martedì 16 giugno 2009

L’andamento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito

Di Fulvio Mattiozzi

Dopo essere stata a lungo trascurata dai ricercatori in economia, la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è tornata solo negli ultimi anni a rivestire un ruolo centrale nella ricerca economica1. Uno dei fattori che hanno maggiormente contribuito al risorgere dell’interesse verso questo tema è stato il superamento, almeno parziale, della mancanza di dati sulla forma della distribuzione del reddito. Il merito è da attribuirsi alle ricerche svolte dalla Banca Mondiale (database di Deininger e Squire2), dalle Nazioni Unite (progetto UNU-WIDER3), e dal Luxembourg Income Study4, un progetto nato proprio allo scopo di costruire un database contenente dati cross-national sul reddito a livello microeconomico.
E’ da evidenziare, infatti, come tutte le ricerche sul tema della disuguaglianza nella distribuzione del reddito non possano prescindere dal menzionare le difficoltà che si incontrano nell’indagare questo tema, per tre ordini di ragioni, fra loro collegati:
I dati spesso mancano del tutto e, laddove esistono, sono spesso incompleti; in molti casi i dati non sono confrontabili (sono stati raccolti in anni diversi e/o con metodologie diverse nei vari Paesi).

Non esiste un’unica definizione di reddito universalmente riconosciuta (reddito disponibile? reddito da lavoro? Tasse e trasferimenti vanno contati?), né tantomeno un’unica metodologia per misurarne la disuguaglianza all’interno di un Paese o a livello mondiale (la misura più utilizzata è l’indice di Gini): il problema è che spesso, utilizzando misure differenti si giunge a conclusioni differenti.
Anche a livello teorico, la relazione fra la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e le altre variabili economiche (soprattutto, crescita economica e povertà) necessita di essere ulteriormente approfondita5.
Nonostante queste difficoltà, è stato possibile evidenziare un andamento crescente della disuguaglianza nei Paesi OCSE negli ultimi due decenni del secolo scorso. Una serie di studi (definita da Atkinson, 19996, il “Transatlantic Consensus”) concordava nel riscontrare questa tendenza e nel ricercarne le cause nell’apertura dei mercati internazionali e nell’uso di tecnologie skill-biased nei paesi industrializzati, con conseguente indebolimento contrattuale (e quindi in termini di reddito percepito) dei lavoratori non specializzati (si veda in particolare Smeeding Gottshalk, 19967). Tale spiegazione, sebbene coerente con le analisi che indicavano nell’ampliarsi della forbice fra reddito dei lavoratori non specializzati e lavoratori specializzati e fra redditi da lavoro e redditi da capitale la causa dell’aumento della sperequazione nel reddito, non è del tutto convincente in quanto non spiega il motivo per il quale l’aumento non sia riscontrabile in tutti i Paesi analizzato e sia di portata molto diversa nei vari Paesi. Una delle critiche più interessanti a questo tipo di spiegazioni, è quella apportata da Brandolini, 19976; secondo quest’autore (ma si veda al riguardo anche Atkinson, 1999, cit.) il più grande difetto di queste teorie consiste nel cercare di trovare la spiegazione di un fenomeno, quello dell’aumento della disuguaglianza, tramite un solo fatto stilizzato, valido sempre e ovunque, quando invece l’andamento della disuguaglianza, anziché seguire traiettorie chiare e definite, risulta irregolare, suggerendo che la ricerca delle variazioni vada ricercata in fenomeni episodici e nella struttura, non solo economica, ma anche istituzionale (sociale, culturale e storica) dei vari Paesi.
Se l’aumento della disuguaglianza nei Paesi OCSE pone una serie di questioni da risolvere sulle cause del fenomeno e le eventuali correzioni di politica economica da apportare, a maggior ragione, il problema si pone nei paesi in via di sviluppo. A livello teorico, sia la relazione a U-rovesciata fra disuguaglianza e crescita, proposta da Kuznets negli anni ’508, sia il modello dualistico di Lewis concordano nel prevedere un aumento della disuguaglianza, connesso con le prime fasi della crescita economica, e una successiva diminuzione nelle fasi successive dello sviluppo. Tuttavia, questi modelli economici non tengono in considerazione gli effetti negativi che, a sua volta, una disuguaglianza elevata può avere sulla crescita economica e istituzionale di un Paese: innanzitutto, in un mondo dove i mercati non sono perfetti, una distribuzione molto iniqua può avere degli effetti negativi per l’ottimalità dell’allocazione delle risorse (ci si riferisce, in particolare, ai mercati del credito e dell’istruzione); inoltre, si osserva come la disuguaglianza tenda a riprodursi nel tempo, generando le cosiddette poverty traps.
Il problema è stato affrontato dal World Development Report del 2006 e da un intero progetto di ricerca dell’UNU-WIDER coordinato da Cornia. Questi, nella ricerca condotta con Court, 20019, evidenzia come le spiegazioni tradizionali (basate sulla concentrazione del possesso delle terre, squilibri regionali fra città e ambienti rurali e disuguaglianza nell’istruzione) non siano sufficienti a spiegare l’aumento della disuguaglianza nei PVS, che vanno ricercati piuttosto nelle politiche eccessivamente liberiste che sono state condotte in tali Paesi. Anziché favorire un processo di convergenza fra i salari dei lavoratori nei PVS e quelli dei Paesi industrializzati, politiche a favore della liberalizzazione e della globalizzazione (che hanno comportato l’apertura del mercato dei capitali), in presenza di mercati imperfetti, istituzioni deboli, rigidità strutturali e protezionismo persistente (soprattutto da parte dei Paesi industrializzati, al riguardo delle politiche migratorie) hanno avuto effetti regressivi non prevedibili e non spiegabili dai modelli economici neoliberisti usati per promuovere tali riforme.
In conclusione, le lezioni che si possono trarre dalla letteratura recente sulla disuguaglianza sono:
Si è riscontrato un aumento generalizzato della disuguaglianza all’interno dei Paesi industrializzati e non. Tale aumento non è direttamente attribuibile alla crescita10, ma, in misura prevalente, a fenomeni socio-economici e politici.
La crescita economica gioca un ruolo fondamentale per la riduzione della povertà, anche se comporta un aumento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito (come è avvenuto in Cina).
Le interazioni fra distribuzioni e crescita necessitano ulteriori studi, ma è già evidente come la crescita possa influenzare la distribuzione e, soprattutto, lo faccia in maniera differente a seconda delle istituzioni e delle scelte di politica economica adottate da un Paese.
Povertà e disuguaglianza possono porre gravi problemi per la crescita, in presenza di imperfezioni dei mercati e istituzioni deboli.
Dunque, non è possibile risolvere i problemi di equità e di povertà promuovendo la crescita, tout court; piuttosto bisognerebbe accompagnare e governarla, promuovendo il rafforzamento (o la creazione) di istituzioni capaci di assicurare condizioni di vita dignitose e uguaglianza di opportunità a tutti i cittadini, ponendosi in maniera critica verso liberalizzazione e apertura dei mercati12, tramite un sistema di tasse e trasferimenti maggiormente progressivo, una maggiore spesa per l’istruzione, politiche dirette a diminuire la concentrazione della proprietà degli asset finanziari e agricoli, a incentivare la crescita nel settore agricolo e in quelli ad alta intensità di lavoro e a combattere gli squilibri regionali e fra città e campagna.
Equità e crescita più che costituire un trade-off, vanno affrontate congiuntamente, ponendosi in un’ottica non solo economica, ma anche politica e sociale.

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