Il caso Bobbio
di EZIO MAURO
CI DEV'essere qualcosa di formidabile e inspiegabile, se due grandi vecchi come Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone sono ancora il bersaglio della polemica e dell' intolleranza politica di tutte le destre italiane, antiche e nuove, politiche e intellettuali, camuffate o rampanti. I due hanno novantuno e novantadue anni. Vivono riparati, ai margini della polemica politica e culturale, com'è giusto e comprensibile alla loro età. Si parlano qualche volta al telefono, ma più che altro si scambiano i pensieri per lettera, come del resto fanno da mezzo secolo. Attorno Torino è cambiata, quel loro mondo in cui il piemontesismo era concepito come una "condizione condizionante" è finito per sempre, forse addirittura con Pavese - come ha scritto tanti anni fa Bobbio -, forse con le tante mutazioni della città, o più semplicemente con l'inevitabile trasformazione dell'Italia che non ha più una capitale della produzione, perché dalla vecchia fabbrica si affaccia oggi alla new economy.
Eppure, a più di novant'anni, Bobbio e Galante Garrone restano il fantasma fisso, l'ossessione inguaribile delle destre italiane. Non hanno un partito alle spalle, non hanno nemmeno eredi: soltanto quelli che Bobbio chiama dei "fallimenti", o per meglio dire delle speranze deluse, il partito d'Azione, l'unificazione socialista, una sinistra finalmente europea, e riformista. Com'è possibile che questi uomini soli, anziani e soli, siano ancora e costantemente il centro di una polemica politica e culturale che può portare tranquillamente il Polo a negare nei loro confronti il riconoscimento della cittadinanza onoraria di Torino?
Oggi una parte degli avversari si fa indulgente, e chiede alla destra torinese di ripensarci, di non infierire nella guerra simbolica del sigillo civico.
MAGARI, sottovoce, suggerisce di distinguere tra Bobbio che ha riconosciuto qualche anno fa la sua compromissione giovanile col fascismo e Galante che non ha mai giurato fedeltà al regime, come se questa fosse una macchia, nell'Italia del Duemila. Ma questa indulgenza tardiva, questo improvviso buonismo dosato con cura ossessiva, è ipocrita e soprattutto inutile. Davvero gli intellettuali revisionisti possono stupirsi se qualche consigliere comunale di Alleanza Nazionale si oppone ad un riconoscimento civico per Bobbio e Galante Garrone, dopo che per anni i due sono stati investiti da una polemica politica furiosa di aperta delegittimazione?
La verità è che per capire questa ossessione, e le nevrosi culturali che ne derivano, bisogna distinguere, finalmente. Per la destra di An, Bobbio e Galante Garrone sono esattamente due intellettuali antifascisti, irriducibili nel sostenere l'inconciliabilità tra il fascismo e la democrazia, convinti - sbagliando - che dal 1945 l'Italia avesse pronunciato nei confronti del fascismo "una condanna definitiva, e senza appello". Per i revisionisti neoliberali, la colpa è invece un'altra, genetica e irrimediabile: l'azionismo, anzi meglio la corrente torinese dell' azionismo, quel gramsci-azionismo (come viene chiamato spregiativamente) che discende da Piero Gobetti, e che è sopravvissuto ben oltre la morte del partito d'Azione, più di cinquant'anni fa.
Cinquant'anni dopo, dunque, perché l'azionismo fa ancora paura, pur disarmato da ogni strumento diretto di intervento politico? La ragione è ideologica, nient'affatto culturale. I moderni nemici dell' azionismo sono in realtà impegnati in una critica a senso unico della sinistra italiana, e in una riscrittura della storia repubblicana del nostro Paese che è diventata un perno centrale del cambio di egemonia culturale in atto oggi in Italia. E' cioè in corso un trasloco, un cambio di stagione, una destrutturazione del sistema di valori civici su cui si è retta la nostra democrazia per cinquant'anni, un sistema condiviso, coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne derivano, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione.
Per raggiungere questo obiettivo - politico, e ideologico - era necessario attaccare direttamente tre punti fermi della cultura civile repubblicana: l'antifascismo, l'azionismo, il Risorgimento. E' stato fatto, con cura e con impegno, e con risultati di rilievo, che sono sotto gli occhi di tutti. I prossimi passi sono facilmente prevedibili: la Costituzione, troppo vecchia e intrisa di quelle culture ormai delegittimate, poi l'impianto istituzionale repubblicano, troppo arcaico, specchio di quella Costituzione, di quelle culture, di quel mondo passato e finalmente gettato in minoranza.
Il centro del bersaglio è naturalmente l'azionismo, crocevia teorico del Risorgimento e dell'antifascismo, soprattutto nella variante torinese, così intrisa di gobettismo. Un azionismo che tradisce la "neutralità" liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l' anticomunismo. Né comunisti, dunque, né anticomunisti, "né con loro né contro", come Bobbio ricorda la sua posizione negli Anni Cinquanta. Nel tentativo continuo di indicare ai comunisti i limiti del comunismo: a Togliatti all'epoca della polemica di "Politica e cultura"; a Berlinguer ancora nel 1978, quando Bobbio gli ricorda che "la terza via non esiste", tra comunismo e socialdemocrazia bisogna scegliere. Gli azionisti, proprio per queste ragioni, sono pericolosi due volte: perché non portano in sè il peccato originale del comunismo, come la parte maggioritaria della sinistra italiana, e perché non scelgono l'anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Questo liberalismo di sinistra, anzi, nello specifico del caso italiano rifiuta l'equidistanza tra fascismo e comunismo: e gli azionisti vengono perciò accusati in pratica di essere troppo deboli come anticomunisti, troppo severi come antifascisti. "In questi ultimi anni di revisionismo storico - ha scritto Bobbio - mi accade di constatare che il rifiuto del'antifascismo in nome dell'anticomunismo ha finito spesso di condurre a un'altra forma di equidistanza che io considero abominevole: tra fascismo e antifascismo".
E' questa la seconda ragione dell' ossessione per l'azionismo. Il tentativo di ridurre a posteriori il fascismo ad una sorta di debolezza nazionale, di cedimento italico, di vizio collettivo. La delegittimazione sistematica di Bobbio dopo la pubblicazione della sua lettera giovanile al Duce ha raggiunto il suo scopo quando il filosofo ha parlato dell'apatica zona grigia in cui viveva in quegli anni, mentre altri si opponevano alla dittatura. Il fascismo come patrimonio di tutti, verrebbe da dire, salvo pochi fanatici, alla cui scelta si nega pervicacemente ogni valore morale, ogni valore di testimonianza utile anche per oggi. E' la rappresentazione di un'Italia al peggio, in cui tutti sono uguali nei vizi e le virtù civiche non contano perché lo Stato è un estraneo, se non un nemico da cui guardarsi. Un Paese pronto ad ascoltare l'elogio del malandrino, in cui l'avversario viene schernito, i suoi ideali sono messi alla berlina, le virtù civiche vengono derise, la delegittimazione politica, morale, personale va in scena abitualmente, senza più contravveleni.
Ed è chiaro che l'azionismo - sia pure residuale, rarefatto, ormai sterile nel panorama politico italiano - è un'altra volta una pietra d'inciampo per questo disegno ideologico di amalgama culturale verso il peggio. Quell'azionismo che profilava un'Italia di minoranza, intransigente, laica, illuminista, repubblicana davvero, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, convinta della necessità di coniugare l'etica con la politica, religiosa di un'unica religione civica, quella di una democrazia forte. Meglio l'Italia cinica e indifferente della Prima Repubblica e magari di oggi. Meglio una politica che se trova "un Paese gobbo", come diceva Giolitti, si adatta tranquillamente, e gli confeziona "un abito da gobbo". Ecco perché si può tranquillamente rifiutare il sigillo di Torino a Bobbio e Galante Garrone. L'opera lunga e faticosa di demolizione dell'azionismo è probabilmente compiuta. Non era Togliatti, d'altra parte, che chiamava Parri "quel fesso"? E non era Guglielmo Giannini, sull'"Uomo Qualunque", che derideva quei "visi pallidi" degli azionisti? Cinquant'anni dopo, con la sinistra distratta e silenziosa, i revisionisti possono finalmente riposarsi: quel lavoro è finito.
La Repubblica
24.10.2000
sabato 27 giugno 2009
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