Aldo Capitini e l'obiezione di coscienza
di Sergio Albesano
Aldo Capitini maturò lentamente la scelta per la nonviolenza. Da adolescente visse l'esperienza del futurismo, della poesia crepuscolare e del dannunzianesimo e la cultura che permeava l'Italia di allora lo rese inconsapevolmente nazionalista ed interventista. Nel 1915 insieme ai suoi coetanei andò a salutare con entusiasmo i professori che partivano per il fronte, mentre a lui soltanto la gracile costituzione evitò il servizio militare e la guerra. La sua grande trasformazione ideologica avvenne fra il 1918 ed il 1919 quando abbandonò le idee nazionaliste e considerò la guerra "in rapporto, meno con la nazione, e piu' con l'umanita' sofferente"; iniziò allora ad apprezzare i fondamenti del socialismo, mentre gia' da qualche anno aveva abbandonato la pratica della religione cattolica. Terminato l'istituto tecnico, si mise a studiare da autodidatta il latino ed il greco, i grandi autori classici ed i testi sacri del cristianesimo. L'intenso sforzo intellettivo gli causò un esaurimento psico-fisico. Per ritrovare la salute accettò un posto da precettore nella campagna umbra. Partecipò poco agli avvenimenti politici, in quanto la sua fu una formazione principalmente interiore, ma il dramma che visse l'Italia in quegli anni (la marcia su Roma, l'uccisione di Matteotti, l'avvento della dittatura) rafforzò la sua totale avversione al fascismo.
Nel 1924 ottenne come esterno la licenza liceale e grazie ad una borsa di studio si iscrisse alla Facolta' di Lettere e Filosofia all'università di Pisa. Alla Normale si legò d'amicizia con studenti e professori avversi al fascismo, pur senza attivarsi personalmente in politica. Si laureò nel 1928 con pieni voti e lode. La firma dei Patti Lateranensi avvenuta l'anno seguente approfondi' il suo distacco sia verso l'istituzione romana, colpevole di essersi rivelata ancora una volta "alleata dei tiranni", sia verso il fascismo, l'avversione al quale divenne non piu' solo politica, ma anche religiosa. Contemporaneamente Capitini ricercò la forza interiore negli spiriti religiosi puri, quali Cristo, Buddha, San Francesco, Gandhi. In particolare fu ammiratore di San Francesco d'Assisi, rimanendo colpito dal fatto che egli reintrodusse nella spiritualita' cristiana il tema della nonviolenza: il metodo di San Francesco fu "quello di andare a parlare con i saraceni piuttosto che sterminarli nelle Crociate, nelle quali il sangue talvolta arrivava ai ginocchi" ().
Ma soprattutto fu ammiratore di Gandhi. In lui trovò lo spirito di tolleranza verso le altre religioni ed il senso che ogni lotta per la libertà è anche una lotta religiosa (). Capitini confrontò Gandhi con Mazzini ed evidenziò che quest'ultimo fu troppo ligio allo Stato ed ai mezzi (tra cui la violenza) di cui lo Stato si serve per raggiungere i propri scopi; inoltre, mentre Gandhi scosse e liberò l'India, Mazzini non riusci' a formare se non piccoli gruppi di cospiratori ().
Capitini iniziò a lavorare alla Normale di Pisa, chiamato da Gentile, ma, invitato dal vicedirettore della scuola ad inviare un telegramma di congratulazioni a Mussolini, rifiutò decisamente. In questo periodo approfondi' la conoscenza del metodo nonviolento di Gandhi e contemporaneamente divenne vegetariano; tale scelta accentuò la tensione esistente fra lui e Gentile. Nel 1933 rifiutò di prendere la tessera del Partito Fascista e per questo motivo venne allontanato dal suo posto alla Normale. Ritornò a Perugia dove visse poveramente impartendo lezioni private; nello stesso tempo creò una fitta rete di amicizie, costituendo gruppi antifascisti a Firenze ed a Roma, e collaborò con intellettuali come Leone Ginzburg ed Elio Vittorini.
Fu presentato anche a Benedetto Croce, il quale benché su posizioni diverse dalle sue lo aiutò a pubblicare i suoi scritti presso l'editore Laterza. Così nel 1937 uscì il libro Elementi di un'esperienza religiosa, che ebbe successo tra gli antifascisti, sebbene non furono molti ad accogliere le tesi dell'autore sulla nonviolenza, sulla non collaborazione e sulla libera religiosità. Nel 1940 a Bologna Capitini organizzò gli anti-littoriali, cioé riunioni serali affollatissime di antifascisti che si svolgevano nei giorni stessi dei littoriali fascisti. Egli fu dunque uno dei protagonisti della Resistenza interna ed al riguardo inventò una formula nuova: il liberalsocialismo. Ma quando i suoi compagni confluirono in un partito, il Partito d'Azione, Capitini non vi aderì e preferì restare da solo. Considerava infatti il suo liberalsocialismo l'insegna non di un partito in nuce, ma di un movimento etico-religioso, che mirava ad un rinnovamento piu' profondo, non soltanto sociale ma morale, cui non sarebbe stata adatta la forma di partito. Egli ne fu uno dei fondatori nel 1937 insieme con Guido Calogero, ma tenne sempre a distinguere il suo liberalsocialismo da quello degli altri compagni per l'impegno etico-religioso e non soltanto politico di cui l'aveva animato. Il movimento non si sarebbe mai dovuto trasformare in partito: era "un atteggiamento dell'anima, un aprirsi in una direzione, una certezza ed una speranza sempre rinnovantisi, (...) un orientamento della coscienza" ().
"Beninteso, non era soltanto questo: era anche un'ideologia. Ma anche in quanto ideologia, il liberalsocialismo di Capitini rappresentò una corrente di minoranza, quasi un'eresia, che si richiamava più alla "rivoluzione liberale" di Piero Gobetti che non al "socialismo liberale" di Carlo Rosselli. La differenza sta nella diversa valutazione del comunismo e quindi nel diverso atteggiamento di fronte all'Unione Sovietica. Il socialismo liberale stava al di qua del comunismo: Capitini si mostrò sempre piu' convinto col passar degli anni che il comunismo, nel suo aspetto economico di eliminazione del capitalismo, cioe' di collettivismo, fosse una tappa obbligata del progresso storico e si dovesse quindi non evitarlo ma trarlo alle sue estreme conseguenze, non negarlo ma condurlo a compimento: insomma, ancora una volta, non stare al di qua ma andare al di là. Racchiuse il suo programma politico in questa formula: 'Massima libertà' sul piano giuridico e culturale e massimo socialismo sul piano economico" (). Norberto Bobbio, intervista dall'autore, afferma che in quegli anni non si parlava ancora di nonviolenza, perché si viveva in una società violenta che non lasciava spazio alla ricerca concreta di modelli alternativi di lotta politica.
Il liberalsocialismo fu un amalgama di correnti di pensiero con ispirazioni ideologiche diverse. Una di esse confluì poi nel Partito d'Azione e scelse quindi la via della lotta armata, ma non si deve confondere il movimento con le opzioni attuate da una sua parte e perciò fu possibile la coesistenza nel liberalsocialismo contemporaneamente di uomini che decisero di opporsi al fascismo in modi fra loro opposti.
Nel febbraio 1942 Capitini venne arrestato e fu detenuto per quattro mesi nel carcere delle Murate di Firenze, condividendo la cella con Guido Calogero. Nel maggio 1943 fu nuovamente arrestato a Perugia e venne liberato il 25 luglio. Tutto sommato il fascismo si comportò in maniera piuttosto delicata con lui e forse ciò accadde per motivi politici. Egli, infatti, era un gandhiano ed il regime sosteneva Gandhi contro gli inglesi; pertanto Mussolini non aveva interesse a perseguitarlo con durezza. Le sue idee nonviolente non fecero però presa fra gli amici, che comunque le rispettavano. Quando l'antifascismo si trasformò in rivolta armata, Capitini non partecipò al movimento partigiano e si dovette nascondere nella campagna per sfuggire ai tedeschi fino al 20 giugno 1944 quando Perugia venne liberata. Probabilmente si aprì allora per lui un periodo difficile. Infatti è una situazione spiacevole quella in cui la coerenza alle proprie idee porta a scelte comode. D'altro canto Capitini aveva coscienza del fatto che per arrivare alla società nuova il passaggio poteva essere compiuto con la violenza. Una violenza, però che si contrapponesse a quella fascista e servisse solo per liberare e non per opprimere. Ciò divenne inevitabile quando il fascismo portò gli italiani in guerra e dopo tanti errori politici e militari vennero l'armistizio, l'8 settembre e l'occupazione tedesca.
Capitini non condannò mai la violenza partigiana. "A me", diceva "nell'incontro con i giovani importava che si formassero una coscienza. La decisione violenta o la decisione nonviolenta era secondaria". Egli non vide contraddizione nel fatto che alcuni fossero stati mossi da un libro di nonviolenza e poi fossero diventati partigiani, perché, pensava, chi sceglie la nonviolenza vuole soprattutto che si prenda l'iniziativa secondo coscienza. In effetti l'opera di Capitini aveva avuto influenza sui giovani e la sua attività clandestina nel periodo 1932-43 aveva fatto affluire nuove energie nella lotta armata della Resistenza, di cui egli aveva formato moralmente ed ideologicamente molti fra i quadri migliori ().
Coloro che ebbero più riserve nei suoi confronti furono i comunisti, che stabilivano una correlazione diretta fra chi non si era opposto con le armi al nazi-fascismo ed una sorta di collaborazionismo con il regime. Ciò nonostante egli aderi' al Fronte Democratico Popolare, ma le sue proposte di indire assemblee popolari "nonviolente e ragionanti" non furono ascoltate. In un articolo del marzo 1948, ad un mese dalle elezioni, Capitini mostrava la speranza che il Fronte Democratico Popolare potesse accogliere la sua proposta di istituire il servizio civile e quella di un ministero della pace o almeno di un Commissariato per la "Resistenza alla guerra". "La sua proposta era destinata ovviamente al naufragio dopo il risultato elettorale, da cui la sinistra usci' sconfitta. Ma nonostante le illusioni di Capitini, quanti nella sinistra avvertivano l'urgenza di istituire un Ministero della Pace e di introdurre il servizio civile alternativo a quello militare? Certo, se con la vittoria del Fronte Popolare un sentiero seppur impervio poteva essere intrapreso, ora la strada era bloccata" ().
In un articolo dell'estate intitolato Opposizione alla guerra () egli registrò le sue sconsolate annotazioni sulla "pericolosita' del governo uscito dal 18 aprile". "Da parte governativa", scriveva "le cose vanno peggiorando. Al bilancio dello Stato per il 1948-49 e' stata messa la somma di duecentocinquantasei miliardi per le spese militari. (...) C'e' tutto un ravvivarsi di sollecitazioni militari, di cerimonie, sfilate, comandi secchi, rombo di carri armati. (...) Il governo, dunque, e la politica dirigente l'Italia non danno garanzie di 'opposizione alla guerra'" ().
Dopo la liberazione le sue idee personali, condite di forti convincimenti religiosi, lo allontanarono da coloro che un tempo gli erano stati compagni. Egli non aderì a nessun partito e per definire se stesso fu il primo ad usare il temine "indipendente di sinistra". Ritornò all'università di Pisa, ma alla richiesta avanzata a nome della scuola da Luigi Russo, allora direttore, di nominare Capitini vicedirettore il Ministro della Pubblica Istruzione si oppose seccamente. Capitini comunque si prodigò per seminare nell'Italia ormai libera le sue idee nonviolente e di rinnovamento religioso, organizzando comitati pacifisti di resistenza alla guerra. Nel succitato articolo Opposizione alla guerra egli riassunse i problemi e le proposte presentate ai convegni: "Continuare il collegamento fra tutte le attivita' italiane per la pace; pubblicare un bollettino mensile di informazione delle iniziative, dei libri sull'argomento, dei giornali ed opuscoli (che sono gia' molti, tra gli altri un ottimo opuscolo degli anarchici); invitare deputati e senatori a costituire un gruppo parlamentare per la pace assoluta; sollecitare una legge per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza; mettere allo studio l'istituzione di un servizio civile di lavoro a fianco del servizio militare per cui i giovani chiamati possano scegliere; stabilire un comitato di assistenza ai perseguitati italiani e stranieri; fare una campagna contro il giocattolo militare; diffondere la conoscenza di Gandhi; interessare il popolo e specialmente le madri all'opposizione alla guerra, mediante un'azione che propaghi il metodo della libera discussione tenuto nei C.O.S., cioe' di due persone che in qualsiasi luogo, piazza di citta' o di villaggio, treno, scuola o in sala apposita, cominciano una discussione ad alta voce ammettendo il libero intervento di tutti; in questo modo si crea un interessamento generale e si formano gruppi di oppositori".
Colpisce, però, il modo in cui Capitini fu trattato dalla nuova Repubblica ed al riguardo è illuminante consultare la schedatura dell'intellettuale effettuata dalla Questura di Perugia dal 1930 al 1968. Se si comprende la schedatura fascista, più difficile da spiegare è quella repubblicana, soprattutto quando è evidente che un cittadino che si batteva per un futuro migliore per il Paese veniva trattato con stupidità crudele e con compiaciuto e brutale disprezzo. Come quando un maresciallo di Pubblica Sicurezza di Perugia nel marzo 1949 scriveva che Capitini "è elemento 'sinistroide' contrario alla guerra (...) spietato critico della religione cattolica" e che "non gode buona estimazione nel pubblico per le sue idee da squinternato" ().
L'interesse di Aldo Capitini per l'obiezione di coscienza, che egli definiva obiezione al "servizio dell'uccisione militare", si può far risalire alla sua amicizia con Claudio Baglietto, il giovane allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, rifiutatosi di vestire la divisa nel '32 e morto esule nel '40. Capitini, pur non sottovalutando i motivi politici che possono spingere all'obiezione, esaltava le motivazioni religiose, poiché secondo lui la religione aggiunge una forza vincolante, nel suo linguaggio una "persuasione", che pare inaccessibile alla sola ragione ().
In quegli anni iniziò a nascere un piccolo interesse per l'obiezione, anche se in un ambito ristrettissimo. Lo testimoniano alcune lettere dell'ottobre e novembre 1947, presenti nei carteggi di Capitini custodite dalla Fondazione omonima di Perugia, con alcuni amici, in cui si parla di un volantino che doveva essere preparato e che doveva riferirsi anche all'obiezione di coscienza, seppure in termini molto sottintesi, probabilmente per non incorrere nei rigori della legge.
All'inizio del 1949 l'opinione pubblica italiana venne a conoscenza dell'obiezione professata da Pietro Pinna. Il giovane aveva incontrato casualmente Aldo Capitini in un convegno del Movimento di Religione tenutosi a Ferrara nel corso del 1948. In quell'occasione Capitini aveva parlato anche di obiezione di coscienza e Pinna era stato affascinato dalle sue idee di opposizione alla guerra. Gli scrisse diverse volte, parlandogli del suo proposito di obiettare, ma Capitini per non influenzarlo nella sua scelta carica di conseguenze dolorose non gli rispose, se non dopo che il giovane fu posto in prigione, quando si attivò vivacemente per far conoscere il suo caso all'opinione pubblica. Pertanto il giovane arrivò a prendere la sua decisione in maniera lenta e spontanea. Pinna comprese perfettamente lo scrupolo dell'intellettuale nel rispondergli. Infatti in seguito gli scrisse queste parole: "Voglia credermi in buona fede quando Le dico che allorché scrissi la mia prima lettera la decisione era ormai matura in me. Si trattava soltanto di dar tempo di morire a quella parte di materialità che stava ancora attaccata alla decisione presa". Il 13 febbraio 1949 Capitini gli rispondeva: "Ho avuto le Sue lettere e rispondo assicurando che di ciò che Le accade ho informato molti, anche un parlamentare. Lei ha capito che non ho voluto influire sulla Sua decisione, sapendo bene i dolori che Le verranno per la Sua idea, che è anche quella di Silvano Balboni e mia. Poteva essere comodo, dallo stato in cui ora mi trovo, immune da tale obbligo, al quale contrasterei con la stessa fermezza che Lei dimostra, esortare ad incontrare le punizioni che una legge incivile assegna".
Dopo la presa di posizione di Pinna, Capitini si prodigò perché il suo caso non restasse sconosciuto: scrisse ad amici parlamentari, interessò pacifisti italiani ed esteri, intervenenne sulla stampa e prese le sue parti di fronte al Tribunale Militare di Torino, essendo teste, per l'ideologia, insieme ad Umberto Calosso e a Edmondo Marcucci. "Se forse senza di lui il problema avrebbe ugualmente toccato un pò di opinione pubblica, certamente, senza quel suo apporto, il tema dell'obiezione di coscienza non avrebbe fatto quegli immediati e sicuri progressi, acquistato quel rilievo e quel credito da imporsi come problema davanti alla nazione" (). Da quel momento Capitini assunse un impegno costante a sostegno degli obiettori (). E' interessante, però, osservare al riguardo come per l'intellettuale umbro il problema dell'obiezione non si limitasse ad una lotta giuridica; per lui doveva trattarsi di un vero e proprio cambiamento di mentalità. Scriveva infatti: "I due aspetti dell'obiezione di coscienza sono: quello legale (arrivare ad una legge che riconosca l'obiezione di coscienza); quello piu' propriamente morale e religioso (iniziare coerentemente un atteggiamento dell'animo diverso da quello di fare la guerra, dell'armarsi, dell'uccidere)" ().
La prima proposta di legge volta a riconoscere gli obiettori di coscienza fu presentata dagli onorevoli Calosso e Giordani. Essa aveva diversi difetti. Ad esempio nell'art. 1 veniva demandata la capacità di giudizio sul riconoscimento dell'obiezione ad un tribunale militare, cioé ad un organo non obiettivo e sopra le parti, ma coinvolto nella causa. "E' evidente", affermava Aldo Capitini "che del tribunale non debbono far parte militari, come se l'obiezione di coscienza sia un'indisciplina interna all'esercito, perche' invece essa fa appello ad altro, a motivi e leggi morali o religiose su cui l'esercito è incompetente a giudicare". Il 28 e 29 ottobre 1950 si tenne a Roma il primo convegno italiano dei problemi dell'obiezione di coscienza, nel quale Capitini svolse la relazione introduttiva su "La situazione internazionale e l'obiezione di coscienza". Nello stesso anno dal 17 al 24 agosto partecipò a Londra al congresso mondiale delle religioni per la fondazione della pace, durante il quale parlò, tra l'altro, del lavoro che veniva svolto in Italia a favore dell'obiezione. Organizzato da Capitini si tenne a Perugia tra il 30 ed il 31 gennaio 1952, in occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi, un convegno internazionale per la nonviolenza. Al termine dei lavori si costituì, sempre su iniziativa di Capitini, un Centro di coordinamento internazionale per la nonviolenza, che rappresentò il primo nucleo di persone che avrebbero dato vita in seguito al Movimento Nonviolento. Sempre a Perugia promosse tra il 12 ed 14 settembre dello stesso anno un convegno di studio su La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale. Inoltre fondò il Centro di orientamento religioso (C.O.R.) ed ebbe come collaboratrice Emma Thomas, una quacchera inglese. "Anche sul COR si addensano inevitabilmente i sospetti dell'autorita' religiosa e laica e per un certo periodo, l'ultimo del pontificato pacelliano, presenziarono le riunioni annoiati poliziotti in borghese" (). Quando venne a conoscenza del digiuno ad oltranza deciso da Danilo Dolci a Trappeto in Sicilia per protestare contro la morte per fame di una bambina, Capitini gli scrisse, invitandolo a sospendere il digiuno e ad informare l'opinione pubblica. Egli lo aiutò a divulgare il suo lavoro di educazione e di sviluppo sociale.
Nel 1953 organizzò a Perugia il primo convegno occidente-oriente asiatico, durante il quale egli affermò che è necessario "stabilire un'unità nonviolenta tra l'Occidente e gli altri continenti" e che "il metodo non può essere che della nonviolenza, per non ripetere la passata storia di imperi, oppressioni, distruzioni". Intanto Giuliano Pontara si era trasferito in Svezia per non svolgere il servizio militare ed in quella nazione aveva iniziato ad approfondire la problematica della nonviolenza, conoscendo l'opera di Gandhi e di Capitini. Comprese allora che, affrontando tali problemi, si entrava in una campo filosofico e perciò decise di studiare filosofia, preparando in Svezia la maturita' classica che poi ottenne in Italia. Capitini in questa occasione aiutò molto Pontara, correggendogli per lettera i temi di greco.
Dal 16 al 18 aprile 1954 Capitini tenne a Perugia, insieme a Giovanni Pioli, un seminario di lezioni e discussioni sul metodo di Gandhi. Nel 1955 venne pubblicato il suo libro Religione aperta, nel quale Capitini riunì tutti i temi della sua esperienza, fra cui quello della nonviolenza. L'8 febbraio dell'anno seguente, proprio nell'anniversario della conciliazione tra il Vaticano ed il governo fascista, i cardinali della Suprema Sacra Congregatio Sanctii Officii condannarono il libro ed ordinarono che fosse inserito in indicem librorum proibitorum. Nello stesso anno Capitini pubblicò il libretto Rivoluzione aperta, incentrato sulla nonviolenza e sull'esperienza di Danilo Dolci, e vinse un concorso universitario, ottenendo una cattedra a Cagliari.
Un altro congresso per il riconoscimento legale dell'obiezione di coscienza in Italia fu tenuto a Roma il 3 giugno 1956 per iniziativa della sezione italiana della Lega per la difesa dei diritti dell'uomo. Numerosi intellettuali, religiosi e pacifisti aderirono all'iniziativa, tra cui Aldo Capitini, uno degli organizzatori, Giovanni Pioli e Bruno Segre (). In seguito alle relazioni dei professori Capitini e Jemolo, la Lega diede incarico ad una commissione di giuristi di raccogliere gli elementi necessari per predisporre un disegno di legge sull'obiezione di coscienza. In risposta al decreto del Santo Ufficio che aveva posto all'indice il suo libro, Capitini pubblicò nel 1957 il testo Discuto la religione di Pio XII. "Ho voluto", dichiarò l'autore nell'introduzione "cercare alcuni elementi essenziali della religione di Pio XII per vedere se tale religione potesse essere anche la mia; e la conclusione è del tutto negativa".
Nel 1959 pubblicò "L'obiezione di coscienza in Italia" (). L'anno seguente conobbe don Milani attraverso il testo Esperienze pastorali, che definì "il più bel libro che un cattolico italiano ci abbia dato in questo secolo". Nell'estate del 1961 andò a trovare il sacerdote ed i due si dimostrarono reciproco rispetto ed ammirazione (). Nacquero in questo e nei successivi incontri le radici dell'interesse di don Milani per l'obiezione.
All'inizio degli anni Sessanta Pietro Pinna, dopo aver lavorato per una decina d'anni come impiegato nella Cassa di Risparmio di Ferrara, venne chiamato da Aldo Capitini ad occuparsi a tempo pieno a Perugia del movimento che stava nascendo intorno ai temi della nonviolenza. Lo stipendio gli fu dato dal filosofo umbro che lo detrasse dalla sua paga di docente universitario. In un momento di grave tensione internazionale Capitini realizzò, con il Centro di coordinamento per la nonviolenza e con l'appoggio di altre forze politiche di sinistra, la marcia per la pace e la fratellanza dei popoli, di ventiquattro chilometri fra Perugia ed Assisi. La manifestazione si svolse il 24 settembre ed ebbe un grande successo; l'esperienza è narrata da Capitini nel libro "In cammino per la pace". Le diverse forze presenti alla marcia sentirono la necessità di continuare l'impegno per la pace e nacque così la Consulta italiana per la pace, alla cui presidenza venne nominato Capitini.
Fu anche costituito il Movimento nonviolento per la pace, con segretario Capitini. Alla fine di quell'anno si costituì a Roma un Comitato nazionale che aveva lo scopo di promuovere una campagna per ottenere il riconoscimento giuridico dell'obiezione di coscienza ed al quale aderirono numerose personalità, tra cui Aldo Capitini, Guido Calogero, Nicola Chiaromonte, i deputati Paolo Rossi, Riccardo Lombardi, Giuseppe Perrone Capano, lo scrittore Ignazio Silone e gli avvocati Arturo Carlo Jemolo, Leopoldo Piccardi e Giorgio Peyrot. Il primo obiettore di coscienza cattolico in Italia per motivazioni religiose fu Giovanni Gozzini. Del suo caso si occupò anche Aldo Capitini, che come sempre attivissimo tentò di utilizzare la nuova attenzione dell'opinione pubblica per sollecitare una legge che permettesse l'obiezione. In una lettera inviata a Sandro Pertini, nella quale parlava del problema dell'obiezione di coscienza in generale e in particolare dell'episodio di Giuseppe Gozzini, egli scriveva: "Ora sta a voi fare il massimo e ti prego di considerare la cosa con tutta la passione di cui sei capace. E' una battaglia decisiva questa. Altrimenti voi socialisti date l'impressione di non avere la temperatura sufficiente per sostenere il progetto che pure avete presentato e che noi sbandieriamo sempre. Si tratta del fatto che in febbraio credo che venga in discussione la legge Andreotti nella forma di modifica del reclutamento militare. Bisogna vedere se è possibile inserire una clausola per il riconoscimento giuridico dell'obiezione di coscienza. Noi potremo accompagnare il vostro passo, fatto con molta energia, con un movimento di opinione pubblica. Naturalmente dovresti darci i consigli del caso per il miglior modo di agire presso i parlamentari. E' un'occasione che non va perduta. Aspetto una tua risposta per comunicarlo agli amici" ().
Il 26 e 27 maggio 1962 si tenne a Firenze il convegno nazionale sui problemi del disarmo, nel quale Capitini svolse la relazione sul tema Disarmo e politica della nonviolenza. L'anno seguente, dal 1° al 10 agosto, organizzò a Perugia un seminario sulle tecniche della nonviolenza. Nel 1964 Capitini fondò la rivista Azione Nonviolenta, che divenne l'organo ufficiale del Movimento Nonviolento. L'anno dopo ottenne finalmente il trasferimento da Cagliari all'università di Perugia.
Nell'aprile del 1966 si svolse a Roma il XII congresso della War Resisters' International, durante il quale Capitini tenne una relazione su Internazionale della nonviolenza e rivoluzione permanente. A Perugia si svolse in due incontri, tra il 4 ed il 6 novembre e tra il 10 e l'11 dicembre, il primo congresso del Movimento nonviolento per la pace, nel quale Capitini introdusse i lavori con una relazione sul tema La nonviolenza nel quadro politico e sociale. In essa affrontò il problema della crisi dei tentativi di rivoluzione condotti privilegiando il metodo della violenza attuata da minoranze che presumono di trasformare la società con la semplice presa violenta del potere e mostrò il posto che esiste per un "estremismo" più profondo, quello della nonviolenza.
Dopo una visita a don Lorenzo Milani ormai moribondo cercò di pubblicare il suo libro Lettera ad una professoressa. Nel 1967 pubblicò l'opera Le tecniche della nonviolenza. Il 28 luglio dell'anno seguente, su richiesta degli amici, scrisse Le ragioni della nonviolenza, che è una formulazione sintetica dei suoi concetti di nonviolento ed un pò anche il suo testamento spirituale, visto che due mesi dopo, il 19 ottobre, morì per i postumi di un intervento chirurgico. Sulla sua lapide nel cimitero di Perugia Walter Binni scrisse: "Libero religioso e rivoluzionario nonviolento".
La personalità di Capitini fu senza dubbio polivalente e può essere studiata sotto diverse prospettive. Per quanto riguarda le finalità di questo saggio dobbiamo evidenziare l'importanza che ebbe Capitini nel diffondere in Italia le tematiche e le tecniche nonviolente ed in particolare a sostenere strenuamente la lotta per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza al servizio militare. La scelta nonviolenta era senz'altro legata alle sue convinzioni religiose, che egli concepiva come persuasione dell'anima e non come imposizione. "La religione è farsi vicino infinitamente ai drammi delle persone, interiorizzare. Essa è spontanea aggiunta, e' un darsi dal di dentro e perciò libero incremento e pura offerta, non sostituzione violenta che io voglia fare all'infinita capacita' di decidere delle coscienze" (). La nonviolenza era per lui soprattutto una scelta rivoluzionaria. "Non si può pretendere di tramutare il vecchio col vecchio, la legge con la legge, la violenza con la violenza, il potere con il potere" (). Capitini inoltre rifiutava la realtà sociale negli schemi come si è sclerotizzata fino ad ora. "Non è detto che sia immutabile la realtà dove il pesce grande mangia il pesce piccolo" (). Per Capitini, quindi, la nonviolenza era anche una tecnica efficace ed indispensabile. Egli "affermava che la nonviolenza era strettamente congiunta al punto a cui era giunta la guerra: l'esasperazione della ferocia provocata da essa, specialmente dopo Hiroshima, aveva posto il problema di condurre le lotte e la stessa difesa in modo totalmente diverso" (). Ma soprattutto la nonviolenza era per lui una scelta etica e di persuasione personale. "Io non dico: fra poco o molto tempo avremo una societa' che sara' perfettamente nonviolenta. (...) A me importa fondamentalmente l'impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione".
Bisogna ammettere che l'opera di Capitini, nonostante la sua elevatezza, non ottenne il riconoscimento e la diffusione che avrebbe meritato. Come mai? Probabilmente egli precorreva i tempi e vedeva più lontano dei politici della sua epoca e pertanto non fu capito. Aldo Capitini parlava di nonviolenza quando la lotta armata sembrava essere l'unica via di ribellione, evidenziava i contrasti fra il nord ed il sud del mondo quando tutti si fermavano alla contrapposizione fra i blocchi dell'est e dell'ovest e lottava contemporaneamente contro l'assoluto del potere (l'Unione Sovietica) e l'assoluto del benessere (gli Stati Uniti d'America) quando ognuno cercava di assimilarsi ai feticci proposti dalle ideologie dello Stato o del consumo. Goffredo Fofi, che visse per un pò accanto a Capitini, intervistato sull'argomento dall'autore attribuisce la colpa dell'incomprensione nei suoi riguardi alle chiusure dell'epoca in cui l'intellettuale umbro si trovò ad operare. "Quegli anni vedevano l'Italia divisa tra forze che in modo diverso non potevano accettare davvero Capitini: il mondo cattolico di Pio XII e della D.C. dominato dalla logica della guerra fredda e particolarmente repressivo, intollerante, fazioso; una sinistra condizionata dall'U.R.S.S. staliniana e dai fideismi marxisti; i laici poco forti(contrariamente ad oggi) e spesso arroccati al loro perbenismo piuttosto classista. Con il primo il dialogo fu pressoché impossibile, se non nelle frange e nei margini (don Mazzolari, don Milani, Nomadelfia, La Pira); i secondi seppero tatticamente servirsi di Capitini ma nella chiave di un pacifismo che in realtà Capitini non poteva amare (il pacifismo dell'equilibrio tra potenze, del mantenimento dello statu quo, cui egli giustamente contrapponeva le istanze della liberazione); i terzi erano poi ancor più distanti nonostante molte lotte comuni, proprio per il loro rifiuto alla considerazione di un pensiero che era e si voleva religioso" (). Inoltre non bisogna sottovalutare la posizione di marginalità geografica della città in cui il filosofo si trovò a vivere e ad operare.
E' interessante confrontare l'opera di Capitini con quella di Gandhi. Al di là delle differenze di personalità, bisogna evidenziare che in Italia non c'era una tradizione nonviolenta religiosa, come invece esisteva in India. Pertanto il Mahatma lavorò su un terreno fertile dal quale, seminando, si poteva sicuramente raccogliere frutti. Diverso fu il quadro in cui si trovò a vivere Capitini. La religione cattolica non solo non aveva una tradizione nonviolenta, ma addirittura in diverse occasioni aveva ispirato guerre o comunque le aveva avallate. Inoltre l'Italia proveniva da un secolo, l'Ottocento, in cui l'indipendenza e l'unità nazionale erano state ottenute con una lotta violenta. Probabilmente se Capitini avesse ottenuto almeno un appoggio culturale, avrebbe avuto un successo maggiore. Per lui si può parlare di una marginalità che provenne dai suoi stessi amici. Infatti le persone che lo seguirono nelle iniziative del dopoguerra furono diverse da quelle che gli erano state compagne negli anni dell'antifascismo. D'altronde egli non fece mai proselitismo con i suoi amici e la sua ispirazione religiosa fu unica e fu la discriminante che segnò la sua differenza dagli antichi compagni. Norberto Bobbio afferma che egli si mosse nella sfera del religioso, la quale non ebbe contatti con quella del pensiero laico se non i un'occasione: la lotta al fascismo. Sembra comunque che i comunisti si siano resi conto dell'occasione che hanno mancato non prestando attenzione alle potenzialità di quest'uomo. Sono sintomatiche alcune parole scritte su "l'Unità" e che valgono quasi come una confessione: "Capitini non aveva la forza e la capacità del nostro partito. Egli lotta solo, non sufficientemente appoggiato neppure da noi. (...) Un uomo che non sapemmo capire abbastanza" ().
Quale peso allora ha avuto nella storia italiana la presenza di Aldo Capitini? E' certamente troppo presto per emettere una sentenza di carattere storico. In ogni caso egli fu sempre perfettamente consapevole del fatto che il compito che si era assunto era difficile e straordinario. Egli doveva realizzare la speranza in mezzo all'indifferenza generale. E sapeva che non doveva limitarsi ad essere un utopista, cioé colui che disegna una stupenda struttura di società ideale ma ne rinvia l'attuazione a tempi migliori, ma doveva essere un profeta, cioé colui che comincia subito, qui ed ora. Pertanto, benché Capitini risulti un personaggio marginale nella storia e nella cultura nazionale del dopoguerra, non lo è affatto per quanto riguarda la storia e la cultura della nonviolenza in Italia. Egli ebbe un compito innegabile nella diffusione nel nostro Paese della teoria e della pratica del metodo gandhiano e "dobbiamo a lui se oggi la nonviolenza ha una certa maturità e credibilità in Italia" (). Inoltre è certamente merito suo se nel nostro Paese abbiamo ancora oggi una visione della nonviolenza come scelta etica di vita e non solo come metodo efficace di lotta. In tal senso l'obiezione di coscienza venne inquadrata non soltanto come mero rifiuto di svolgere il servizio militare, ma come gesto che invitava a rivolgersi verso un futuro diverso. Il ruolo di profeta fu il suo merito e contemporaneamente il suo limite. Merito per aver additato, con la sua vita più che con le sue parole, una strada possibile da percorrere. Limite perché il profeta parla senza essere ascoltato, viene ammirato ma non seguito, i suoi insegnamenti vengono compresi solo dopo diverse generazioni e guardando lontano non riesce ad incidere sulla realtà che vive. Più che una sua scelta, però, il profetismo fu una gabbia in cui lo rinchiuse la sua epoca.
mercoledì 24 giugno 2009
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