro dell'economia, che tanto bene ha fatto agli evasori fiscali di mezza Italia, ha lanciato un ultimatum agli economisti: "tacete fino a settembre". Salvo precisare immediatamente che non si tratta di censura, ma di igiene.
Trovo simpatico che, oltre a ordinare il silenzio al TG più visto d'Italia questo governo abbia l'ardire (e il potere) di fare lo stesso nei confronti degli economisti.
Tutto nasce chiaramente dalla solita querelle tra Draghi e Tremonti. L'uno dipinge una situazione secondo la quale il PIL calerà del 5% al termine dell'anno (con la Marcegaglia che dice "magari!"), l'altro si ostina a dipingere una situazione rosea secondo cui noi usciremo "prima e meglio" dalla crisi rispetto agli altri paesi europei.
Questo mantra del "prima e meglio degli altri" ormai ci viene propinato da quasi un anno. Secondo la destra infatti l'Italia sarebbe in grado (non si sa grazie a quali misteriose virtù) di subire meno la crisi rispetto agli altri paesi europei, più esposti al volere delle banche. Ma fin che si trattava di una crisi finanziaria era un ragionemento tutto sommato ragionevole. Ma resta il fatto che questa non è una crisi prettamente finanziaria. La Banca d'Italia ha rivista al ribasso le stime sul PIL (dal -2% al -5&), cosa sottolineata da Tremonti come per dire che Draghi non sa quel che dice, ma l'ottimista senza se e senza ma è sempre stato lui, non Draghi.
Sembrava che quel -2% fosse la prova che noi stavamo meglio di Spagna, Germania, Inghilterra, che calavano più di noi. Ma, a parte il fatto che loro partivano anche da un livello di crescita maggiore, c'è da dire che ormai noi caliamo esattamente come loro, il che è molto preoccupante visto che già eravamo inferiori.
Dunque aveva ragione chi sosteneva che l'intero sistema economico-produttivo del paese era da rifare e da rivedere (io continuo a sottolineare il grosso impatto che mafia, corruzione ed evasione fiscale hanno in tutto ciò).
Nonostante ciò il governo continua con la campagna dell'ottimismo. Berlusconi che annuncia che il peggio della crisi è passato, Tremonti che chiede il silenzio degli economisti. Ma perchè? Forse perchè c'è il pericolo che nei prossimi mesi escano dei dati che confermano i danni provocati dall'immobilismo del governo? Per distogliere l'attenzione sul fatto che Tremonti e Berlusconi non sanno che pesci pigliare per fronteggiare la crisi, la disoccupazione, la chiusura di migliaia di piccole imprese?
Si continua a chiedere di tagliare la spesa pubblica, ma a che pro? La spesa pubblica può e deve essere un grande volano di coesione sociale e di spinta, basta saperla indirizzare nella giusta maniera, basta investire quei soldi nei settori giusti. Difficilmente miglioreremo il paese aumentando il comfort delle auto blu a scapito della ricerca universitaria, difficilmente modernizzeremo l'Italia regalando 9 miliardi all'anno (almeno) alla Chiesa e lasciando i precari in mezzo a una strada, difficilmente otterremo più sicurezza lasciando che la mafia e qualche imprenditore senza scrupoli si intaschino 60 miliardi all'anno di tangenti al posto di usare quei soldi per velocizzare e razionalizzare la giustizia e migliorare l'azione preventiva delle forze dell'ordine.
La politica economica di questo governo dunque è un sostanziale fallimento e i risultati (questa è la fregatura) difficilmente si vedranno nei prossimi mesi. I risultati di questo fallimento li pagheremo tra qualche anno, quando ormai Berlusconi e Tremonti saranno un lontano e triste ricordo.
Ma tutto ciò, danni presenti e danni futuri, alla sinistra non importa. La gente perde il lavoro, le imprese chiudono, i giovani dovranno rinunciare all'istruzione, il welfare non è dato dallo stato ma da associazioni di volontariato e, sopratutto, dalle famiglie (che però non hanno fondi infiniti). Tutto ciò, dicevo, alla sinistra non importa. La cosa importante, in Italia, sono le puttane di Berlusconi.
giovedì 25 giugno 2009
Un giorno, un solo giorno, a Roma
di Bruno Tinti
Oggi (24 giugno) ero a Roma. Mia sorella è venuta a prendermi all’aeroporto e mi ha portato in centro, al vecchio palazzo di giustizia in piazza Cavour.
Via Cristoforo Colombo, le Terme di Caracalla, Lungotevere.
C’era un traffico micidiale, tutti in fila, abbastanza ordinati, non sembrava nemmeno di essere a Roma.
A un certo punto, poco dopo l’incrocio con via Arenula, improvvisamente una sirena.
Tutti si spostano, affannosamente, chi qua, chi là; e una Audi 8 grigia con il fungo blu passa e sgomma via.
Mia sorella e io restiamo un po’ perplessi e io dico “ma chi è quello; e dove diavolo va?”
Il finestrino era abbassato e il signore nella macchina vicino alla mia, uno molto distinto, di circa 40 anni, mi guarda e dice: “E’ uno che sta a portà na’ mignotta a Berlusconi”.
Poi, tutti arrabbiati, e anche un po’ umiliati per non aver saputo reagire a questa prepotenza (ma davvero, chi …. era quello? E dove andava, così di fretta? E perché riteneva giusto che tutti i cittadini si spostassero davanti a lui per farlo passare?), ce ne siamo andati.
Dopo un po’ ho passato il ponte Vittorio Emanuele II, attraversato via della Conciliazione e proseguito in direzione di via Crescenzio, transitando per via di Porta Castello. Era tutta ingombra di grandi auto blù, tutte con il loro bravo fungo. In alcune c’era un autista che leggeva il giornale (niente di che, quella roba che viene distribuita gratis), altri autisti girolavano tra una macchina e l’altra chiacchierando. Tutti uguali, aria stolida, spalle larghe, vestiti blu striminziti, atteggiamento arrogante. Le macchine erano parcheggiate anche in terza fila, il traffico era impazzito, si passava con grande difficoltà. E questi a leggere il giornale o, come ho detto, a chiacchierare.
La gente era furiosa. “Ma chi so’ sti’ stronzi?” “Ma guarda te si debbono parcheggià così; robba che si lo facevo io …” “Vanno a prenne er cappuccio cor maritozzo co’ la machina blù; e l’autista aspetta; e io pago …” Poi, finalmente, siamo sgusciati via e io ho raggiunto il palazzo di giustizia.
Adesso, che ho finito quello che dovevo fare e posso riflettere con calma, penso: ma è possibile che la nostra classe dirigente non avverta il disprezzo da cui è circondata? Ma è possibile che non ci sia uno, uno solo, tra politici, grand commis d’Etat, amici e fiancheggiatori di questa gente che non si renda conto di essere alla frutta? Ma come possono coltivare ancora impunemente questa squallida, provinciale, infantile arroganza?
Penso: ma che Paese è questo dove il senatore Colombo mandava gli agenti della sua scorta a comprargli la cocaina mentre lui aspettava sulla sua macchina blu; e che Paese deve essere la Svezia dove il Ministro degli interni (mi pare), una signora, è stata uccisa da un pazzo mentre usciva dal supermercato dove era andata a far la spesa in bicicletta? In bicicletta, capito?
Penso: ma tutte quelle macchine (Mercedes, Audi, BMW, magari blindate – forse 400.000, 500.000 euro ognuna) e quegli autisti quanto costano? E perché dobbiamo permettere a questa gente di averle? Quante case si potrebbero costruire in Abruzzo (o quante altre cose si potrebbero fare) con quei soldi?
Penso: ma se io, in un giorno, anzi in due ore, ho visto queste cose; ma cosa succederà tutti i giorni, e a ben altri livelli?
Penso: ma davvero siamo ridotti così? Ma che differenza c’è tra l’Italia e una qualsiasi dittatura africana? Forse solo il fatto che non è una dittatura sanguinaria? Che si ruba, si spreca, si mente, si fa propaganda falsa e bugiarda, si è indifferenti agli interessi del Paese; ma non si uccide?
Penso: ma cosa possiamo fare per liberarci di questa gente?
E qui mi fermo; perché non lo so cosa possiamo fare.
Io mi sono sentito obbligato, dopo lo spettacolino che vi ho descritto, a cercare un posteggio regolare, nelle strisce blu, a mettere il tagliandino con l’ora (calcolata per eccesso) di presumibile durata della sosta, ad attraversare sulle strisce pedonali e a fare la fila nell’ufficio dove dovevo sbrigare le mie cose; però ho visto molta gente, quasi tutti, che hanno lasciato la macchina in seconda o anche in terza fila e che mi sono passati avanti nella coda con qualche abile manovra.
E così alla fine penso: questa classe dirigente che fa finta di governarci ci ha conquistato o è il più limpido frutto della democrazia? Insomma, non è che abbiamo la classe dirigente che ci meritiamo?
Oggi (24 giugno) ero a Roma. Mia sorella è venuta a prendermi all’aeroporto e mi ha portato in centro, al vecchio palazzo di giustizia in piazza Cavour.
Via Cristoforo Colombo, le Terme di Caracalla, Lungotevere.
C’era un traffico micidiale, tutti in fila, abbastanza ordinati, non sembrava nemmeno di essere a Roma.
A un certo punto, poco dopo l’incrocio con via Arenula, improvvisamente una sirena.
Tutti si spostano, affannosamente, chi qua, chi là; e una Audi 8 grigia con il fungo blu passa e sgomma via.
Mia sorella e io restiamo un po’ perplessi e io dico “ma chi è quello; e dove diavolo va?”
Il finestrino era abbassato e il signore nella macchina vicino alla mia, uno molto distinto, di circa 40 anni, mi guarda e dice: “E’ uno che sta a portà na’ mignotta a Berlusconi”.
Poi, tutti arrabbiati, e anche un po’ umiliati per non aver saputo reagire a questa prepotenza (ma davvero, chi …. era quello? E dove andava, così di fretta? E perché riteneva giusto che tutti i cittadini si spostassero davanti a lui per farlo passare?), ce ne siamo andati.
Dopo un po’ ho passato il ponte Vittorio Emanuele II, attraversato via della Conciliazione e proseguito in direzione di via Crescenzio, transitando per via di Porta Castello. Era tutta ingombra di grandi auto blù, tutte con il loro bravo fungo. In alcune c’era un autista che leggeva il giornale (niente di che, quella roba che viene distribuita gratis), altri autisti girolavano tra una macchina e l’altra chiacchierando. Tutti uguali, aria stolida, spalle larghe, vestiti blu striminziti, atteggiamento arrogante. Le macchine erano parcheggiate anche in terza fila, il traffico era impazzito, si passava con grande difficoltà. E questi a leggere il giornale o, come ho detto, a chiacchierare.
La gente era furiosa. “Ma chi so’ sti’ stronzi?” “Ma guarda te si debbono parcheggià così; robba che si lo facevo io …” “Vanno a prenne er cappuccio cor maritozzo co’ la machina blù; e l’autista aspetta; e io pago …” Poi, finalmente, siamo sgusciati via e io ho raggiunto il palazzo di giustizia.
Adesso, che ho finito quello che dovevo fare e posso riflettere con calma, penso: ma è possibile che la nostra classe dirigente non avverta il disprezzo da cui è circondata? Ma è possibile che non ci sia uno, uno solo, tra politici, grand commis d’Etat, amici e fiancheggiatori di questa gente che non si renda conto di essere alla frutta? Ma come possono coltivare ancora impunemente questa squallida, provinciale, infantile arroganza?
Penso: ma che Paese è questo dove il senatore Colombo mandava gli agenti della sua scorta a comprargli la cocaina mentre lui aspettava sulla sua macchina blu; e che Paese deve essere la Svezia dove il Ministro degli interni (mi pare), una signora, è stata uccisa da un pazzo mentre usciva dal supermercato dove era andata a far la spesa in bicicletta? In bicicletta, capito?
Penso: ma tutte quelle macchine (Mercedes, Audi, BMW, magari blindate – forse 400.000, 500.000 euro ognuna) e quegli autisti quanto costano? E perché dobbiamo permettere a questa gente di averle? Quante case si potrebbero costruire in Abruzzo (o quante altre cose si potrebbero fare) con quei soldi?
Penso: ma se io, in un giorno, anzi in due ore, ho visto queste cose; ma cosa succederà tutti i giorni, e a ben altri livelli?
Penso: ma davvero siamo ridotti così? Ma che differenza c’è tra l’Italia e una qualsiasi dittatura africana? Forse solo il fatto che non è una dittatura sanguinaria? Che si ruba, si spreca, si mente, si fa propaganda falsa e bugiarda, si è indifferenti agli interessi del Paese; ma non si uccide?
Penso: ma cosa possiamo fare per liberarci di questa gente?
E qui mi fermo; perché non lo so cosa possiamo fare.
Io mi sono sentito obbligato, dopo lo spettacolino che vi ho descritto, a cercare un posteggio regolare, nelle strisce blu, a mettere il tagliandino con l’ora (calcolata per eccesso) di presumibile durata della sosta, ad attraversare sulle strisce pedonali e a fare la fila nell’ufficio dove dovevo sbrigare le mie cose; però ho visto molta gente, quasi tutti, che hanno lasciato la macchina in seconda o anche in terza fila e che mi sono passati avanti nella coda con qualche abile manovra.
E così alla fine penso: questa classe dirigente che fa finta di governarci ci ha conquistato o è il più limpido frutto della democrazia? Insomma, non è che abbiamo la classe dirigente che ci meritiamo?
Mafia , divieto di propaganda elettorale : il pdl alla Camera
di Mauro W. Giannini
Procede la discussione, in Commissione Giustizia alla Camera, della proposta di legge "Disposizioni concernenti il divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misure di prevenzione" presentato dalla parlamentare del PdL Angela Napoli. Nella seduta del 17 giugno, la presidente della Commissione, Giulia Bongiorno, ha avvisato che al pdl in esame sarebbero state abbinate le proposte di legge dei deputati Sabina Rossa (PD) e Nicodemo Oliverio (PD). Queste, salvo per alcuni aspetti, presentano contenuti pressoché identici alla proposta di legge Napoli.
La proposta di legge, che cerca di colpire un efficace strumento di condizionamento mafioso, quello della propaganda al momento del voto, era stata redatta circa quindici anni fa dal presidente emerito aggiunto della Corte di Cassazione Romano De Grazia e dal Centro Studi Lazzati, di cui e' fondatore. Da alcuni anni l'Osservatorio sulla legalita' e sui diritti Onlus sostiene tale progetto di legge.
Nella seduta di Comissione dell'11 giugno la relatrice Napoli ha rilevato che la proposta di legge in esame introduce nella disciplina della misura di prevenzione della sorveglianza speciale anche il divieto di svolgere propaganda elettorale in favore o in pregiudizio di candidati o di simboli, con qualsiasi mezzo, direttamente o indirettamente. Su proposta del Questore o del Procuratore della Repubblica possono essere sottoposti alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza coloro che, sulla base di elementi di fatto, sono ritenuti: abitualmente dediti a traffici delittuosi; vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; sono dediti alla commissione di reati o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubbliche; sono indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.
"Non può non stupire - ha dichiarato Napoli - che le persone sottoposte a sorveglianza speciale di polizia in forza di apposito decreto del Tribunale (tali, per esempio, gli indiziati i appartenere ala mafia o ad altre organizzazioni similari) siano per legge private dell'elettorato attivo e passivo, ma rimangano del tutto libere di svolgere propaganda elettorale e quindi di esercitare una loro influenza sul terreno politico. Circostanza questa, che offre alle stesse persone ampi spazi di pressione, soprattutto nei piccoli centri, sugli orientamenti dell'elettorato. E poiché si tratta di persone riconosciute socialmente pericolose è fin troppo evidente come, in ipotesi del genere (si pensi, soprattutto, in certe zone, ai fiancheggiatori di gruppi mafiosi), possano risultarne favoriti perversi intrecci di interesse tra le medesime e gli uomini politici ad esse legati. È questo, per l'appunto, ciò che la proposta di legge in questione vuole evitare".
"Al delinquente sottoposto a sorveglianza speciale non interessa essere di persona «dentro» l'istituzione elettiva (Comune, Provincia, Regione, Parlamento) - ha spiegato Napoli - ha invece interesse che vi sia chi lo possa aiutare o agevolare nella realizzazione di interessi specifici e particolari e, più precisamente, nella realizzazione del malaffare. Introducendo il divieto di propaganda elettorale per il sorvegliato speciale e sanzionando, nel contempo, anche la condotta del candidato che si rivolge per la propaganda al sorvegliato speciale, si recide alle origini e in maniera concreta l'intreccio delinquenza - politica e malaffare, bonificando le istituzioni. Il delinquente non può procedere alla raccolta dei voti, perdendo così il suo potere contrattuale nei confronti del politico e questi, a sua volta, non è più in alcun modo condizionato dal delinquente".
Anticipando eventuali obiezioni, la relatrice ha evidenziato che "Il divieto di propaganda elettorale non è in contrasto con i principi contenuti nella Costituzione perché: se si consente con la sorveglianza speciale di limitare la libertà personale del cittadino ed in maniera più grave con il soggiorno obbligato, a maggior ragione può inibirsi al cittadino di fare opera di propaganda elettorale, in concreto diretta a perseguire il malaffare, utilizzando le istituzioni repubblicane; il divieto non è perpetuo e ha la durata della sorveglianza speciale applicata (da uno a cinque anni); il divieto si coordina e si inserisce tra le altre prescrizioni, ancora più gravose, previste all'articolo 5, terzo comma, della legge n. 1423 del 1956; la misura, che dovrebbe prevedere anche detto divieto, è applicata con decreto emesso dal tribunale in camera di consiglio e con la rigorosa osservanza di tutte le garanzie giurisdizionali previste per l'imputato nel processo ordinario. Infatti, il soggetto proposto alla misura di prevenzione ha diritto: di essere sentito; di essere assistito da un difensore; di indicare e di produrre tutto quanto serva a sua discolpa; contro la decisione del Tribunale può ricorrere alla Corte d'appello e contro la decisione della Corte d'appello può ricorrere in Cassazione".
Per colpire efficacemente l'accordo tra delinquente e politico ed impedire ogni possibile condizionamento, attraverso le elezioni, delle istituzioni, il progetto di legge prevede la stessa sanzione per il sorvegliato speciale e il candidato (da due a cinque anni di reclusione). Per entrambi sono facoltativi l'arresto in flagranza e l'emissione di ordinanza di custodia cautelare. Per il candidato riconosciuto colpevole, inoltre, il giudice deve emettere dichiarazione di ineleggibilità. Il candidato, se eletto, decade dalla carica previa delibera dell'organo di appartenenza. L'esecuzione del provvedimento è demandata al Prefetto della provincia di residenza del candidato. È prevista, inoltre, la pubblicazione della sentenza di condanna passata in giudicato.
Nella seduta del 18 giugno, la relatrice Napoli ha sottoposto alla Commissione alcune considerazioni volte ad evidenziare la necessità di approvare un testo finalizzato a prevedere il divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misura di prevenzione, così come previsto dalle proposte in esame, che presentano contenuti pressoché identici. Napoli ritiene che sia irragionevole la circostanza che il sorvegliato speciale non abbia legittimazione elettorale attiva e passiva, ma possa partecipare attivamente a campagne elettorali: "È a tutti chiaro che il momento più delicato nei rapporti tra criminalità organizzata e politica è proprio quello della campagna elettorale. È in questa fase che si stringono rapporti sulla base dei quali esponenti della criminalità organizzata offrono voti a candidati in cambio di favori futuri, che spesso attengono al campo degli affari pubblici ed in particolare agli appalti".
Napoli non ritiene che sia sufficiente la normativa vigente per scongiurare tali rischi, ed ha spiegato che infatti l'articolo 416-ter del codice penale, "punisce il cosiddetto voto di scambio solo nel caso in cui sia comprovato lo scambio di denaro tra il candidato e l'elettore. Proprio in ragione della difficoltà di provare tale scambio ha trovato finora una scarsa applicazione la predetta disposizione, mentre nella realtà si registra una stretta collusione tra politica e criminalità organizzata proprio nella fase elettorale. È quindi necessario adottare norme che impediscano ai candidati di affidarsi per la loro campagna elettorale ai pregiudicati che hanno il controllo del territorio, che ostentano la disponibilità in fase elettorale perché certi della non punibilità".
Napoli evidenzia, come testimonianza diretta, di avere ricevuto una lettera, trasmessa al procuratore della Repubblica di Vibo Valentia, firmata da un pregiudicato sottoposto agli arresti domiciliari, nella quale veniva quantificato l'apporto del medesimo e della sua famiglia nei confronti del sindaco e del vice sindaco, che si erano recati a casa del sorvegliato speciale per ottenere voti per il rinnovo del comune di Filandari. Ricorda, inoltre, che di recente è stato commissariato il consiglio comunale di Taurianova per infiltrazioni mafiose. Come si legge in atti pubblici relativi a tale scioglimento divulgati dagli organi di informazione, durante la compagna elettorale l'ex vicesindaco "prometteva vari favori, tutti concessi dopo le elezioni, a persona sottoposta a speciale misura di prevenzione in cambio dell'influenza esercitata da questa sul corpo elettorale". La relatrice ha sottolineato, infine, che anche per le ultime elezioni europee sarebbero in corso indagini per lo scambio di voto.
Le proposte di legge in esame oltre a prevedere la punibilità del sorvegliato speciale e ad impedire lo svolgimento di attività nella campagna elettorale prevedono anche la punibilità per il candidato che se ne serve fino all'ineleggibilità del medesimo. L'on. Napoli ha rilevato che la sua proposta di legge, presentata anche nelle tre precedenti legislature, è stata sottoposta a critiche perché punisce anche il candidato. È stata paventata la possibilità di una strumentalizzazione della disposizione che si intende introdurre nell'ordinamento che si potrebbe tradurre in una manovra contro candidati facendoli surrettiziamente apparire come soggetti che si avvalgono dolosamente della campagna elettorale svolta da persone sottoposte a misure di prevenzione. In realtà, ha spiegato Napoli, tale rischio non sussiste in quanto il coinvolgimento del candidato dovrà essere provato attraverso elementi certi ed obiettivi e non, ad esempio, attraverso il mero ritrovamento di un volantino elettorale nell'abitazione di un pregiudicato. La proposta in esame, infatti, richiede che ci siano prove chiare di collusione. La deputata ha ricordato inoltre che anche noti giuristi si sono espressi favorevolmente sulla sua proposta di legge redatta dal Centro studi Lazzati di Lamezia Terme ed ha ribadito la necessità di colmare un vuoto normativo che finisce per favorire la collusione tra criminalità organizzata e politica.
La presidente Bongiorno ha dichiarato di condividere pienamente lo spirito delle proposte di legge in esame e l'intervento della relatrice appena svolto, ritenendo che il Parlamento abbia il dovere di intervenire su una materia tanto delicata come quella in esame, che ha forti ripercussioni sul rapporto tra politica e criminalità e aggiungendo che tali proposte hanno il pregio di anticipare la tutela penale a momenti antecedenti rispetto a quelli della commissione di gravi delitti. Bongiorno (che e' avvocato, ndr) non ritiene che siano assolutamente fondate le critiche ad esse apportate, in quanto la punibilità del candidato che dolosamente si avvale della campagna elettorale di soggetti per i quali la legge stabilisce un divieto in tal senso deriva dai principi generali. Nella veste di Presidente della Commissione giustizia dichiara che farà tutto ciò che rientra nella propria disponibilità affinché venga approvato celermente dalla Commissione un testo unificato delle proposte di legge in esame.
Il sottosegretario all'Interno, Michelino Davico, dopo aver dichiarato che il Governo parteciperà attivamente all'esame delle proposte di legge in esame, ha invitato la Commissione a considerare che presso la I Commissione è in corso di svolgimento l'esame di proposte di legge in materia di reati elettorali, che non toccano il tema oggetto della proposte in esame, ma che comunque investono questioni connesse ad esso, come ad esempio il termine di prescrizione dei predetti reati.
Tuttavia la presidente Bongiorno ha rilevato che il tema del divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misure di prevenzione ha una valenza tutta propria che deve essere rinvenuta nella valutazione dell'opportunità che un soggetto sottoposto a tali misure possa legittimamente influenzare l'elettorato.
Procede la discussione, in Commissione Giustizia alla Camera, della proposta di legge "Disposizioni concernenti il divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misure di prevenzione" presentato dalla parlamentare del PdL Angela Napoli. Nella seduta del 17 giugno, la presidente della Commissione, Giulia Bongiorno, ha avvisato che al pdl in esame sarebbero state abbinate le proposte di legge dei deputati Sabina Rossa (PD) e Nicodemo Oliverio (PD). Queste, salvo per alcuni aspetti, presentano contenuti pressoché identici alla proposta di legge Napoli.
La proposta di legge, che cerca di colpire un efficace strumento di condizionamento mafioso, quello della propaganda al momento del voto, era stata redatta circa quindici anni fa dal presidente emerito aggiunto della Corte di Cassazione Romano De Grazia e dal Centro Studi Lazzati, di cui e' fondatore. Da alcuni anni l'Osservatorio sulla legalita' e sui diritti Onlus sostiene tale progetto di legge.
Nella seduta di Comissione dell'11 giugno la relatrice Napoli ha rilevato che la proposta di legge in esame introduce nella disciplina della misura di prevenzione della sorveglianza speciale anche il divieto di svolgere propaganda elettorale in favore o in pregiudizio di candidati o di simboli, con qualsiasi mezzo, direttamente o indirettamente. Su proposta del Questore o del Procuratore della Repubblica possono essere sottoposti alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza coloro che, sulla base di elementi di fatto, sono ritenuti: abitualmente dediti a traffici delittuosi; vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; sono dediti alla commissione di reati o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubbliche; sono indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.
"Non può non stupire - ha dichiarato Napoli - che le persone sottoposte a sorveglianza speciale di polizia in forza di apposito decreto del Tribunale (tali, per esempio, gli indiziati i appartenere ala mafia o ad altre organizzazioni similari) siano per legge private dell'elettorato attivo e passivo, ma rimangano del tutto libere di svolgere propaganda elettorale e quindi di esercitare una loro influenza sul terreno politico. Circostanza questa, che offre alle stesse persone ampi spazi di pressione, soprattutto nei piccoli centri, sugli orientamenti dell'elettorato. E poiché si tratta di persone riconosciute socialmente pericolose è fin troppo evidente come, in ipotesi del genere (si pensi, soprattutto, in certe zone, ai fiancheggiatori di gruppi mafiosi), possano risultarne favoriti perversi intrecci di interesse tra le medesime e gli uomini politici ad esse legati. È questo, per l'appunto, ciò che la proposta di legge in questione vuole evitare".
"Al delinquente sottoposto a sorveglianza speciale non interessa essere di persona «dentro» l'istituzione elettiva (Comune, Provincia, Regione, Parlamento) - ha spiegato Napoli - ha invece interesse che vi sia chi lo possa aiutare o agevolare nella realizzazione di interessi specifici e particolari e, più precisamente, nella realizzazione del malaffare. Introducendo il divieto di propaganda elettorale per il sorvegliato speciale e sanzionando, nel contempo, anche la condotta del candidato che si rivolge per la propaganda al sorvegliato speciale, si recide alle origini e in maniera concreta l'intreccio delinquenza - politica e malaffare, bonificando le istituzioni. Il delinquente non può procedere alla raccolta dei voti, perdendo così il suo potere contrattuale nei confronti del politico e questi, a sua volta, non è più in alcun modo condizionato dal delinquente".
Anticipando eventuali obiezioni, la relatrice ha evidenziato che "Il divieto di propaganda elettorale non è in contrasto con i principi contenuti nella Costituzione perché: se si consente con la sorveglianza speciale di limitare la libertà personale del cittadino ed in maniera più grave con il soggiorno obbligato, a maggior ragione può inibirsi al cittadino di fare opera di propaganda elettorale, in concreto diretta a perseguire il malaffare, utilizzando le istituzioni repubblicane; il divieto non è perpetuo e ha la durata della sorveglianza speciale applicata (da uno a cinque anni); il divieto si coordina e si inserisce tra le altre prescrizioni, ancora più gravose, previste all'articolo 5, terzo comma, della legge n. 1423 del 1956; la misura, che dovrebbe prevedere anche detto divieto, è applicata con decreto emesso dal tribunale in camera di consiglio e con la rigorosa osservanza di tutte le garanzie giurisdizionali previste per l'imputato nel processo ordinario. Infatti, il soggetto proposto alla misura di prevenzione ha diritto: di essere sentito; di essere assistito da un difensore; di indicare e di produrre tutto quanto serva a sua discolpa; contro la decisione del Tribunale può ricorrere alla Corte d'appello e contro la decisione della Corte d'appello può ricorrere in Cassazione".
Per colpire efficacemente l'accordo tra delinquente e politico ed impedire ogni possibile condizionamento, attraverso le elezioni, delle istituzioni, il progetto di legge prevede la stessa sanzione per il sorvegliato speciale e il candidato (da due a cinque anni di reclusione). Per entrambi sono facoltativi l'arresto in flagranza e l'emissione di ordinanza di custodia cautelare. Per il candidato riconosciuto colpevole, inoltre, il giudice deve emettere dichiarazione di ineleggibilità. Il candidato, se eletto, decade dalla carica previa delibera dell'organo di appartenenza. L'esecuzione del provvedimento è demandata al Prefetto della provincia di residenza del candidato. È prevista, inoltre, la pubblicazione della sentenza di condanna passata in giudicato.
Nella seduta del 18 giugno, la relatrice Napoli ha sottoposto alla Commissione alcune considerazioni volte ad evidenziare la necessità di approvare un testo finalizzato a prevedere il divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misura di prevenzione, così come previsto dalle proposte in esame, che presentano contenuti pressoché identici. Napoli ritiene che sia irragionevole la circostanza che il sorvegliato speciale non abbia legittimazione elettorale attiva e passiva, ma possa partecipare attivamente a campagne elettorali: "È a tutti chiaro che il momento più delicato nei rapporti tra criminalità organizzata e politica è proprio quello della campagna elettorale. È in questa fase che si stringono rapporti sulla base dei quali esponenti della criminalità organizzata offrono voti a candidati in cambio di favori futuri, che spesso attengono al campo degli affari pubblici ed in particolare agli appalti".
Napoli non ritiene che sia sufficiente la normativa vigente per scongiurare tali rischi, ed ha spiegato che infatti l'articolo 416-ter del codice penale, "punisce il cosiddetto voto di scambio solo nel caso in cui sia comprovato lo scambio di denaro tra il candidato e l'elettore. Proprio in ragione della difficoltà di provare tale scambio ha trovato finora una scarsa applicazione la predetta disposizione, mentre nella realtà si registra una stretta collusione tra politica e criminalità organizzata proprio nella fase elettorale. È quindi necessario adottare norme che impediscano ai candidati di affidarsi per la loro campagna elettorale ai pregiudicati che hanno il controllo del territorio, che ostentano la disponibilità in fase elettorale perché certi della non punibilità".
Napoli evidenzia, come testimonianza diretta, di avere ricevuto una lettera, trasmessa al procuratore della Repubblica di Vibo Valentia, firmata da un pregiudicato sottoposto agli arresti domiciliari, nella quale veniva quantificato l'apporto del medesimo e della sua famiglia nei confronti del sindaco e del vice sindaco, che si erano recati a casa del sorvegliato speciale per ottenere voti per il rinnovo del comune di Filandari. Ricorda, inoltre, che di recente è stato commissariato il consiglio comunale di Taurianova per infiltrazioni mafiose. Come si legge in atti pubblici relativi a tale scioglimento divulgati dagli organi di informazione, durante la compagna elettorale l'ex vicesindaco "prometteva vari favori, tutti concessi dopo le elezioni, a persona sottoposta a speciale misura di prevenzione in cambio dell'influenza esercitata da questa sul corpo elettorale". La relatrice ha sottolineato, infine, che anche per le ultime elezioni europee sarebbero in corso indagini per lo scambio di voto.
Le proposte di legge in esame oltre a prevedere la punibilità del sorvegliato speciale e ad impedire lo svolgimento di attività nella campagna elettorale prevedono anche la punibilità per il candidato che se ne serve fino all'ineleggibilità del medesimo. L'on. Napoli ha rilevato che la sua proposta di legge, presentata anche nelle tre precedenti legislature, è stata sottoposta a critiche perché punisce anche il candidato. È stata paventata la possibilità di una strumentalizzazione della disposizione che si intende introdurre nell'ordinamento che si potrebbe tradurre in una manovra contro candidati facendoli surrettiziamente apparire come soggetti che si avvalgono dolosamente della campagna elettorale svolta da persone sottoposte a misure di prevenzione. In realtà, ha spiegato Napoli, tale rischio non sussiste in quanto il coinvolgimento del candidato dovrà essere provato attraverso elementi certi ed obiettivi e non, ad esempio, attraverso il mero ritrovamento di un volantino elettorale nell'abitazione di un pregiudicato. La proposta in esame, infatti, richiede che ci siano prove chiare di collusione. La deputata ha ricordato inoltre che anche noti giuristi si sono espressi favorevolmente sulla sua proposta di legge redatta dal Centro studi Lazzati di Lamezia Terme ed ha ribadito la necessità di colmare un vuoto normativo che finisce per favorire la collusione tra criminalità organizzata e politica.
La presidente Bongiorno ha dichiarato di condividere pienamente lo spirito delle proposte di legge in esame e l'intervento della relatrice appena svolto, ritenendo che il Parlamento abbia il dovere di intervenire su una materia tanto delicata come quella in esame, che ha forti ripercussioni sul rapporto tra politica e criminalità e aggiungendo che tali proposte hanno il pregio di anticipare la tutela penale a momenti antecedenti rispetto a quelli della commissione di gravi delitti. Bongiorno (che e' avvocato, ndr) non ritiene che siano assolutamente fondate le critiche ad esse apportate, in quanto la punibilità del candidato che dolosamente si avvale della campagna elettorale di soggetti per i quali la legge stabilisce un divieto in tal senso deriva dai principi generali. Nella veste di Presidente della Commissione giustizia dichiara che farà tutto ciò che rientra nella propria disponibilità affinché venga approvato celermente dalla Commissione un testo unificato delle proposte di legge in esame.
Il sottosegretario all'Interno, Michelino Davico, dopo aver dichiarato che il Governo parteciperà attivamente all'esame delle proposte di legge in esame, ha invitato la Commissione a considerare che presso la I Commissione è in corso di svolgimento l'esame di proposte di legge in materia di reati elettorali, che non toccano il tema oggetto della proposte in esame, ma che comunque investono questioni connesse ad esso, come ad esempio il termine di prescrizione dei predetti reati.
Tuttavia la presidente Bongiorno ha rilevato che il tema del divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misure di prevenzione ha una valenza tutta propria che deve essere rinvenuta nella valutazione dell'opportunità che un soggetto sottoposto a tali misure possa legittimamente influenzare l'elettorato.
Per la rubrica “forse non tutti sanno che”…
Postato il 25 giugno 2009 da Luca Rinaldi
C’è un direttore di un TG della Tv pubblica, che, oltre ad infischiarsene dell’informazione, percepisce per giunta due stipendi. Uno regolarmente pagato dai contribuenti che pagano il canone Rai per NON avere un servizio, l’altro lo percepisce da Mondadori, editore di Panorama di proprietà dell’altrà metà del mezzo televisivo italiano e Presidente del Consiglio: Silvio Berlusconi.
Augusto Minzolini, in barba alle norme contrattuali previste dalla Rai, settimanalmente delizia il pubblico con la sua rubrica politica “Il peggiore”. Tralasciando in un primo momento ciò che scrive su carta, ci si pone una domanda: si può accettare che il direttore del TG1 tenga una rubrica su un settimanale come Panorama dal chiaro schieramento politico? Come si può pretendere che il sig. Minzolini possa dare un’impronta di informazione completa al suo TG quando uno dei suoi “padroni” è a capo del governo?
Minzolini poi appare in tv col faccione che riempie lo schermo e giustifica l’assenza dell’inchiesta di Bari perchè gossip. Se è gossip un presunto giro di prostituzione e induzione alla prostituzione, se è gossip un caso di appalti sanitari pilotati, se è gossip un casso di traffico di cocaina come uscito dalle intercettazioni di tale Nicola D. e l’imprenditore coinvolto Nicola Tarantini.
Tralasciando il premier e il chiacchiericcio cui si riferisce Minzolini nel suo comunicato andato in onda lunedì 22 giugno nel TG delle ore 20, non ci sembra gossip. Ci sembra un’inchiesta piuttosto seria che rivela una saldatura anche abbastanza evidente tra la politica, la criminalità organizzata o comunque giri poco chiari (per utilizzare un eufemismo neutrale) e l’assegnazione degli appalti, da sempre roccaforte delle collusioni.
Se vi sembra corretto che il direttore di un telegiornale pubblico lavori per informare le persone e lo faccia sotto l’influenza, non solo del governo (che non garantisce, come osservato sopra, una libera informazione), ma addirittura dall’editore di un’emittente privata che, verosimilmente punta sempre a fare i propri interessi, allora è il caso di rivedere che concetto gli italiani abbiano dell’informazione e del diritto ad informarsi.
A questo punto, secondo un mio modestissimo punto di vista questo Minzolini, che sembra sempre più il porno-attore Trentalance, ed il suo “minzolinismo” potrebbero tranquillamente trasferirsi completamente a Mondadori e continuare a fare informazione filo-governativa lasciando a qualcun’altro, che magari percepisce un solo stipendio come direttore di TG, la direzione del TG1.
photo credit: http://www.flickr.com/photos/23206436@N03/2971375582/
C’è un direttore di un TG della Tv pubblica, che, oltre ad infischiarsene dell’informazione, percepisce per giunta due stipendi. Uno regolarmente pagato dai contribuenti che pagano il canone Rai per NON avere un servizio, l’altro lo percepisce da Mondadori, editore di Panorama di proprietà dell’altrà metà del mezzo televisivo italiano e Presidente del Consiglio: Silvio Berlusconi.
Augusto Minzolini, in barba alle norme contrattuali previste dalla Rai, settimanalmente delizia il pubblico con la sua rubrica politica “Il peggiore”. Tralasciando in un primo momento ciò che scrive su carta, ci si pone una domanda: si può accettare che il direttore del TG1 tenga una rubrica su un settimanale come Panorama dal chiaro schieramento politico? Come si può pretendere che il sig. Minzolini possa dare un’impronta di informazione completa al suo TG quando uno dei suoi “padroni” è a capo del governo?
Minzolini poi appare in tv col faccione che riempie lo schermo e giustifica l’assenza dell’inchiesta di Bari perchè gossip. Se è gossip un presunto giro di prostituzione e induzione alla prostituzione, se è gossip un caso di appalti sanitari pilotati, se è gossip un casso di traffico di cocaina come uscito dalle intercettazioni di tale Nicola D. e l’imprenditore coinvolto Nicola Tarantini.
Tralasciando il premier e il chiacchiericcio cui si riferisce Minzolini nel suo comunicato andato in onda lunedì 22 giugno nel TG delle ore 20, non ci sembra gossip. Ci sembra un’inchiesta piuttosto seria che rivela una saldatura anche abbastanza evidente tra la politica, la criminalità organizzata o comunque giri poco chiari (per utilizzare un eufemismo neutrale) e l’assegnazione degli appalti, da sempre roccaforte delle collusioni.
Se vi sembra corretto che il direttore di un telegiornale pubblico lavori per informare le persone e lo faccia sotto l’influenza, non solo del governo (che non garantisce, come osservato sopra, una libera informazione), ma addirittura dall’editore di un’emittente privata che, verosimilmente punta sempre a fare i propri interessi, allora è il caso di rivedere che concetto gli italiani abbiano dell’informazione e del diritto ad informarsi.
A questo punto, secondo un mio modestissimo punto di vista questo Minzolini, che sembra sempre più il porno-attore Trentalance, ed il suo “minzolinismo” potrebbero tranquillamente trasferirsi completamente a Mondadori e continuare a fare informazione filo-governativa lasciando a qualcun’altro, che magari percepisce un solo stipendio come direttore di TG, la direzione del TG1.
photo credit: http://www.flickr.com/photos/23206436@N03/2971375582/
Scientology: l’inchiesta del St Petersburg Times
Postato il 25 giugno 2009 da Francesco Contini
“The truth rundown”, ovvero “il resoconto della verità“, titola l’inchiesta del St Petersburg Times, che, tramite la testimonianza di quattro fuoriusciti dalla setta di Scientology, muove pesanti accuse al suo leader, David Miscavige, ed alla stessa organizzazione.
[Paragrafi seguenti tratti da Wikipedia]
Scientology è un movimento a sfondo religioso fondato da L. Ron Hubbard nel 1954. Secondo fonti interne, al 2005, ma fonti esterne riducono la cifra a circa cinquecentomila. conterebbe otto milioni di praticanti
Che sia corretto definire Scientology una religione è argomento di dibattito. Giuridicamente, lo status di religione viene accordato a Scientology solo da alcune nazioni (per esempio Stati Uniti e Australia); in Europa la tendenza generale è quella di considerarla una “organizzazione”, un “movimento”, un “culto”, una “setta”, ma non una “chiesa” nella comune accezione del termine.
Il quartier generale si trova nella cittadina statunitense di Clearwater. Dopo la morte di Hubbard nel 1986 (o, secondo la credenza diffusa in Scientology, dopo la sua volontaria decisione di abbandonare la Terra) il movimento è guidato da David Miscavige.
L. Ron Hubbard narra che nei suoi viaggi extracorporei per l’universo avrebbe scoperto che i guai degli esseri umani odierni deriverebbero da una punizione inflitta all’umanità 75 milioni di anni fa da Xenu, un crudele governatore della galassia: per limitare la popolazione e accrescere il suo potere, Xenu ordinò ai suoi ufficiali di catturare esseri della natura più svariata da vari pianeti, congelarli in alcool e glicole e lasciare miliardi di questi “grappoli” di esseri sulla Terra, da spazioplani che assomigliavano ai DC8. Si specifica che alcuni di questi malcapitati esseri furono catturati con una falsa convocazione per una indagine del fisco.
Questi esseri furono incatenati vicino a dieci vulcani sulla Terra e uccisi bombardandoli con ordigni all’idrogeno per catturare i loro thetan (spiriti) e raccoglierli con nastri elettronici, quindi furono trasportati alle Hawaii o a Las Palmas: qui vennero sottoposti a 36 giorni di induzione ipnotica con fili e altre semplici apparecchiature (nel loro stato di shock erano sufficienti): le induzioni ipnotiche contenevano perversioni sessuali e varie nozioni religiose come la morte in croce di Cristo, per fare in modo che gli spiriti non potessero lasciare la Terra e non ricordassero mai i crimini perpetrati da Xenu. Ma ormai era tardi: scoppiò la rivolta e Xenu venne imprigionato (lo sarebbe tuttora) su un ignoto pianeta orbitante intorno a una delle stelle visibili dalla Terra, dentro una montagna circondata da un campo magnetico generato da una batteria eterna.
Ormai però il danno era già fatto: negli ultimi 75 milioni di anni questi thetan impiantati si sono attaccati a migliaia agli esseri umani qui sulla Terra, e sono i body thetan impacchettati insieme a grappoli (clusters).
Secondo OT3, tutti sulla Terra sono degli insiemi di questi grappoli: Hubbard diceva che ogni persona che arriva ad essere OT3 ne troverà centinaia, e molti Scientologisti dicono di trovarne milioni. A OT3 lo scientologista trova i body thetans individuando sul corpo le sensazioni di pressione o di massa non riferibili a nulla di fisico. Il grappolo viene poi guidato telepaticamente e gli viene fatto rivivere l’incidente che lo ha creato 75 milioni di anni fa. Con tecniche prescritte da Hubbard, i membri della Chiesa entrano in contatto telepatico con questi thetan e gli fanno ricordare i crimini di Xenu. In questo modo, secondo Hubbard, i thetan si staccano e possono incarnarsi in altri corpi ed entrare in uno dei giochi della vita (i thetan pensano di essere degli individui solo se incarnati in un corpo: nel mondo in cui viviamo, giacché i thetan hanno dimenticato la loro autentica identità spirituale, essi credono di essere soltanto dei corpi).
I governi di Svizzera (Rapporto della Commissione Consultiva della Sicurezza dello Stato. Luglio 1998), Germania (Rapporto Jaschke del 1995 e Cosiddette Sette e Psicogruppi, rapporto finale presentato al Governo dal Parlamento Tedesco, giugno 1998) e Belgio definiscono ufficialmente Scientology come un culto totalitario. In Germania, in particolare, nel dicembre del 2007, il ministro dell’Interno tedesco Wolfgang Schäuble e i responsabili dell’Interno dei 16 stati federali hanno concordato di “non considerare Scientology un’organizzazione compatibile con la costituzione” aprendo quindi la strada per una possibile messa al bando dell’organizzazione [32].
In Francia, un documento parlamentare (Rapporto Guyard prodotto nel 1995 [33]) ha classificato la chiesa come un culto pericoloso; in Gran Bretagna, Scientology non raggiunge gli standard legali per essere considerata una religione. In Grecia un’inchiesta partita nel 1995 ha portato alla condanna in tribunale e conseguente smantellamento dell’organizzazione avvenuto nel gennaio 1997. Lo status di Scientology continua ad essere fonte di controversie in molti paesi nel mondo e Scientology stessa tende a presentarsi come religione o negando di esserla a seconda delle norme vigenti nel Paese. Lo stesso Parlamento europeo nel 1997 si è occupato del fenomeno settario in Europa. Nella relazione viene più volte citata Scientology come esempio di setta. [34]
Criticata a più riprese per gli onerosi corsi offerti ai suoi fedeli (necessari per evolversi su un grado più alto di conoscenza e di valore intrinseco), Scientology è stata spesso accusata e a volte condannata anche per maltrattamenti minorili, ricatti ed estorsioni, minacce ed evasioni fiscali. Oltre a ciò Hubbard si è lasciato andare negli anni a discutibili manifestazioni di apprezzamento verso il regime greco dei colonnelli e l’Apartheid sudafricano.
Hubbard, al di fuori della cerchia di venerazione di cui ha goduto presso i suoi seguaci, è stato definito come un bugiardo patologico (la definizione di “bugiardo patologico” fu data da un giudice statunitense in corte [35] ), se non addirittura un malato di mente; si è sostenuto minasse la libertà di critica con i suoi sistemi educativi.
Le numerose accuse che hanno colpito la setta di Scientology si arricchiscono di un nuovo paragrafo grazie all’inchiesta del St Petersburg Times, nella quale si parla di David Miscavige come di un uomo violento, crudele e minaccioso, e si accusa la stessa setta di aver nascosto o distrutto alcune prove riguardo la morte di una donna che era stata sottoposta alle pratiche psichiatriche degli scientologisti.
“The truth rundown”, ovvero “il resoconto della verità“, titola l’inchiesta del St Petersburg Times, che, tramite la testimonianza di quattro fuoriusciti dalla setta di Scientology, muove pesanti accuse al suo leader, David Miscavige, ed alla stessa organizzazione.
[Paragrafi seguenti tratti da Wikipedia]
Scientology è un movimento a sfondo religioso fondato da L. Ron Hubbard nel 1954. Secondo fonti interne, al 2005, ma fonti esterne riducono la cifra a circa cinquecentomila. conterebbe otto milioni di praticanti
Che sia corretto definire Scientology una religione è argomento di dibattito. Giuridicamente, lo status di religione viene accordato a Scientology solo da alcune nazioni (per esempio Stati Uniti e Australia); in Europa la tendenza generale è quella di considerarla una “organizzazione”, un “movimento”, un “culto”, una “setta”, ma non una “chiesa” nella comune accezione del termine.
Il quartier generale si trova nella cittadina statunitense di Clearwater. Dopo la morte di Hubbard nel 1986 (o, secondo la credenza diffusa in Scientology, dopo la sua volontaria decisione di abbandonare la Terra) il movimento è guidato da David Miscavige.
L. Ron Hubbard narra che nei suoi viaggi extracorporei per l’universo avrebbe scoperto che i guai degli esseri umani odierni deriverebbero da una punizione inflitta all’umanità 75 milioni di anni fa da Xenu, un crudele governatore della galassia: per limitare la popolazione e accrescere il suo potere, Xenu ordinò ai suoi ufficiali di catturare esseri della natura più svariata da vari pianeti, congelarli in alcool e glicole e lasciare miliardi di questi “grappoli” di esseri sulla Terra, da spazioplani che assomigliavano ai DC8. Si specifica che alcuni di questi malcapitati esseri furono catturati con una falsa convocazione per una indagine del fisco.
Questi esseri furono incatenati vicino a dieci vulcani sulla Terra e uccisi bombardandoli con ordigni all’idrogeno per catturare i loro thetan (spiriti) e raccoglierli con nastri elettronici, quindi furono trasportati alle Hawaii o a Las Palmas: qui vennero sottoposti a 36 giorni di induzione ipnotica con fili e altre semplici apparecchiature (nel loro stato di shock erano sufficienti): le induzioni ipnotiche contenevano perversioni sessuali e varie nozioni religiose come la morte in croce di Cristo, per fare in modo che gli spiriti non potessero lasciare la Terra e non ricordassero mai i crimini perpetrati da Xenu. Ma ormai era tardi: scoppiò la rivolta e Xenu venne imprigionato (lo sarebbe tuttora) su un ignoto pianeta orbitante intorno a una delle stelle visibili dalla Terra, dentro una montagna circondata da un campo magnetico generato da una batteria eterna.
Ormai però il danno era già fatto: negli ultimi 75 milioni di anni questi thetan impiantati si sono attaccati a migliaia agli esseri umani qui sulla Terra, e sono i body thetan impacchettati insieme a grappoli (clusters).
Secondo OT3, tutti sulla Terra sono degli insiemi di questi grappoli: Hubbard diceva che ogni persona che arriva ad essere OT3 ne troverà centinaia, e molti Scientologisti dicono di trovarne milioni. A OT3 lo scientologista trova i body thetans individuando sul corpo le sensazioni di pressione o di massa non riferibili a nulla di fisico. Il grappolo viene poi guidato telepaticamente e gli viene fatto rivivere l’incidente che lo ha creato 75 milioni di anni fa. Con tecniche prescritte da Hubbard, i membri della Chiesa entrano in contatto telepatico con questi thetan e gli fanno ricordare i crimini di Xenu. In questo modo, secondo Hubbard, i thetan si staccano e possono incarnarsi in altri corpi ed entrare in uno dei giochi della vita (i thetan pensano di essere degli individui solo se incarnati in un corpo: nel mondo in cui viviamo, giacché i thetan hanno dimenticato la loro autentica identità spirituale, essi credono di essere soltanto dei corpi).
I governi di Svizzera (Rapporto della Commissione Consultiva della Sicurezza dello Stato. Luglio 1998), Germania (Rapporto Jaschke del 1995 e Cosiddette Sette e Psicogruppi, rapporto finale presentato al Governo dal Parlamento Tedesco, giugno 1998) e Belgio definiscono ufficialmente Scientology come un culto totalitario. In Germania, in particolare, nel dicembre del 2007, il ministro dell’Interno tedesco Wolfgang Schäuble e i responsabili dell’Interno dei 16 stati federali hanno concordato di “non considerare Scientology un’organizzazione compatibile con la costituzione” aprendo quindi la strada per una possibile messa al bando dell’organizzazione [32].
In Francia, un documento parlamentare (Rapporto Guyard prodotto nel 1995 [33]) ha classificato la chiesa come un culto pericoloso; in Gran Bretagna, Scientology non raggiunge gli standard legali per essere considerata una religione. In Grecia un’inchiesta partita nel 1995 ha portato alla condanna in tribunale e conseguente smantellamento dell’organizzazione avvenuto nel gennaio 1997. Lo status di Scientology continua ad essere fonte di controversie in molti paesi nel mondo e Scientology stessa tende a presentarsi come religione o negando di esserla a seconda delle norme vigenti nel Paese. Lo stesso Parlamento europeo nel 1997 si è occupato del fenomeno settario in Europa. Nella relazione viene più volte citata Scientology come esempio di setta. [34]
Criticata a più riprese per gli onerosi corsi offerti ai suoi fedeli (necessari per evolversi su un grado più alto di conoscenza e di valore intrinseco), Scientology è stata spesso accusata e a volte condannata anche per maltrattamenti minorili, ricatti ed estorsioni, minacce ed evasioni fiscali. Oltre a ciò Hubbard si è lasciato andare negli anni a discutibili manifestazioni di apprezzamento verso il regime greco dei colonnelli e l’Apartheid sudafricano.
Hubbard, al di fuori della cerchia di venerazione di cui ha goduto presso i suoi seguaci, è stato definito come un bugiardo patologico (la definizione di “bugiardo patologico” fu data da un giudice statunitense in corte [35] ), se non addirittura un malato di mente; si è sostenuto minasse la libertà di critica con i suoi sistemi educativi.
Le numerose accuse che hanno colpito la setta di Scientology si arricchiscono di un nuovo paragrafo grazie all’inchiesta del St Petersburg Times, nella quale si parla di David Miscavige come di un uomo violento, crudele e minaccioso, e si accusa la stessa setta di aver nascosto o distrutto alcune prove riguardo la morte di una donna che era stata sottoposta alle pratiche psichiatriche degli scientologisti.
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