sabato 6 giugno 2009

La sinistra e il dilemma del voto utile

http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sinistra-e-il-dilemma-del-voto-utile/

di Giovanni Perazzoli

Le elezioni europee ripropongono un dilemma ormai classico, quello del voto utile. Su questo sito una lettrice così riproponeva a Gianni Vattimo: Che senso ha, se sono di sinistra, votare per Di Pietro? È “un poliziotto”, un uomo che ha, o avrebbe, “una cultura di destra”, etc. Se questo è un capo del dilemma, all’altro capo c’è però il fatto che Di Pietro sostiene, meglio di altri, qualcosa che ci sta a cuore. Il caso Di Pietro è interessante proprio perché rende più evidente il dilemma tra identità e voto utile che riguarda in particolare la sinistra.
Come si esce da questo dilemma? Per rispondere bisogna in primo luogo capire perché è un dilemma che riguarda soprattutto la sinistra. E la risposta credo sia molto semplice, e spiega anche perché le categorie di destra e sinistra siano, se non superate, senz’altro da ridefinire. Il punto è che la sinistra ha sostanzialmente vinto la sua battaglia epocale, mentre la destra l’ha persa. Questo indipendentemente dal fatto che i partiti di sinistra abbiano vinto o perso le elezioni.
Può forse sembrare strano. Ma in realtà, i valori della sinistra sono ampiamente maggioritari. Un’altra questione è se siano riconosciuti come tali, come valori di sinistra e se siano attuati con coerenza. Ampiamente maggioritaria è l’idea che si abbia diritto allo studio, all’assistenza medica; maggioritaria è l’idea che la legge sia uguale per tutti, che l’ambiente debba essere difeso, che tutti debbano avere pari opportunità, che le donne non debbano essere discriminate, e che, in generale, non debbano esistere discriminazioni, che il nazionalismo sia un inganno rozzo, che l’accoglienza sia un valore, che il lavoro debba essere tutelato, che la laicità dello stato sia un punto fermo, che la vita non appartenga ad altri che all’individuo, che la fede debba essere libera, che l’espressione, debba essere libera e libera debba essere l’informazione, che le tasse debbano essere pagate, che debba seguirsi una politica di redditi redistributiva, etc.
Naturalmente, esistono minoranze ostili a questi valori. Ma i grandi numeri, le grandi scelte, sono tutte orientate a favore di essi.
C’è, del resto, una prova indiretta di ciò. Se non fosse così, perché la destra mentirebbe? Perché avrebbe bisogno per esistere di possedere i mezzi di comunicazione di massa e di essere sostenuta dalla religione? La destra mente perché il suo scopo principale è quello di utilizzare i valori della sinistra – i valori vincenti – contro la sinistra e a suo favore. Per anni ha sostenuto, ad esempio, che non far pagare tasse ai ricchi avrebbe aiutato… i poveri. Che la guerra avrebbe posto fine… alla guerra. Che aiutare la scuola privata è un fatto di… democrazia. Nella convention per la “fondazione” del PDL Berlusconi ha tenuto un discorso che riproponeva le conquiste della sinistra. (già nel motto, ad esempio, “nessuno sarà lasciato indietro”), ma con il tipico artificio del populismo. Ha sposato l’economia sociale di mercato, ha sostenuto (senza ridere) di volere uno stato laico e tante altre belle cose, che incontravano l’applauso entusiasta del suo pubblico, naturalmente di destra.
Il punto è che non avrebbe potuto fare diversamente. Nonostante le sue televisioni, Berlusconi non potrebbe mai sostenere che in Italia la legge debba essere uguale per tutti, ma non per se stesso, che solo i lavoratori dipendenti debbano pagare le tasse, che la scuola privata e cattolica debba essere avvantaggiata rispetto a quella pubblica, che il lavoro nero va bene perché fa gli interessi di quelli che lo votano, che non esiste diritto di parola etc. Deve dire, invece, che i magistrati sono rossi, che Santoro è fazioso, che Biagi voleva la liquidazione, che Travaglio è stato condannato, che tutte le risorse del Paese sono state messe a disposizione delle vittime della crisi economica, che i nostri ammortizzatori sociali sono i migliori del mondo, che la nostra sanità tutti ce la invidiano, che esiste mobilità sociale etc.
Questo significa che la vera battaglia politica, di oggi ma anche di domani, è quella per la difesa (da noi) e l’approfondimento (nei paesi più fortunati del nostro) della democrazia.
Ecco perché, anche se non porta il marchio (come la Coca Cola) della “sinistra”, molti si sentono attratti dal voto al partito di Di Pietro: perché percepiscono che Di Pietro difende la democrazia italiana. Ovvero che, a modo suo, e con i suoi limiti, difende l’orizzonte dei valori che sono stati conquistati dalla sinistra (e non solo dalla sinistra come partito, ma dalla sinistra come idea politica di società). Questo è il punto.
Proprio perché viviamo dentro l’orizzonte della democrazia, la democrazia la si difende e la si approfondisce lungo una linea quantitativa, che va dal più e al meno. La regola del gioco democratico è di conquistare sempre maggiori spazi di democrazia attraverso gli strumenti che la realtà storica ci offre. La qualità in democrazia non è un’identità politica (quella di questo o di quel partito), ma questa e quella identità se esse contribuiscono effettivamente all’incremento della democrazia: la qualità reale è, infatti, la stessa democrazia. Lo specifico della democrazia è che il suo avanzamento qualitativo è un fatto quantitativo perché quantitativa è la sua regola, quella della somma dei voti.
I partiti, dunque, sono strumenti della democrazia: sono mezzi, non fini. In passato la sinistra italiana ha invece visto nel partito un fine. Il Partito comunista non era un mezzo, ma il fine stesso della politica: un valore di carattere qualitativo assoluto. Anche per questo ancora oggi è così difficile a sinistra staccarsi dall’idea del partito come realtà di identificazione e di senso complessivo della vita politica. Il partito dovrebbe essere, invece, una parte della vita politica, uno strumento laico, non sacro, tra tanti altri. Il voto in democrazia è sempre “voto utile”. È utile se allarga anche di un solo passo la democrazia.
Con questo non voglio fare un appello di voto per Di Pietro, ma cercare di rispondere a una domanda. Lo stesso dilemma può riguardare, per altri versi, Sinistra e libertà. Il voto utile è solo quello che incrementa effettivamente la democrazia. La disaffezione verso il Partito democratico nasce infatti dalla percezione – nonostante l’appello di Franceschini al voto utile – che questo voto è inutile, perché aumenta la confusione, intorpidisce delle acque, aiuta il trasformismo o l’inciucio, non aiuta, insomma, la democrazia. Oggi è il caso di raccogliere invece i voti intorno a un progetto definito e determinato: rimettere al centro la legalità e liberarci del regime.

Nessun argine alla propaganda

Sull’orlo del disastro, come ha scritto Furio Colombo, l’opposizione ignora e deride anche le dieci domande di “Repubblica”. E ripete ancora l’invito a fare insieme le riforme. Sembra che intorno non stia succedendo nulla. Berlusconi in Europa è completamente isolato. È troppo ingombrante. Il suo volto appare sui manifesti elettorali di mezza Europa per togliere voti ai Popolari. Il messaggio è: Votereste per un partito di cui fa parte quest’uomo? In Germania, ad esempio, ne fa le spese l’incolpevole Merkel che, in un manifesto, viene ritratta insieme a Berlusconi con sotto la scritta: “Se voti la Merkel, voti anche Berlusconi”. Si capisce perché i primi a non sopportare più Berlusconi siano i conservatori. Ma in Italia è addirittura l’opposizione di centro-sinistra che cerca l’abbraccio con il cinghialone braccato. Evidentemente, quest’abbraccio non può essere sciolto.
In Italia manca del tutto la percezione del problema. Anni di editoriali manipolatori e di televisione di regime hanno ubriacato un’intera nazione, che ancora non riesce a percepire fino in fondo la gravità della situazione. Prima di ogni problema concreto, c’è questo problema concretissimo: viviamo in uno stato ipnotico in cui il vero è il falso, l’alto è il basso, il nero è il bianco. Ormai si è prodotta quella doppia percezione che è tipica degli stati soggetti alla propaganda di regime: all’interno dei confini nazionali il Capo supremo, il ducetto del momento, è un idolo di masse adoranti, al di fuori è un appestato con il quale nessun politico vorrebbe avere a che fare.
Ma gli effetti allucinogeni di questa propaganda distruttiva potevano essere arginati, rintuzzati, disarmati. Pochissime persone, con pochi mezzi e molto coraggio, sono riuscite a contenere il dilagare del veleno propagandistico. Una tra tutte, Marco Travaglio. Pur disponendo di ben altri mezzi, il centro sinistra si è invece dichiarato preventivamente impotente a contrastare politicamente la situazione. Il paese è di destra. Punto. Per anni abbiamo sentito l’argomento che per battere Berlusconi non serve a nulla “alzare la voce”. Per batterlo, si dice, occorre un Grande Progetto Politico.
Il potere generalmente parla la lingua dell’ovvio e del tautologico. Ma è nella connessione tra loro delle ovvietà, nella loro sintassi, che le cose generalmente non tornano. È ovvio che per fare politica occorre un progetto politico. Effettivamente, può giovare. Quanto ad “alzare la voce” si tratta di un’espressione scelta per la sua connotazione negativa di partenza: chi “alza la voce” è infatti, nell’uso comune, un maleducato o un esponente del PDL. Mettendo insieme queste due tautologie non se ne ricava però che per fare politica bisogna tacere. E poi bisogna constatare che questo Grande Progetto Politico da portare avanti sottovoce è perseguito con tale discrezione che non si sa neanche che cosa sia, e se esista. Quasi che fronteggiare Berlusconi non fosse poi un problema politico.
Cercare di contenere la propaganda che ha degradato il paese sarebbe stata una battaglia persa? Avrebbe aiutato addirittura Berlusconi? Mi pare che l’effetto di questa posizione, portata avanti anche da persone di grande valore e di sincero spirito democratico, sia stato in realtà quello di diffondere la passività e la rassegnazione, sentimenti che non aiutano a realizzare un qualsiasi progetto riformista, ma ne sono la negazione in radice. Contro questa idea, che ha avvelenato per anni le difese democratiche del paese, vorrei allora provare a portare qualche ulteriore argomento (molti altri ne abbiamo trovati su MicroMega) con l’invito a leggere un libro di un esperto di comunicazione politica americano, Drew Westen, tradotto in italiano e disponibile in libreria, La mente politica. Per i troppo indaffarati e gli svogliati, aggiungo che non servirebbe neanche leggerlo tutto, visto che, come in genere i libri degli americani, anche questo si ripete ossessivamente per pagine e pagine, snocciolando esempi su esempi, ognuno dei quali in grado di persuadere un cavallo.
Scritto prima della grande vittoria di Obama, il libro passa in rassegna i tanti errori di comunicazione del Partito Democratico americano. La domanda di partenza è rivelativa: perché gli americani sono d’accordo con i democratici ma votano i repubblicani?
La risposta si trova nella poca convinzione che i democratici hanno dimostrato di avere verso le proprie stesse posizione politiche. Questa, a sua volta, era alimentata dai dogmi degli esperti di comunicazione dei democratici: non bisogna spaventare gli elettori, non bisogna alzare la voce, i voti vanno raggiunti dove sono, ovvero a destra etc.
Senonché, la ricerca sociologica e successivamente la vittoria di Obama hanno dimostrato con tutta evidenza il contrario.
Che cosa si è capito? Si è capita una cosa molto semplice. Non esistono nell’elettorato opinioni nette, definite e indistruttibili, che debbano essere inseguite, irretite corteggiate. Al contrario. Rispetto a molti argomenti, specialmente se controversi, le persone hanno in genere opinioni fluttuanti e contraddittorie. Pensano una cosa e contemporaneamente anche l’altra. “Se scegliete un qualsiasi tema controverso, dice Westen, scoprirete che l'elettorato manifesta posizioni che appaiono in contraddizione tra loro”.
Sorprenderà constatare ad esempio che “la grande maggioranza degli americani è a favore della regolamentazione delle armi da fuoco; ma la stessa grande maggioranza sostiene anche il diritto di possedere e portare armi. E allora, dobbiamo considerare gli americani favorevoli o contrari alle armi da fuoco?”.
Né l’una né l’altra cosa. L’errore è guardare alle opinioni in modo bidimensionale, senza prospettiva. La maggior parte delle persone vede i problemi in modo contraddittorio, “con due menti”, come si direbbe in inglese. “Un unico tema attiva simultaneamente almeno due reti che conducono a sentimenti differenti (per esempio, la preoccupazione per le armi da fuoco in mano ai criminali e, nel contempo, la convinzione che il cittadino che rispetta la legge abbia il diritto di proteggere la sua famiglia)”.
L’errore dei democratici americani è stato, dunque, quello di essersi sottratti per anni, consigliati dai loro esperti di comunicazione, al rischio di assumere posizioni nette su argomenti controversi. “Diversamente dai loro colleghi repubblicani, gli esperti di sondaggi democratici - racconta Westen - erano soliti consigliare ai candidati di minimizzare, evitare oppure ‘tenere a distanza’ tematiche rischiose, complesse, per paura di affrontare un argomento il cui gradimento è ambiguo o incerto”. Senonché, “sono proprio questi i temi che suscitano le passioni più forti e che hanno il maggiore impatto sul voto”.
Ergo, o i politici riformisti affrontano le questioni direttamente, con forza, decisione, convinzione, cioè “alzando la voce”, oppure lasciano semplicemente spazio alla tesi avversa. I temi, tanto più se controversi, vanno presi d’assalto con argomenti convincenti. Non minimizzati, trascurati, negati, come si è sempre fatto, da noi, con Berlusconi. Il riformismo deve per forza avere una dimensione culturale, politica, deve scuotere l’albero. Non si può pensare di essere i notai di idee che si sono affermate da sole.
A formare il giudizio delle persone non basta la conoscenza dei fatti, ma la percezione della loro rilevanza, e questa passa attraverso un contesto comunicativo di carattere emotivo. O forse, meglio, politico.
In Italia, però, parafrasando Carl Schmitt, sovrano è chi decide l’apertura del TG1!
La realtà politica è un terreno di opinioni in lotta tra loro in primo luogo per l’affermazione di se stesse, del loro senso e del loro valore; è un terreno dove i significati delle cose non sono già davanti a noi, disponibili come oggetti metafisici assoluti, che basta solo nominare perché essi prendano il posto che spetta loro nella rappresentazione della pubblica opinione. Al contrario, i significati delle cose sono materia di costruzione e di conquista, e anche di riconquista (e difesa) continua. Solo all’apparenza sono ovvi. Vedi il tentativo di Carlo Rossella di aggiornare il concetto di “minorenne”. Oppure quello più conservatore di difendere l’antico concetto di “porco”.
Queste considerazioni, ovviamente, non valgono solo per il “maggiore rappresentate dello schieramento avversario”, ma anche per questioni come, ad esempio, la fine della vita, le tasse, o i Pacs.
In Italia, però, non si fa altro che sostenere che da noi “non si può”. Sembra che da noi lo schema della guerra fredda, lo schema della democrazia bloccata, sia rimasto la regola, forse perché garantisce un equilibrio di sistema dietro il quale c’è un’oligarchia da quattro soldi. Perciò non si deve dire nulla. A ben vedere, non siamo schiavi di un antistato occulto, ma dell’inganno, da cui non riusciamo a liberarci, di una democrazia solo apparente. Il cosiddetto “antistato” non è altro che il rivelarsi, a tratti, della finzione democratica.
Dunque, qui bisogna riflettere. Essere fedeli a un’idea non significa esserlo verso un partito. Nel caso del Partito Democratico italiano temo proprio che l’errore di comunicazione non preceda la scelta politica, ma, al contrario, ne sia la conseguenza.

(5 maggio 2009)

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