sabato 27 giugno 2009

“Socialismo liberale”: ossimoro o tautologia?

I casi sono due: o si accosta ad una parola un’altra parola di senso contrario, oppure l’aggettivo ripete il concetto già contenuto nel sostantivo

di Vittorio Valenza

Da qualche tempo, sono tornati in uso gli appellativi di “socialismo liberale”, di “liberalsocialismo” e, perché no?, di “liberalismo sociale”. La cosa non è di quelle destinate a togliere il sonno al popolo e forse non merita neanche di essere sottolineata. Tuttavia, poiché, come sostiene un autorevole storico delle dottrine politiche, George Lichtheim, “la scelta della terminologia politica non è mai accidentale”, ma evidenzia “un modo nuovo di guardare il mondo” e tende “a creare forme di vita sociale”; forse è importante, per quanto ne siamo capaci, approfondire la questione. Norberto Bobbio scrive che “liberalismo” e “socialismo”, “sono storicamente considerati due termini antitetici”, tanto che “tutta la storia del pensiero politico dell’Ottocento, e in parte anche del Novecento, potrebbe essere raccontata come la storia del contrasto tra liberalismo e socialismo.” Il mettere insieme i due termini darebbe, quindi, vita a un “ossimoro”, cioè al procedimento retorico che consiste nell’accostare due parole di senso contrario. “Socialismo liberale” sarebbe, pertanto, una contraddizione in termini. Tuttavia, la critica che il socialismo rivolge alla dottrina liberale non è indirizzata, come quella dei reazionari o dei totalitari, contro i principi, i valori e i fondamenti del liberalismo. Per esempio, i socialisti non hanno mai messo in discussione la libertà di pensiero, di parola, d’associazione, di voto, e così via. Né i socialisti hanno mai contestato il principio d’isonomia, cioè l’eguaglianza di fronte alla legge. Neanche hanno mai inteso confutare quelli che sono i fondamenti del liberalismo: l’empirismo, l’anti-innatismo, cioè l’educazionismo, il contrattualismo sociale e la sovranità popolare. Anzi, il socialismo nasce proprio per dare concreta e universale realizzazione al progetto liberale. Come scrive Norberto Bobbio, “il socialismo fu concepito come un naturale sviluppo storico del liberalismo nel processo di emancipazione dell’umanità.” L’imputazione che il socialismo muove al liberalismo è, quindi, quella d’inadempienza: la mancata attuazione di qualcosa da parte di chi vi si dice impegnato. Che valore possono, infatti, avere le cosiddette “libertà di” (la libertà di religione, di parola, di stampa, di associazione, di partecipazione al potere politico, di iniziativa economica e così via), quando non sono supportate dalle “libertà da” e cioè la libertà dal bisogno, dall’incertezza per il domani, dall’ignoranza? Nello stato liberale, gli individui sono uguali davanti alla legge, ma sensibile e stridente rimane l’ineguaglianza economica e sociale. Anzi, quest’ultima rischia di vanificare la prima. Citiamo Carlo Rosselli: “Dice il socialismo: l’astratto riconoscimento della libertà di coscienza e delle libertà politiche a tutti gli uomini, se rappresenta un momento essenziale nello sviluppo della teoria politica, ha un valore ben relativo quando la maggioranza degli uomini, per condizioni intrinseche e ambientali, per miseria morale e materiale, non sia posta in grado di apprezzarne il significato e di valersene concretamente. La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria, umiliato dalla sua soggezione; […]. Libero di diritto, è servo di fatto.” La critica socialista del liberalismo s’innesta, pertanto, in quelle contraddizioni che impediscono al liberalismo stesso di tener fede alle sue promesse. Per esempio, l’incoerenza tra i principi d’isonomia e di sovranità popolare con la pratica delle discriminazioni elettorali. Oppure la contraddizione tra la proclamata libertà d’associazione e la pratica delle leggi antisindacali sul modello della celebre “legge Le Châtelier”, che proibiva le associazioni operaie in quanto lesive della libera concorrenza e della cosiddetta “libertà di contratto”. La quale “libertà di contratto” evidenzia, peraltro, un’altra contraddizione. Infatti, il rapporto che fa entrare il “prestatore d’opera” nella produzione non è un contratto con mezzi di produzione, ma con chi li detiene, cioè con il capitalista. Questo rapporto prende la forma giuridica di un “libero contratto” che fissa le condizioni del lavoro: il salario, il tempo di lavoro e così via. I contraenti figurano come “due persone giuridiche sullo stesso piano” ma l’uno dispone di danaro, l’altro soltanto della sua forz a di lavoro. La “libertà di contratto” nasconde, in realtà, la più completa disuguaglianza se non la più assoluta costrizione. Se non esce da questo schema, il “prestatore d’opera” può usufruire tutt’al più della libertà di morire di fame. Non si pensi che questi esempi appar-tengano a un lontano quanto non riproponibile passato. Ancora oggi fanno scuola le parole di uno dei più autorevoli pensatori liberali, Friedrich von Hayek: “Il campo in cui la mancata applicazione dei principi liberali ha comportato lo sviluppo di impedimenti sempre maggiori per il funzionamento del sistema di mercato è quello del monopolio del lavoro organizzato, ovvero i sindacati. […] Questa posizione dei sindacati operai, appunto, ha reso largamente inoperante in materia di determinazione dei salari il meccanismo di mercato ed è più che dubbio che un’economia di mercato possa continuare a sussistere quando la determinazione concorrenziale dei prezzi non vale anche per i salari.” Come si concilia questa realtà con il principio formulato dalla dottrina liberale secondo il quale la libertà può essere realizzata soltanto se, come afferma la famosa formula di Emanuele Kant, la libertà di ciascuno non va oltre ciò che è compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri. Semplicemente, non si concilia. Gli effetti pratici del liberalismo tendono, infatti, a dar vita a forme di oppressione e di schiavitù di massa. Con il riservare le proprie conquiste a pochi, il liberalismo contraddice sé stesso. Si giunge così all’antinomia per eccellenza. Come sottolinea un più che autorevole storico del pensiero liberale, Guido De Ruggiero, per il liberalismo “la proprietà è un diritto naturale dell’individuo ” . Senza la proprietà ogni indipendenza o autonomia dell’individuo sarebbe resa del tutto vana: “Solo in quanto proprietario, egli è sufficiente a sé stesso e può resistere a tutte le invadenze degli altri individui e dello stato.” Questa legittimazione della proprietà, che ha un posto d’onore in tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo, è comune a tutti i liberali. È rimasta immutata per più di trecento anni, da John Locke a Robert Nozick. Ma, usiamo sempre le parole di De Ruggiero, proprio da questa concezione “derivano alcune imprevedibili conseguenze, che l’intaccano alla base. Se la proprietà è essenziale allo spiegamento della libertà naturale dell’uomo, ciò vuol dire che non alcuni uomini soltanto debbono goderne come di un odioso privilegio, ma che tutti gli uomini debbono essere proprietari.” La contraddizione è più che evidente. Da un lato, la libertà dei liberali presuppone la proprietà, dall’altro, la pratica del liberalismo economico tende a negare la proprietà (e, quindi, la libertà) alla maggior parte degli individui. Infatti, benché i fondatori della teoria liberale, sostenessero che il motore della natura umana, l’amor di sé, può essere indirizzato in modo tale da promuovere, mediante quegli stessi sforzi che compie nel proprio interesse, l’interesse pubblico; si è dimostrato che gli effetti pratici del liberalismo, lasciato a sé stesso, contraddicono i principi del liberalismo stesso. La disuguaglianza, pur non essendo connaturata in senso stretto all’uomo, si sviluppa però inesorabilmente quando gli individui e le forze sociali entrano in concorrenza tra di loro. Come sintetizza Nicola Tranfaglia: il liberalismo, “favorisce la permanenza e l’accrescersi delle situazioni di privilegio e di disuguaglianza presenti nell’ordine capitalistico.” Parafrasando una celebre frase di Karl Marx, possiamo dire che là dove lo stato liberale raggiunge la sua vera fioritura, l’uomo conduce una vita doppia, per così dire “una vita celeste ed una vita terrestre”: la vita nella comunità politica e quella nella società civile. La prima nel regno dell’uguaglianza formale, la seconda nell’ineguaglianza reale. Per far sì che la libertà, diventi patrimonio di tutti, il “dogma” a cui il liberalismo deve rinunciare è, per i socialisti di tutte le scuole, il liberismo con la sua mitica parola d’ordine: “laissez faire, laizzez passer” (lasciar fare, lasciar correre). Non si esce, quindi, dall’ossimoro a meno di non espungere dal liberalismo il liberismo economico. Questa realtà non sfuggì nemmeno a quei liberali, come, per esempio, a John Stuart Mill o a Leonard Trelawney Hobhouse che diedero vita a un liberalismo socialisteggiante. Infatti, come spiega Friedrich von Hayek, per dare una risposta alla questione sociale, il liberalismo dei seguaci di Mill “rinunciò al dogma del non intervento dello Stato nella vita economica e sociale”, a cominciare dalla scuola. “Insomma, il pensiero liberale sperò almeno di poter ridurre le barriere sociali che vincolavano gli individui alla loro classe di origine, fornendo certi servizi a coloro che non erano ancora in grado di procurarseli da soli.” Se poniamo, quindi, una più che seria ipoteca sul liberismo, la formula “socialismo liberale” non dà più luogo a un ossimoro. In compenso, diventa, però, una tautologia. Infatti, se, come scrive Carlo Rosselli, “il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà”; allora dire “socialismo liberale” risulta, quantomeno, ridondante. È una sovrabbondanza e, come tutte le sovrabbondanze, è inutile: “frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora” (è inutile fare con molti quel che si può fare con pochi). Pertanto, noi concordiamo con Ralf Dahrendorf: ci è sufficiente l’appellativo “socialista” e riteniamo che “la posizione di ciascuno vada definita soprattutto attraverso le azioni che
compie.

La Tribuna di Lodi
9 settembre 2000

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