di Francesco Greco
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento tenuto sabato sera da Francesco Greco, procuratore aggiunto e coordinatore del pool “criminalità economica” della Procura di Milano, al Festival del Diritto organizzato a Piacenza dall’editore Laterza. L’incontro, dal titolo “Beni pubblici, interessi privati”, era una conversazione con Luigi Ferrarella, inviato del “Corriere della Sera”.
Abbiamo assistito nell’ultimo anno e mezzo a una forma di neo-interventismo degli Stati, i quali sostanzialmente si sono assunti le perdite della crisi finanziaria con impressionanti aiuti al sistema bancario internazionale. Un aiuto di Stato praticamente a fondo perduto, perché in cambio non sono state chieste nuove regole. L’unico problema che hanno avvertito all’ultimo vertice del G20 è stato quello di bloccare i bonus ai manager: come se questa fosse la regola fondamentale per riparare ai guasti dell’economia finanziaria. Una cosa paradossale. Ma in Italia i cittadini non hanno alcuna percezione dei danni provocati dalla criminalità economica. Ci siamo quasi assuefatti. Ciascun cittadino italiano paga ogni anno quella che io chiamo la “Tassa di Tangentopoli”. L’enorme esplosione del debito pubblico dall’inizio alla fine degli anni 80 implica che, in ogni legge finanziaria, decine di miliardi di euro se ne vanno a pagare gli interessi passivi: tutte risorse sottratte allo sviluppo del Paese. La Tassa Tangentopoli – che non era solo spesa impazzita, corruzione e malversazione del denaro pubblico, ma anche permissivismo fiscale, clientelismo, pensioni baby e invalidità fasulle – stiamo continuando a pagarla, poi toccherà ai nostri figli e ai figli dei nostri figli. Di questo non abbiamo percezione.
Questo atteggiamento dei cittadini deriva da quello dei media a proposito dei problemi della criminalità economica: si semina grande allarme sociale sulla criminalità di strada, sui reati contro la persona e il patrimonio, e si diffonde il giustificazionismo nei confronti della criminalità economica. Si sente dire: “Sì, vabbè, quello ha portato i soldi all’estero perché le tasse erano troppo alte…”. Nessuno dice mai: “Sì, vabbè, ha scippato la borsa a quella vecchietta perchè aveva fame”. Per i reati della criminalità economica c’è sempre una scusa buona, forse per giustificare gli aiuti che lo Stato da sempre assicura alle imprese private e alle corporazioni (…).
Rispetto agli altri paesi, noi abbiamo alcune peculiarità: siamo un paese off-shore. Chi altro paese assicura l’impunità fiscale che l’Italia garantisce agli evasori? Quale paese in Europa ha un sistema bancario meno trasparente del nostro? Se apro un conto in Svizzera o nel Liechtenstein, sono obbligato a indicarne il beneficiario economico; in Italia no, posso aprire un conto con una società off-shore, nominare un procuratore svizzero e nessuno, banchiere né bancario, mi verrà mai a chiedere chi è l’effettivo proprietario di quel conto. Non solo: siamo l’unico grande paese d’Europa che non ha ancora adottato una normativa contro l’autoriciclaggio. In più abbiamo sostanzialmente depenalizzato il falso in bilancio e smantellato l’intero comparto dei reati societari, che ora sono perseguibili solo a querela.
All’origine della crisi finanziaria ci sono anche dei fattori criminali: l’economia fuori bilancio, tutta spostata alle Cayman e dintorni; e l’uso intensivo di veicoli anonimi, i “cervelli morti” di cui parlano gli auditing interni delle banche.
Domandiamoci: che cos’è una banca? qual è la sua funzione? Sino alla fine degli anni 80 l’abbiamo considerata alla stregua di un “incaricato di pubblico servizio”. Poi una serie di sentenze della Corte costituzionale stabilirono che la banca è un organismo privato come gli altri. Ma c’è pur sempre l’articolo 47 della Costituzione: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito…”. Le banche, diversamente dalle imprese, non amministrano soldi propri, ma altrui. Il nostro governo ha affidato ai prefetti una funzione di controllo sul credito: emblematico e sintomatico di una concezione “pubblica” del ruolo delle banche. Dunque si può tornare a concepire anche giuridicamente le banche come incaricati di pubblico servizio. Con tutte le conseguenze giuridiche del caso.
Oggi in Italia, dal punto di vista repressivo, l’armamentario giuridico dei reati che si possono azionare nei confronti del banchiere o del bancario che ruba (e i processi degli ultimi anni dimostrano che nelle banche si ruba parecchio) è ridicolo. A un banchiere che ha rubato milioni di euro alla sua banca, anche prelevandoli dalle casse dell’istituto o direttamente dai conti dei clienti, noi abbiamo dovuto contestare l’appropriazione indebita, con prescrizione assicurata, a meno che non sia così gentile da patteggiare subito restituendo un po’ di soldi. E poi mi vengono a parlare del caso Madoff e di quanto sono bravi gli americani che gli hanno affibbiato 150 anni. Beati loro! Noi non lo possiamo fare. Da noi, nella sostanza, non c’è contrasto alla criminalità economica.
Idem per l’evasione fiscale. La riforma del centrosinistra - perchè qui tutti pari sono – dei reati tributari è una cosa ridicola. Per l’evasore totale, cioè ignoto al fisco, la pena massima è tre anni; per chi fa fatture false, dunque evade in parte ma è noto al fisco, la pena massima è sei anni. Ma non c’è proporzione: allora conviene essere ignoti al fisco, in Italia, piuttosto che arrabattarsi a nascondere qualcosa con le fatture false. È sistema schizofrenico, oppure voluto… Ora arriva un altro “scudo fiscale”, l’ennesimo condono. Mentre sbarriamo le frontiere agli immigrati clandestini, le spalanchiamo ai capitali clandestini. Anonimi e impuniti. Libera circolazione dei soldi, anche sporchi, ma non delle persone. Lasciamo pure perdere il giudizio etico sullo scudo: come al solito i furbetti la fanno franca, e da noi i furbetti sono tanti, basta vedere le cifre dei capitali accumulati all’estero.
Se chi li detiene pagasse le tasse dovute su quegli enormi capitali, roba da centinaia di miliardi di euro, ogni italiano avrebbe diritto a una scuola stupenda per i figli e a una vacanza gratis ogni anno ai Tropici, in più non avremmo il buco dello Stato e magari potremmo pure andare tutti in pensione un po’ prima. L’ultima volta che si fece il condono fiscale, la Banca d’Italia calcolò che all’estero fossero nascosti 700 mila miliardi di lire, di cui stimò che ne sarebbero rientrati 200. Ora non conosco i calcoli aggiornati, ma quel che dà fastidio è che si sa che ci sono questi soldi. E allora perché nessuno va mai a scovarli? A me interessa che l’evasione venga combattuta perchè è la cosa più antidemocratica che esista. In passato c’era chi proponeva di togliere l’elettorato attivo agli evasori: chi non paga le tasse non può votare. Chi vota senza pagare le tasse decide come lo Stato userà i soldi delle tasse pagate dagli altri. Non occorre molta fantasia sulle nuove regole da approvare subito in Italia: ripristinare il falso in bilancio come reato perseguibile d’ufficio; riformare i reati fiscali e la normativa anti-riciclaggio (oggi applicata perlopiù a qualche carrozzeria di periferia che tarocca le auto rubate), inserire l’autoriciclaggio e ammodernare il sistema fiscale, a partire da commissioni tributarie che funzionano poco e male. Solo dopo si potrà giustificare uno scudo fiscale. Ma non certo questo scudo senza regole, questa impunità totale in cambio di niente.
Se oggi apro un’inchiesta su un caso di corruzione internazionale e mi trovo cinque conti bancari in paradisi off-shore, so che impiegherò almeno tre anni per avere risposta alle rogatorie. Poi dovrò finire le indagini e affrontare tre, anzi quattro gradi di giudizio (c’è pure l’udienza preliminare). Ricordo che la prescrizione decorre non da quando ho scoperto il reato, ma da quando il reato è stato commesso. Dunque è garantita. La domanda è: ma chi fa queste leggi, perché non abolisce direttamente tutti i reati dei colletti bianchi? Perché, se la corruzione e i reati di criminalità economica hanno la prescrizione garantita, ci fanno perdere tempo con le indagini e i processi? A Milano abbiamo indagini su alcuni gruppi che nascondevano fondi neri per miliardi di euro e che hanno pagato tangenti in quasi tutti i paesi del mondo. Ho detto ai colleghi: i fatti risalgono al 2003 - 2004, oggi siamo nel 2009, anche se il processo iniziasse subito sarebbe destinato a morire e questi gruppi che hanno corrotto tutto il mondo la faranno franca. Fare quei processi significa inoltrare non meno di 250 rogatorie e intanto la prescrizione seguiterà a galoppare; eppure l’inerzia non dipende da noi, ma dalle procedure dei paesi off-shore che hanno tutto l’interesse a non rispondere o ritardare o a darla incompleta, come spesso fanno. Qualche tempo fa c’erano addirittura un paio di paesi off-shore che si facevano pubblicità sulla stampa internazionale, precisando: “Noi non diamo assistenza alle autorità giudiziarie, in particolare a quella di Milano”. Bellissime isole, peraltro…
mercoledì 30 settembre 2009
Scudo criminale
Domani dunque sarà il gran giorno e lo scudo fiscale diventerà legge. Domani è dunque giorno di festa per molti di coloro che, chissà come, hanno portato i loro soldi all'estero, per evitare di pagarci le tasse o per evitare che qualcuno si chiedesse come quei soldi siano stati fatti.
Naturalmente ormai è tardi per opporsi a questa sciocchezza, dato che è stata approvata anche alla camera, e dubito che Napolitano abbia l'interesse e la voglia di rimandarlo alle camere. E anche se così fosse sarebbe comunque inutile, poichè si tratta pur sempre di un governo che, come un cavallo, guarda solo dritto sulla sua strada, giudicando imbecilli e sabotatori tutti coloro che esprimono dissenso, magari proponendo delle migliorie.
Io però penso sia giusto fare comunque una piccola riflessione su questo scudo fiscale.
Lo scudo fiscale è un provvedimento accettabile o meno? Non mi riferisco a questo scudo in particolare, parlo in generale.
Io in linea di principio sarei contrario allo scudo fiscale, in quanto esso è comunque un regalo a chi ha rubato ricchezza alla collettività per degli interessi del tutto personali, dunque è sempre e comunque un provvedimento che deresponsabilizza il contribuente. Però mi rendo conto che, una volta ogni tanto, c'è bisogno di far rientrare un pò di denaro, sia per la salute delle casse pubbliche, sia per ridare fiato all'economia.
Però, nonostante queste giustissime osservazioni, bisogna ammettere che c'è modo e modo di fare uno scudo fiscale.
I berlusconisti, per difendere questa che secondo me è una porcata, hanno tirato fuori dal cilindro la formidabile argomentazione che "tutti i paesi del mondo hanno uno scudo fiscale".
Essi però dimenticano di far notare come la tassazione degli altri scudi fiscali è sempre superiore, e di molto, rispetto al nostro 5%. Si parla sempre di tassazzioni dal 20 al 45%. Negli USA si paga il 43% e non c'è l'anonimato, ad esempio. Dunque l'agenzia del fisco può controllarti, visto che se hai usufruito dello scudo fiscale in passato hai evaso le tasse.
Il nostro scudo fiscale invece offre ogni tipo di garanzia, ed è proprio per questo che esso è una porcata. Non tanto per ciò che è (politicamente criticabile, ma non condannabile in senso assoluto) nella sua natura lo scudo fiscale, ma per ciò che lo hanno fatto diventare Tremonti e i suoi, ovvero un condono tombale, pagato come sempre dai cittadini onesti.
Non solo, infatti, questo scudo fa pagare al criminale (di questo si tratta) solo il 5% del maltolto, ma gli garantisce l'anonimato e l'impunità in sede penale. Un vero paradiso (altro che Cayman) per tutti gli evasori e i riciclatori di denaro sporco.
Oltretutto la necessità di varare un condono simile in un paese dove si evadono oltre 300 miliardi di euro all'anno e dove le mafie sono sempre più ricche e potenti, è alquanto dubbia.
Vi basti pensare che dal 2007 al 2008 le 4 mafie italiane hanno aumentato i loro ricavi di oltre 40 miliardi di euro. Che fine fanno tutti quei soldi? In parte sono reinvestiti subito in altre attività criminali, altri servono per pagare la manovalanza, altri occorrono per sostenere le famiglie dei carcerati.
Ma buona parte di essi viene esportata o utilizzata per corrompere politici e amministratori. In un paese così era davvero necessario varare questo tipo di scudo fiscale?
Sopratutto, in un paese così era davvero necessario un qualsiasi tipo di scudo fiscale? Nel 2001 lo Stato ricavò circa 2 miliardi di euro, dubito che stavolta si ottenga di più. Io sono convinto che 2 miliardi di euro li si poteva recuperare grazie alla lotta all'evasione fiscale e una razionalizzazione della spesa pubblica, magari cercando di colpire la corruzione e gli sprechi (veri).
Purtroppo però questo governo sceglie sempre la via più facile, una via che però è altamente diseducativa per tutti i contribuenti. Se io sono un accanito evasore delle tasse, per quale motivo devo pagare oltre il 40% di imposte allo Stato? Mi basta portarli all'estero e aspettare il prossimo condono. Non è certo questo un modo di governare responsabile e desideroso di assicurare un futuro a questo paese.
Devo proprio dirlo, che disgrazia che Silvio c'è.
Naturalmente ormai è tardi per opporsi a questa sciocchezza, dato che è stata approvata anche alla camera, e dubito che Napolitano abbia l'interesse e la voglia di rimandarlo alle camere. E anche se così fosse sarebbe comunque inutile, poichè si tratta pur sempre di un governo che, come un cavallo, guarda solo dritto sulla sua strada, giudicando imbecilli e sabotatori tutti coloro che esprimono dissenso, magari proponendo delle migliorie.
Io però penso sia giusto fare comunque una piccola riflessione su questo scudo fiscale.
Lo scudo fiscale è un provvedimento accettabile o meno? Non mi riferisco a questo scudo in particolare, parlo in generale.
Io in linea di principio sarei contrario allo scudo fiscale, in quanto esso è comunque un regalo a chi ha rubato ricchezza alla collettività per degli interessi del tutto personali, dunque è sempre e comunque un provvedimento che deresponsabilizza il contribuente. Però mi rendo conto che, una volta ogni tanto, c'è bisogno di far rientrare un pò di denaro, sia per la salute delle casse pubbliche, sia per ridare fiato all'economia.
Però, nonostante queste giustissime osservazioni, bisogna ammettere che c'è modo e modo di fare uno scudo fiscale.
I berlusconisti, per difendere questa che secondo me è una porcata, hanno tirato fuori dal cilindro la formidabile argomentazione che "tutti i paesi del mondo hanno uno scudo fiscale".
Essi però dimenticano di far notare come la tassazione degli altri scudi fiscali è sempre superiore, e di molto, rispetto al nostro 5%. Si parla sempre di tassazzioni dal 20 al 45%. Negli USA si paga il 43% e non c'è l'anonimato, ad esempio. Dunque l'agenzia del fisco può controllarti, visto che se hai usufruito dello scudo fiscale in passato hai evaso le tasse.
Il nostro scudo fiscale invece offre ogni tipo di garanzia, ed è proprio per questo che esso è una porcata. Non tanto per ciò che è (politicamente criticabile, ma non condannabile in senso assoluto) nella sua natura lo scudo fiscale, ma per ciò che lo hanno fatto diventare Tremonti e i suoi, ovvero un condono tombale, pagato come sempre dai cittadini onesti.
Non solo, infatti, questo scudo fa pagare al criminale (di questo si tratta) solo il 5% del maltolto, ma gli garantisce l'anonimato e l'impunità in sede penale. Un vero paradiso (altro che Cayman) per tutti gli evasori e i riciclatori di denaro sporco.
Oltretutto la necessità di varare un condono simile in un paese dove si evadono oltre 300 miliardi di euro all'anno e dove le mafie sono sempre più ricche e potenti, è alquanto dubbia.
Vi basti pensare che dal 2007 al 2008 le 4 mafie italiane hanno aumentato i loro ricavi di oltre 40 miliardi di euro. Che fine fanno tutti quei soldi? In parte sono reinvestiti subito in altre attività criminali, altri servono per pagare la manovalanza, altri occorrono per sostenere le famiglie dei carcerati.
Ma buona parte di essi viene esportata o utilizzata per corrompere politici e amministratori. In un paese così era davvero necessario varare questo tipo di scudo fiscale?
Sopratutto, in un paese così era davvero necessario un qualsiasi tipo di scudo fiscale? Nel 2001 lo Stato ricavò circa 2 miliardi di euro, dubito che stavolta si ottenga di più. Io sono convinto che 2 miliardi di euro li si poteva recuperare grazie alla lotta all'evasione fiscale e una razionalizzazione della spesa pubblica, magari cercando di colpire la corruzione e gli sprechi (veri).
Purtroppo però questo governo sceglie sempre la via più facile, una via che però è altamente diseducativa per tutti i contribuenti. Se io sono un accanito evasore delle tasse, per quale motivo devo pagare oltre il 40% di imposte allo Stato? Mi basta portarli all'estero e aspettare il prossimo condono. Non è certo questo un modo di governare responsabile e desideroso di assicurare un futuro a questo paese.
Devo proprio dirlo, che disgrazia che Silvio c'è.
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Il Futuro è a Genova
Si apre il 23 ottobre la settima edizione della kermesse. Più di 300 gli eventi in programma
Quest'anno al Festival della Scienza di Genova, giunto ormai alla settima edizione, si parla di Futuro. Tra il 23 ottobre e il 1 novembre la città intera si calerà nei panni di un enorme laboratorio-palcoscenico dove, grazie a più di 300 eventi, si cercherà di sbirciare lungo la strada che sta intraprendendo la ricerca, e la società con essa. Sono infatti ben nove i poli sparsi per tutto il territorio cittadino in cui si concentreranno la maggior parte degli eventi, a cui si aggiungono i musei, i palazzi storici, gli osservatori e i teatri.
Per dare ordine alla kermesse e aiutare il pubblico a orientarsi meglio, il programma è stato suddiviso in cinque percorsi diversi che affronteranno ognuno un aspetto particolare: il futuro della natura, il futuro della tecnologia, il futuro dell'universo, il futuro della vita, il futuro delle idee. Questi temi saranno trattati con linguaggi e modalità diverse, adatte a tutte le età: laboratori o spettacoli teatrali, concerti o conferenze, mostre o giochi per i più piccini. In un clima di costante sperimentazione anche per quanto riguarda i modi e i linguaggi della divulgazione scientifica.
Questa varietà di eventi e modalità di comunicazione saranno i vettori che porteranno il pubblico a confrontarsi con il futuro della ricerca e con argomenti apparentemente lontani o incomprensibili. “Ci sono alcuni ambiti in cui la scienza potrà dare importanti risposte nell'immediato futuro e che aprono orizzonti importanti”, ha spiegato il presidente del Cnr Luciano Maiani, intervenuto oggi alla conferenza stampa di presentazione del Festival: “Comprendere la natura e le proprietà della materia oscura anche grazie alla tecnologia dell'Lhc del Cern è uno di questi, senza dimenticare la 'rivoluzione del Dna', che permetterà non solo di affrontare con nuovi mezzi le sfide della medicina, dell'agricoltura e delle risorse naturali, ma che porterà ad avere un'inimmaginabile quantità di dati e di informazioni da studiare ed elaborare”.
Importante la partecipazione di personalità e istituzioni internazionali. Anche quest'anno per esempio sarà presente un “paese ospite”, l'Egitto, al quale sarà dedicato un intero padiglione (l'anno scorso era stata la volta della Cina). Tra i partecipanti stranieri emerge la presenza di Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina, che aprirà il festival presentando in anteprima un documentario sugli effetti socio-economici della diffusione del virus dell'Hiv.
“Il Festival del 2009 coincide con due importanti anniversari, i 400 anni delle osservazioni di Galileo Galilei e il bicentenario della nascita di Darwin che saranno opportunamente celebrati in varie manifestazione e offriranno spunti di riflessione e di confronto”, ha anticipato Vittorio Bo, direttore del Festival: “Inoltre molte sono le novità, a partire da un nuovo sito dove è disponibile tutto il programma, con una semplice modalità di accesso alle informazioni sugli eventi”. (c.v.)
Quest'anno al Festival della Scienza di Genova, giunto ormai alla settima edizione, si parla di Futuro. Tra il 23 ottobre e il 1 novembre la città intera si calerà nei panni di un enorme laboratorio-palcoscenico dove, grazie a più di 300 eventi, si cercherà di sbirciare lungo la strada che sta intraprendendo la ricerca, e la società con essa. Sono infatti ben nove i poli sparsi per tutto il territorio cittadino in cui si concentreranno la maggior parte degli eventi, a cui si aggiungono i musei, i palazzi storici, gli osservatori e i teatri.
Per dare ordine alla kermesse e aiutare il pubblico a orientarsi meglio, il programma è stato suddiviso in cinque percorsi diversi che affronteranno ognuno un aspetto particolare: il futuro della natura, il futuro della tecnologia, il futuro dell'universo, il futuro della vita, il futuro delle idee. Questi temi saranno trattati con linguaggi e modalità diverse, adatte a tutte le età: laboratori o spettacoli teatrali, concerti o conferenze, mostre o giochi per i più piccini. In un clima di costante sperimentazione anche per quanto riguarda i modi e i linguaggi della divulgazione scientifica.
Questa varietà di eventi e modalità di comunicazione saranno i vettori che porteranno il pubblico a confrontarsi con il futuro della ricerca e con argomenti apparentemente lontani o incomprensibili. “Ci sono alcuni ambiti in cui la scienza potrà dare importanti risposte nell'immediato futuro e che aprono orizzonti importanti”, ha spiegato il presidente del Cnr Luciano Maiani, intervenuto oggi alla conferenza stampa di presentazione del Festival: “Comprendere la natura e le proprietà della materia oscura anche grazie alla tecnologia dell'Lhc del Cern è uno di questi, senza dimenticare la 'rivoluzione del Dna', che permetterà non solo di affrontare con nuovi mezzi le sfide della medicina, dell'agricoltura e delle risorse naturali, ma che porterà ad avere un'inimmaginabile quantità di dati e di informazioni da studiare ed elaborare”.
Importante la partecipazione di personalità e istituzioni internazionali. Anche quest'anno per esempio sarà presente un “paese ospite”, l'Egitto, al quale sarà dedicato un intero padiglione (l'anno scorso era stata la volta della Cina). Tra i partecipanti stranieri emerge la presenza di Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina, che aprirà il festival presentando in anteprima un documentario sugli effetti socio-economici della diffusione del virus dell'Hiv.
“Il Festival del 2009 coincide con due importanti anniversari, i 400 anni delle osservazioni di Galileo Galilei e il bicentenario della nascita di Darwin che saranno opportunamente celebrati in varie manifestazione e offriranno spunti di riflessione e di confronto”, ha anticipato Vittorio Bo, direttore del Festival: “Inoltre molte sono le novità, a partire da un nuovo sito dove è disponibile tutto il programma, con una semplice modalità di accesso alle informazioni sugli eventi”. (c.v.)
Lo staff di Ignazio Marino rifiuta la lista dei "girotondi". Peccato.
di Paolo Flores d'Arcais*
Cari compagni e amici, ma soprattutto concittadini, alla fine di luglio, su questo stesso sito, lanciavo l’idea di una lista “girotondi per Marino”, con cui contribuire al suo successo nelle primarie che eleggeranno il nuovo segretario del Partito democratico. Tal proposta nasceva dalla consapevolezza che la candidatura di Marino aveva la possibilità di vincere esclusivamente se capace di mobilitare una parte dei quattro milioni di elettori del Pd che hanno deciso di non votarlo più nell’anno intercorso tra le politiche e le europee (e degli altri milioni, sicuramente democratici, che già non avevano votato per Veltroni).
Per questo ho formulato a fine luglio “undici punti”, assolutamente non esaustivi ma chiaramente indicativi di un orientamento intransigente contro ogni tentazione di inciucio e dunque nei confronti di tutti i dirigenti del Pd, “con cui non vinceremo mai”. E ho chiesto a quanti fossero iscritti al Pd e condividessero tali punti, di dare la loro disponibilità a candidarsi in questa lista di “girotondi per Marino”, di raccoglier le firme per presentarla, di impegnarsi a sostenerla nelle settimane precedenti le primarie. Il meccanismo delle primarie non prevede infatti che si voti direttamente per un candidato, ma che si voti per una delle liste che lo sostengono.
La risposta è stata più che incoraggiante. Malgrado agosto sia per ogni “impegno” un mese morto, circa duecento iscritti al Pd hanno mandato la loro disponibilità ad essere candidati, la maggior parte allegando un dettagliato curriculum. Ho perciò messo al corrente Ignazio Marino di questi promettenti risultati: se avesse accettato il sostegno di questa lista, con una pubblica conferenza stampa, e poi indicando nel corso di tutti i suoi incontri (tre o quattro al giorno) un sito e una mail dove indirizzare le altre disponibilità a candidarsi, era più che probabile che gli altri ottocento candidati (le liste devono essere di mille candidati ciascuna) sarebbero stati raccolti in un tempo molto breve.
Marino si è detto favorevole, con un calore che a tratti mi è sembrato entusiasmo, e in un dialogo con me per la rivista MicroMega (dal 25 settembre in edicola, e che spero leggerete con interesse, perché ricchissimo anche su altri temi) ha ribadito la sua decisione positiva, ed ha anzi spiegato la sua intenzione di essere appoggiato da tre liste: una legata a dirigenti locali del Pd (l’on. Meta e i “piombini” di Civati, per intenderci), una quella da me proposta, e una che fosse espressione del mondo delle associazioni e del volontariato.
Qualche giorno dopo, però, in risposta alle mie sollecitazioni per dare pratica realizzazione al progetto, Marino mi rispondeva che a seguito di una consultazione con il suo staff era stato deciso di rifiutare la nostra lista “girotondi per Marino”. Gli argomenti addotti (che più liste comporterebbe la dispersione di alcuni “resti”, e che la sua impostazione per un “partito dei circoli” esclude più liste di appoggio) mi sono sembrati e mi sembrano francamente speciosi. Esistevano anche prima. Inoltre: sul piano tecnico i “resti” vengono conteggiati a livello regionale e nazionale, e sono più che compensati dalla possibilità di raccogliere consensi in ambienti con sensibilità politiche diverse, consensi che mai convergerebbero su una sola lista.
Credo che con questa scelta la candidatura di Marino perda ogni chance di successo, e possa dar vita ormai solo ad una presenza di minoranza, cioè ad una “corrente” di quadri intenzionati a “condizionare” il nuovo segretario. Prospettiva che ho sempre considerato di spessore nullo rispetto alla drammaticità della crisi che stiamo vivendo.
Peccato.
p.s. In realta, ripensandoci ora, la cosa giusta sarebbe stata avere quattro liste pro-Marino, visto che sono tanti i “grillini” che si sono iscritti al Pd quando Beppe Grillo tentò inutilmente di farlo. Resto convinto che attraverso queste quattro liste Marino avrebbe vinto. Di nuovo: peccato.
Cari compagni e amici, ma soprattutto concittadini, alla fine di luglio, su questo stesso sito, lanciavo l’idea di una lista “girotondi per Marino”, con cui contribuire al suo successo nelle primarie che eleggeranno il nuovo segretario del Partito democratico. Tal proposta nasceva dalla consapevolezza che la candidatura di Marino aveva la possibilità di vincere esclusivamente se capace di mobilitare una parte dei quattro milioni di elettori del Pd che hanno deciso di non votarlo più nell’anno intercorso tra le politiche e le europee (e degli altri milioni, sicuramente democratici, che già non avevano votato per Veltroni).
Per questo ho formulato a fine luglio “undici punti”, assolutamente non esaustivi ma chiaramente indicativi di un orientamento intransigente contro ogni tentazione di inciucio e dunque nei confronti di tutti i dirigenti del Pd, “con cui non vinceremo mai”. E ho chiesto a quanti fossero iscritti al Pd e condividessero tali punti, di dare la loro disponibilità a candidarsi in questa lista di “girotondi per Marino”, di raccoglier le firme per presentarla, di impegnarsi a sostenerla nelle settimane precedenti le primarie. Il meccanismo delle primarie non prevede infatti che si voti direttamente per un candidato, ma che si voti per una delle liste che lo sostengono.
La risposta è stata più che incoraggiante. Malgrado agosto sia per ogni “impegno” un mese morto, circa duecento iscritti al Pd hanno mandato la loro disponibilità ad essere candidati, la maggior parte allegando un dettagliato curriculum. Ho perciò messo al corrente Ignazio Marino di questi promettenti risultati: se avesse accettato il sostegno di questa lista, con una pubblica conferenza stampa, e poi indicando nel corso di tutti i suoi incontri (tre o quattro al giorno) un sito e una mail dove indirizzare le altre disponibilità a candidarsi, era più che probabile che gli altri ottocento candidati (le liste devono essere di mille candidati ciascuna) sarebbero stati raccolti in un tempo molto breve.
Marino si è detto favorevole, con un calore che a tratti mi è sembrato entusiasmo, e in un dialogo con me per la rivista MicroMega (dal 25 settembre in edicola, e che spero leggerete con interesse, perché ricchissimo anche su altri temi) ha ribadito la sua decisione positiva, ed ha anzi spiegato la sua intenzione di essere appoggiato da tre liste: una legata a dirigenti locali del Pd (l’on. Meta e i “piombini” di Civati, per intenderci), una quella da me proposta, e una che fosse espressione del mondo delle associazioni e del volontariato.
Qualche giorno dopo, però, in risposta alle mie sollecitazioni per dare pratica realizzazione al progetto, Marino mi rispondeva che a seguito di una consultazione con il suo staff era stato deciso di rifiutare la nostra lista “girotondi per Marino”. Gli argomenti addotti (che più liste comporterebbe la dispersione di alcuni “resti”, e che la sua impostazione per un “partito dei circoli” esclude più liste di appoggio) mi sono sembrati e mi sembrano francamente speciosi. Esistevano anche prima. Inoltre: sul piano tecnico i “resti” vengono conteggiati a livello regionale e nazionale, e sono più che compensati dalla possibilità di raccogliere consensi in ambienti con sensibilità politiche diverse, consensi che mai convergerebbero su una sola lista.
Credo che con questa scelta la candidatura di Marino perda ogni chance di successo, e possa dar vita ormai solo ad una presenza di minoranza, cioè ad una “corrente” di quadri intenzionati a “condizionare” il nuovo segretario. Prospettiva che ho sempre considerato di spessore nullo rispetto alla drammaticità della crisi che stiamo vivendo.
Peccato.
p.s. In realta, ripensandoci ora, la cosa giusta sarebbe stata avere quattro liste pro-Marino, visto che sono tanti i “grillini” che si sono iscritti al Pd quando Beppe Grillo tentò inutilmente di farlo. Resto convinto che attraverso queste quattro liste Marino avrebbe vinto. Di nuovo: peccato.
Velo sì, velo no!
di Gian Mario Gillio*
Il Corano, nella sura II, versetto 256, recita: «Non vi è costrizione nella fede»; nella sura XVIII, versetto 29, dice anche: «Di’: La verità viene dal vostro Signore: chi vuole creda, chi non vuole non creda». Posizioni fondamentaliste queste? Coercitive? Certamente no! I fondamentalismi, tuttavia, sono il vero pericolo della nostra società, e a volte chi cerca di combatterli rischia di essere più «fondamentalista dei fondamentalisti». Così potremmo definire alcuni atteggiamenti, commenti, considerazioni, riflessioni e soprattutto titoli usciti in questi giorni su la Padania: “La Sharia fa un’altra vittima al nord – amava un cristiano, il padre la uccide” oppure “Gli islamici okkupano il Piave”, strilli, questi, pericolosi e devianti. Il delitto della giovane Sanaa molto probabilmente poco o nulla aveva a che vedere con la religione islamica, più corretto sarebbe stato trattare l’argomento come un caso di cronaca nera evidenziando il raptus di follia di quell’uomo e, in seconda analisi, della sua errata interpretazione religiosa che lo ha spinto a tale gesto. Anche molti cristiani, come ben sappiamo, hanno compiuto tremendi atti di violenza e omicidi, ma mai abbiamo letto in prima pagina titoli simili a quello della Padania. Pensate cosa accadrebbe se si titolasse in prima pagina: “La religione cattolica fa un’altra vittima al nord – amava un musulmano, il padre la uccide”. E gli “okkupanti del Piave” che hanno così spaventato il quotidiano leghista per l’improvvisa invasione (mamma li turchi!), che cosa avrebbero mai fatto? Stavano semplicemente manifestando per esprimere il loro dissenso verso la politica governativa in materia di immigrazione e di respingimenti.
Altro tema di questi giorni, i provvedimenti amministrativi che alcune città italiane vorrebbero attuare per impedire l’uso del chador o burqa (ancora poco visibile in Italia) alle donne di fede islamica. Per “sensibilizzare” l’opinione pubblica su questo tema è “venuta in soccorso” l’ex parlamentare Santanchè, che a Milano, in occasione della chiusura del Ramadan, ha cercato di impedirne l’uso ad alcune donne islamiche. Perché lo avrebbe fatto? Per difendere la «laicità» dello Stato? La nostra Carta costituzionale, laicamente, già lo fa, riconoscendo alle religioni uguale diritto d’espressione. Oppure si è sentita investita del ruolo di portavoce di un comune disagio del popolo italiano, in particolare femminile, per il fatto che alcune donne islamiche, proprio come avveniva in passato in Italia, ed ancora oggi in molte regioni del sud della nostra penisola, indossino il velo? Non possiamo saperlo, ma una cosa è certa: moltissimi italiani non si sono sentiti affatto rappresentati dalle eroiche gesta della ex parlamentare. La questione del velo, in seno al mondo femminile musulmano, già da molti anni sta assumendo un valore simbolico fondamentale. All'interno della diaspora musulmana insediata in Europa ci sono donne che lo considerano come un simbolo negativo che ostacola l'emancipazione e l'affermazione della laicità e delle istanze pubbliche. Ci sono altre che lo ritengono rilevante come simbolo identitario e di appartenenza in una società plurale.
La discussione è dunque aperta. Portare ad una violenta divisione fra oppositrici e sostenitrici del velo rischia in qualche modo di creare una spaccatura all'interno della realtà femminile musulmana e di distogliere l'attenzione su questioni ben più importanti quali la situazione della donna nel mondo islamico, i suoi diritti e la sua emancipazione come soggetto sociale che ha pari diritti, dignità e doveri rispetto all'uomo. Alcuni movimenti, oggi, in nome della libertà religiosa e della laicità – che essi stessi, spesso negano agli altri – cercano di consolidare un consenso populista pericoloso e fuorviante. La questione non è: velo sì, velo no, ma garantire la libertà d’espressione a tutti, anche alle diverse espressioni di fede, proprio come dice la nostra Costituzione e come avviene per i nostri simboli religiosi. Al di là di quanto detto finora, vanno segnalati anche alcuni gesti importanti di solidarietà indirizzati alle comunità islamiche presenti in Italia, come, ad esempio i messaggi di amicizia del mondo cristiano ed evangelico italiano in occasione delle celebrazioni per la fine del mese di Ramadan. In particolare il 18 settembre (il prossimo 27 ottobre si terrà in tutta Italia la Giornata del dialogo cristiano-islamico), una delegazione ecumenica promossa dal mensile Confronti ha reso visita alla comunità islamica della capitale raccolta presso la Grande Moschea per la preghiera del venerdì. Tra gli altri, erano presenti la presidente dell’Unione cristiana evangelica battista d'Italia (UCEBI), pastora Anna Maffei; la moderatora della Tavola valdese, pastora Maria Bonafede; la responsabile del dipartimento per la libertà religiosa dell’Unione delle chiese cristiane avventiste (UICCA), Dora Bognandi. Il presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), Domenico Maselli, ha fatto arrivare il suo messaggio di saluto al segretario generale del Centro culturale islamico d’Italia, Abdellah Redouane, sottolineando "la necessità di rapporti sempre più stretti tra comunità di fede impegnate nel dialogo interreligioso e nell’affermazione del valore del pluralismo. In ogni angolo del mondo – ha sottolineato Maselli – la libertà religiosa resta un valore prezioso ed insopprimibile e per questo sosteniamo le richieste dei musulmani in Italia tese al riconoscimento della loro comunità che, anche in Italia, ha un rilievo sociale sempre maggiore". All’incontro nella moschea di Roma erano presenti anche alcuni politici di fede valdese: il senatore Lucio Malan (PdL) e Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista.
Malan in un comunicato stampa diffuso dall’agenzia Nev in seguito all’incidente scoppiato a Milano che ha coinvolto Daniela Santanché, che protestava contro il chador, e qualche membro della comunità islamica riunita per le celebrazioni di fine Ramadan, ha dichiarato: "Da una parte, se c'è un colpevole di aggressione, va certamente punito, ma dall'altra, bisogna evitare un clima di scontro, che rafforzerebbe gli estremisti… Di certo, deve essere rivista la legge che vieta l'uso di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. Stabilire se certe tradizioni etnico-religiose sono o non sono ‘un giustificato motivo’ non può essere lasciato sempre al giudice o alle forze dell'ordine presenti sul posto".
Una riflessione seria che passi tra il rigido Burqa, che investe la questione dei diritti, e la lecita nudità minorile sdoganata dalla televisione italiana con la relativa rappresentazione mediatica femminile che ne scaturisce, è certamente utile e necessaria, ma solo se fatta in modo serio e non sensazionalistico. Per ora non abbiamo notizia di provvedimenti amministrativi in atto per impedire che decoltée provocanti, lifting omologanti, aspiranti veline ed escort, possano turbare la quiete pubblica o girare indisturbate per le strade italiane, soprattutto nei pressi di Piazza Venezia a Roma.
Il Corano, nella sura II, versetto 256, recita: «Non vi è costrizione nella fede»; nella sura XVIII, versetto 29, dice anche: «Di’: La verità viene dal vostro Signore: chi vuole creda, chi non vuole non creda». Posizioni fondamentaliste queste? Coercitive? Certamente no! I fondamentalismi, tuttavia, sono il vero pericolo della nostra società, e a volte chi cerca di combatterli rischia di essere più «fondamentalista dei fondamentalisti». Così potremmo definire alcuni atteggiamenti, commenti, considerazioni, riflessioni e soprattutto titoli usciti in questi giorni su la Padania: “La Sharia fa un’altra vittima al nord – amava un cristiano, il padre la uccide” oppure “Gli islamici okkupano il Piave”, strilli, questi, pericolosi e devianti. Il delitto della giovane Sanaa molto probabilmente poco o nulla aveva a che vedere con la religione islamica, più corretto sarebbe stato trattare l’argomento come un caso di cronaca nera evidenziando il raptus di follia di quell’uomo e, in seconda analisi, della sua errata interpretazione religiosa che lo ha spinto a tale gesto. Anche molti cristiani, come ben sappiamo, hanno compiuto tremendi atti di violenza e omicidi, ma mai abbiamo letto in prima pagina titoli simili a quello della Padania. Pensate cosa accadrebbe se si titolasse in prima pagina: “La religione cattolica fa un’altra vittima al nord – amava un musulmano, il padre la uccide”. E gli “okkupanti del Piave” che hanno così spaventato il quotidiano leghista per l’improvvisa invasione (mamma li turchi!), che cosa avrebbero mai fatto? Stavano semplicemente manifestando per esprimere il loro dissenso verso la politica governativa in materia di immigrazione e di respingimenti.
Altro tema di questi giorni, i provvedimenti amministrativi che alcune città italiane vorrebbero attuare per impedire l’uso del chador o burqa (ancora poco visibile in Italia) alle donne di fede islamica. Per “sensibilizzare” l’opinione pubblica su questo tema è “venuta in soccorso” l’ex parlamentare Santanchè, che a Milano, in occasione della chiusura del Ramadan, ha cercato di impedirne l’uso ad alcune donne islamiche. Perché lo avrebbe fatto? Per difendere la «laicità» dello Stato? La nostra Carta costituzionale, laicamente, già lo fa, riconoscendo alle religioni uguale diritto d’espressione. Oppure si è sentita investita del ruolo di portavoce di un comune disagio del popolo italiano, in particolare femminile, per il fatto che alcune donne islamiche, proprio come avveniva in passato in Italia, ed ancora oggi in molte regioni del sud della nostra penisola, indossino il velo? Non possiamo saperlo, ma una cosa è certa: moltissimi italiani non si sono sentiti affatto rappresentati dalle eroiche gesta della ex parlamentare. La questione del velo, in seno al mondo femminile musulmano, già da molti anni sta assumendo un valore simbolico fondamentale. All'interno della diaspora musulmana insediata in Europa ci sono donne che lo considerano come un simbolo negativo che ostacola l'emancipazione e l'affermazione della laicità e delle istanze pubbliche. Ci sono altre che lo ritengono rilevante come simbolo identitario e di appartenenza in una società plurale.
La discussione è dunque aperta. Portare ad una violenta divisione fra oppositrici e sostenitrici del velo rischia in qualche modo di creare una spaccatura all'interno della realtà femminile musulmana e di distogliere l'attenzione su questioni ben più importanti quali la situazione della donna nel mondo islamico, i suoi diritti e la sua emancipazione come soggetto sociale che ha pari diritti, dignità e doveri rispetto all'uomo. Alcuni movimenti, oggi, in nome della libertà religiosa e della laicità – che essi stessi, spesso negano agli altri – cercano di consolidare un consenso populista pericoloso e fuorviante. La questione non è: velo sì, velo no, ma garantire la libertà d’espressione a tutti, anche alle diverse espressioni di fede, proprio come dice la nostra Costituzione e come avviene per i nostri simboli religiosi. Al di là di quanto detto finora, vanno segnalati anche alcuni gesti importanti di solidarietà indirizzati alle comunità islamiche presenti in Italia, come, ad esempio i messaggi di amicizia del mondo cristiano ed evangelico italiano in occasione delle celebrazioni per la fine del mese di Ramadan. In particolare il 18 settembre (il prossimo 27 ottobre si terrà in tutta Italia la Giornata del dialogo cristiano-islamico), una delegazione ecumenica promossa dal mensile Confronti ha reso visita alla comunità islamica della capitale raccolta presso la Grande Moschea per la preghiera del venerdì. Tra gli altri, erano presenti la presidente dell’Unione cristiana evangelica battista d'Italia (UCEBI), pastora Anna Maffei; la moderatora della Tavola valdese, pastora Maria Bonafede; la responsabile del dipartimento per la libertà religiosa dell’Unione delle chiese cristiane avventiste (UICCA), Dora Bognandi. Il presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), Domenico Maselli, ha fatto arrivare il suo messaggio di saluto al segretario generale del Centro culturale islamico d’Italia, Abdellah Redouane, sottolineando "la necessità di rapporti sempre più stretti tra comunità di fede impegnate nel dialogo interreligioso e nell’affermazione del valore del pluralismo. In ogni angolo del mondo – ha sottolineato Maselli – la libertà religiosa resta un valore prezioso ed insopprimibile e per questo sosteniamo le richieste dei musulmani in Italia tese al riconoscimento della loro comunità che, anche in Italia, ha un rilievo sociale sempre maggiore". All’incontro nella moschea di Roma erano presenti anche alcuni politici di fede valdese: il senatore Lucio Malan (PdL) e Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista.
Malan in un comunicato stampa diffuso dall’agenzia Nev in seguito all’incidente scoppiato a Milano che ha coinvolto Daniela Santanché, che protestava contro il chador, e qualche membro della comunità islamica riunita per le celebrazioni di fine Ramadan, ha dichiarato: "Da una parte, se c'è un colpevole di aggressione, va certamente punito, ma dall'altra, bisogna evitare un clima di scontro, che rafforzerebbe gli estremisti… Di certo, deve essere rivista la legge che vieta l'uso di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. Stabilire se certe tradizioni etnico-religiose sono o non sono ‘un giustificato motivo’ non può essere lasciato sempre al giudice o alle forze dell'ordine presenti sul posto".
Una riflessione seria che passi tra il rigido Burqa, che investe la questione dei diritti, e la lecita nudità minorile sdoganata dalla televisione italiana con la relativa rappresentazione mediatica femminile che ne scaturisce, è certamente utile e necessaria, ma solo se fatta in modo serio e non sensazionalistico. Per ora non abbiamo notizia di provvedimenti amministrativi in atto per impedire che decoltée provocanti, lifting omologanti, aspiranti veline ed escort, possano turbare la quiete pubblica o girare indisturbate per le strade italiane, soprattutto nei pressi di Piazza Venezia a Roma.
Scudo fiscale, come evitare che aiuti le mafie
di Roberto Scarpinato - 30 settembre 2009
Per valutare le possibili ricadute della prossima approvazione del nuovo scudo fiscale, può essere utile ricordare alcuni degli effetti negativi conseguenti all’entrata in vigore del precedente scudo: quello introdotto dal decreto legge 350/2001.
In quell’occasione fu regolarizzata una somma globale di circa 73 miliardi di euro. A fronte di tale enorme massa di capitale, furono effettuate meno di trecento segnalazioni di operazioni sospette in tutt’Italia, di cui nessuna che riguardava la Sicilia. Grazie alle garanzie di anonimato accordate da quella legge, non fu possibile selezionare e intercettare il denaro sporco frutto di gravi delitti, ben diversi da quelli di natura fiscale per i quali era stata accordata la non punibilità.
Solo per una fortuita coincidenza investigativa, la procura di Palermo ebbe modo di individuare e sequestrare alcuni milioni di euro che uno dei riciclatori più importanti di Cosa Nostra, già condannato per mafia, stava tentando di fare rientrare in Italia. Ma si trattò solo di una goccia nel mare. Così un enorme e improvviso flusso di capitale sporco refluì come un invisibile fiume carsico nel bacino dell’economia legale, con effetti inquinanti e distorsivi del libero mercato, segnalati da vari indicatori .
In quegli anni apparve sulla scena una miriade di nuovi ricchi che acquistavano a tutto spiano pacchetti azionari, immobili, attività imprenditoriali e commerciali con offerte di contante che “non si potevano rifiutare”, per la loro estrema appetibilità rispetto agli ordinari standard di mercato.
In alcune rinomate località turistiche si verificò il passaggio di mano di varie attività alberghiere e di ristorazione. Si registrò anche un singolare fenomeno linguistico: improvvisamente in quei locali si sentirono risuonare parlate siciliane, calabresi e campane, al posto dei precedenti idiomi locali. Del resto ai mafiosi il Centro Nord è sempre piaciuto moltissimo: posti tranquilli dove si può investire e “lavorare” senza problemi, e dove spesso si è ancora convinti che la mafia sia solo una storia di “coppole storte”, un relitto feudale del Sud arretrato.
Per evitare che la legislazione antimafia diventi un’eterna tela di Penelope, che di giorno si tesse con nuovi provvedimenti e di notte si sfila creando enormi zone di opacità impermeabili alle indagini, sarebbe il caso che questa volta non si ripetessero gli errori del passato e, dunque, si dotasse la magistratura di strumenti idonei per intercettare quelli tra i capitali rientrati che non sono frutto di reati condonabili, ma di altre attività criminose.
A tal fine sarebbe quantomeno indispensabile che la nuova legge imponesse espressamente agli intermediari finanziari (le banche che ricevono i capitali fatti rientrare) l’obbligo di comunicare i nominativi dei soggetti “scudati” all’Anagrafe centralizzata dei rapporti finanziari istituita presso l’Agenzia delle entrate, e che l’Anagrafe provvedesse a contrassegnare tali nominativi con un codice convenzionale in modo da consentirne l’immediata individuazione.
Attualmente tale obbligo è previsto solo da una semplice circolare del 2007, che già in tanti si sono affrettati a ritenere non applicabile in quanto non espressamente richiamata dal decreto legge 78/2009 che prevede il nuovo scudo fiscale.
Coloro che faranno rientrare o regolarizzeranno capitali derivanti da reati non punibili, non avranno nulla da temere da una simile operazione di trasparenza, giacché la legge garantisce loro l’immunità penale e fiscale. D’altra parte rendere immediatamente “visibili” alla magistratura i nominativi dei soggetti scudati, offrirebbe la possibilità di verificare - nei modi e con le garanzie previste per le indagini penali - se tra costoro si celino prestanome e riciclatori di indagati per reati di mafia ed altri gravi reati, e di sventare così il tentativo di approfittare indebitamente dell’opportunità offerta dalla nuova legge per “ripulire” sotto banco denaro sporco.
Continuare invece a garantire l’anonimato ai soggetti scudati, affievolire per gli intermediari finanziari o addirittura eliminare l’obbligo di segnalare le operazioni sospette potrebbe essere frainteso come un pericoloso cedimento alla cultura dell’omertà, oltre che aprire di fatto un varco incontrollabile al riciclaggio di capitali illegali.
Si correrebbe così il rischio di cadere dalla sindrome della tela di Penelope nella più grave patologia della perturbante doppiezza di uno Stato che prima chiede ai cittadini di esporsi coraggiosamente in prima persona denunciando le richieste estorsive, e poi li invita a voltarsi dall’altra parte quando si tratta di “fare cassa”, accettando il rischio di “regolarizzare” anche gli introiti delle estorsioni. Perché, si sa, “pecunia non olet”. (Roberto Scarpinato,Pm presso la Direzione Antimafia di Palermo)
Per valutare le possibili ricadute della prossima approvazione del nuovo scudo fiscale, può essere utile ricordare alcuni degli effetti negativi conseguenti all’entrata in vigore del precedente scudo: quello introdotto dal decreto legge 350/2001.
In quell’occasione fu regolarizzata una somma globale di circa 73 miliardi di euro. A fronte di tale enorme massa di capitale, furono effettuate meno di trecento segnalazioni di operazioni sospette in tutt’Italia, di cui nessuna che riguardava la Sicilia. Grazie alle garanzie di anonimato accordate da quella legge, non fu possibile selezionare e intercettare il denaro sporco frutto di gravi delitti, ben diversi da quelli di natura fiscale per i quali era stata accordata la non punibilità.
Solo per una fortuita coincidenza investigativa, la procura di Palermo ebbe modo di individuare e sequestrare alcuni milioni di euro che uno dei riciclatori più importanti di Cosa Nostra, già condannato per mafia, stava tentando di fare rientrare in Italia. Ma si trattò solo di una goccia nel mare. Così un enorme e improvviso flusso di capitale sporco refluì come un invisibile fiume carsico nel bacino dell’economia legale, con effetti inquinanti e distorsivi del libero mercato, segnalati da vari indicatori .
In quegli anni apparve sulla scena una miriade di nuovi ricchi che acquistavano a tutto spiano pacchetti azionari, immobili, attività imprenditoriali e commerciali con offerte di contante che “non si potevano rifiutare”, per la loro estrema appetibilità rispetto agli ordinari standard di mercato.
In alcune rinomate località turistiche si verificò il passaggio di mano di varie attività alberghiere e di ristorazione. Si registrò anche un singolare fenomeno linguistico: improvvisamente in quei locali si sentirono risuonare parlate siciliane, calabresi e campane, al posto dei precedenti idiomi locali. Del resto ai mafiosi il Centro Nord è sempre piaciuto moltissimo: posti tranquilli dove si può investire e “lavorare” senza problemi, e dove spesso si è ancora convinti che la mafia sia solo una storia di “coppole storte”, un relitto feudale del Sud arretrato.
Per evitare che la legislazione antimafia diventi un’eterna tela di Penelope, che di giorno si tesse con nuovi provvedimenti e di notte si sfila creando enormi zone di opacità impermeabili alle indagini, sarebbe il caso che questa volta non si ripetessero gli errori del passato e, dunque, si dotasse la magistratura di strumenti idonei per intercettare quelli tra i capitali rientrati che non sono frutto di reati condonabili, ma di altre attività criminose.
A tal fine sarebbe quantomeno indispensabile che la nuova legge imponesse espressamente agli intermediari finanziari (le banche che ricevono i capitali fatti rientrare) l’obbligo di comunicare i nominativi dei soggetti “scudati” all’Anagrafe centralizzata dei rapporti finanziari istituita presso l’Agenzia delle entrate, e che l’Anagrafe provvedesse a contrassegnare tali nominativi con un codice convenzionale in modo da consentirne l’immediata individuazione.
Attualmente tale obbligo è previsto solo da una semplice circolare del 2007, che già in tanti si sono affrettati a ritenere non applicabile in quanto non espressamente richiamata dal decreto legge 78/2009 che prevede il nuovo scudo fiscale.
Coloro che faranno rientrare o regolarizzeranno capitali derivanti da reati non punibili, non avranno nulla da temere da una simile operazione di trasparenza, giacché la legge garantisce loro l’immunità penale e fiscale. D’altra parte rendere immediatamente “visibili” alla magistratura i nominativi dei soggetti scudati, offrirebbe la possibilità di verificare - nei modi e con le garanzie previste per le indagini penali - se tra costoro si celino prestanome e riciclatori di indagati per reati di mafia ed altri gravi reati, e di sventare così il tentativo di approfittare indebitamente dell’opportunità offerta dalla nuova legge per “ripulire” sotto banco denaro sporco.
Continuare invece a garantire l’anonimato ai soggetti scudati, affievolire per gli intermediari finanziari o addirittura eliminare l’obbligo di segnalare le operazioni sospette potrebbe essere frainteso come un pericoloso cedimento alla cultura dell’omertà, oltre che aprire di fatto un varco incontrollabile al riciclaggio di capitali illegali.
Si correrebbe così il rischio di cadere dalla sindrome della tela di Penelope nella più grave patologia della perturbante doppiezza di uno Stato che prima chiede ai cittadini di esporsi coraggiosamente in prima persona denunciando le richieste estorsive, e poi li invita a voltarsi dall’altra parte quando si tratta di “fare cassa”, accettando il rischio di “regolarizzare” anche gli introiti delle estorsioni. Perché, si sa, “pecunia non olet”. (Roberto Scarpinato,Pm presso la Direzione Antimafia di Palermo)
martedì 29 settembre 2009
Il grande fratello
Anche ieri sera un programma d'informazione, considerato di sinistra, ovvero "L'infedele" di Gad Lerner, ha trattato di Berlusconi, delle veline, delle donne.
Io pensavo di assistere a un programma interessante, che parlasse delle donne, del maschilismo, dell'eterno machismo italiano. Sarebbero stati degli argomenti molto interessanti, un'occasione preziosa per discutere del costume e della società italiana, delle possibili conseguenze, delle cause, di come la pensano uomini e donne. Insomma, si poteva prendere coscienza di un problema.
Invece il programma è stato impostato più che altro su Berlusconi, sulle escort, sui soliti temi di cui si discute ormai da 4 o 5 mesi.
Ora, mi chiedo io, era davvero necessario renderlo protagonista ancora una volta? Non si poteva trattare di quei temi a prescindere da Berlusconi in particolare e dai politici in generale?
Non sto dicendo che in questa maniera gli si portano dei nuovi voti, lo si fa amare agli italiani ancor di più di quanto già non sia ora. Non è questo che mi interessa, mi interessa capire perchè non si possa mai discutere di un argomento senza farci entrare Berlusconi.
Non sto neanche dicendo che egli non abbia responsabilità sul fenomeno del machismo e maschilismo, sappiamo bene qual'è la teoria da questo punto di vista.
In questa maniera si riduce il dibattito esclusivamente su di lui, come fosse lui l'unico protagonista della vita italiana, di ogni fatto sociale, culturale, politico, economico.
E' un concetto questo che ho già espresso, ma ogni giorno di più me ne accorgo.
Qual'è il ruolo dei media? Essi devono prendere i fatti e raccontarli, commentarli, dare loro una spiegazione, di parte fin che si vuole, ma loro devono raccontare i fatti innanzitutto. Poi c'è la politica, che dovrebbe risolverli, o almeno tentare di farlo.
Invece su ogni argomento c'è sempre e soltanto l'eterna analisi su Berlusconi, sul suo modo di fare, sul suo passato, sul suo presente, sulle sue dichiarazioni (o su quelle dei suoi servi).
Io temo che così non si faccia altro che accrescerne l'ego e l'importanza, oltre un livello normale. Capisco che egli faccia di tutto per rendersi onnipresente, un misto tra Dio e il Grande Fratello (a proposito di Grande Fratello orwelliano) ma perchè la sinistra deve fare il suo gioco?
Perchè non si parla dei problemi, cercando di capire come essi sono venuti a galla? Sul tema del rispetto delle donne ci sta certamente anche menzionare Drive In o Striscia la Notizia, non lo nego, ma possibile che mezzo programma dovesse interessarsi delle dichiarazioni (ormai datate di oltre 2 settimane) che Berlusconi fece in Sardegna quando aveva come ospite Zapatero?
La stessa cosa l'ha fatta AnnoZero, anche se poi da Santoro si sono salvati con un'intervista inedita alla D'Addario, ma Lerner ha davvero dato vita a una puntata sciatta e povera di riflessioni.
Ma Lerner non è certo il solo, tutt'altro, vi sono molti altri giornalisti e molti altri giornali che commettono lo stesso identico errore.
Io penso che i media svolgano un ruolo fondamentale in una società ed esso è quello di formare l'opinione dei cittadini. Ora, sapendo che gli italiani si informano solamente grazie alla tv, sapendo che la tv è quasi tutta nelle mani dei servi berlusconisti, i quali non fanno altro che trasmettere immagini trionfalistiche del loro padrone non sarebbe meglio che i media di sinistra, o di opposizione, se ce ne sono, trattassero dei problemi italiani a prescindere da Berlusconi?
La mafia c'è, Berlusconi è mafioso, ma spiegate perchè la mafia e l'economia mafiosa è dannosa.
La corruzione c'è, Berlusconi la protegge, ma spiegate perchè la corruzione è dannosa.
La partitocrazia non è morta, Berlusconi la protegge, ma spiegate quali sono i suoi effetti.
Il razzismo c'è, i servi di Berlusconi lo alimentano, ma spiegati quali basi razionali vi sono, se ce ne sono, nel razzismo.
Insomma, questa è l'informazione che mi piacerebbe vedere in tv e leggere nei giornali.
Non sono, lo ripeto, tra coloro che pensano che parlando male di Berlusconi lo si rafforzi, ma sono tra coloro che pensano che parlare di certi problemi, come la mafia, e accostarli a Berlusconi, faccia si che gli italiani sottovalutino questi problemi, magari sospettosi che si tratti di una macchinazione dei comunisti. Ormai in Italia si è fatta un'equazione pericolosa: la sinistra dice che Berlusconi e la mafia sono alleati? Sarà anche vero (ammesso e non concesso che non sia alleata pure con Franceschini), ma allora vuol dire che la mafia non è così pericolosa o dannosa.
Vogliamo continuare su questa strada senza ritorno o vogliamo cominciare a fare informazione seria, politica seria, tentando di costruire un futuro che prescinda dall'Imperator?
Io pensavo di assistere a un programma interessante, che parlasse delle donne, del maschilismo, dell'eterno machismo italiano. Sarebbero stati degli argomenti molto interessanti, un'occasione preziosa per discutere del costume e della società italiana, delle possibili conseguenze, delle cause, di come la pensano uomini e donne. Insomma, si poteva prendere coscienza di un problema.
Invece il programma è stato impostato più che altro su Berlusconi, sulle escort, sui soliti temi di cui si discute ormai da 4 o 5 mesi.
Ora, mi chiedo io, era davvero necessario renderlo protagonista ancora una volta? Non si poteva trattare di quei temi a prescindere da Berlusconi in particolare e dai politici in generale?
Non sto dicendo che in questa maniera gli si portano dei nuovi voti, lo si fa amare agli italiani ancor di più di quanto già non sia ora. Non è questo che mi interessa, mi interessa capire perchè non si possa mai discutere di un argomento senza farci entrare Berlusconi.
Non sto neanche dicendo che egli non abbia responsabilità sul fenomeno del machismo e maschilismo, sappiamo bene qual'è la teoria da questo punto di vista.
In questa maniera si riduce il dibattito esclusivamente su di lui, come fosse lui l'unico protagonista della vita italiana, di ogni fatto sociale, culturale, politico, economico.
E' un concetto questo che ho già espresso, ma ogni giorno di più me ne accorgo.
Qual'è il ruolo dei media? Essi devono prendere i fatti e raccontarli, commentarli, dare loro una spiegazione, di parte fin che si vuole, ma loro devono raccontare i fatti innanzitutto. Poi c'è la politica, che dovrebbe risolverli, o almeno tentare di farlo.
Invece su ogni argomento c'è sempre e soltanto l'eterna analisi su Berlusconi, sul suo modo di fare, sul suo passato, sul suo presente, sulle sue dichiarazioni (o su quelle dei suoi servi).
Io temo che così non si faccia altro che accrescerne l'ego e l'importanza, oltre un livello normale. Capisco che egli faccia di tutto per rendersi onnipresente, un misto tra Dio e il Grande Fratello (a proposito di Grande Fratello orwelliano) ma perchè la sinistra deve fare il suo gioco?
Perchè non si parla dei problemi, cercando di capire come essi sono venuti a galla? Sul tema del rispetto delle donne ci sta certamente anche menzionare Drive In o Striscia la Notizia, non lo nego, ma possibile che mezzo programma dovesse interessarsi delle dichiarazioni (ormai datate di oltre 2 settimane) che Berlusconi fece in Sardegna quando aveva come ospite Zapatero?
La stessa cosa l'ha fatta AnnoZero, anche se poi da Santoro si sono salvati con un'intervista inedita alla D'Addario, ma Lerner ha davvero dato vita a una puntata sciatta e povera di riflessioni.
Ma Lerner non è certo il solo, tutt'altro, vi sono molti altri giornalisti e molti altri giornali che commettono lo stesso identico errore.
Io penso che i media svolgano un ruolo fondamentale in una società ed esso è quello di formare l'opinione dei cittadini. Ora, sapendo che gli italiani si informano solamente grazie alla tv, sapendo che la tv è quasi tutta nelle mani dei servi berlusconisti, i quali non fanno altro che trasmettere immagini trionfalistiche del loro padrone non sarebbe meglio che i media di sinistra, o di opposizione, se ce ne sono, trattassero dei problemi italiani a prescindere da Berlusconi?
La mafia c'è, Berlusconi è mafioso, ma spiegate perchè la mafia e l'economia mafiosa è dannosa.
La corruzione c'è, Berlusconi la protegge, ma spiegate perchè la corruzione è dannosa.
La partitocrazia non è morta, Berlusconi la protegge, ma spiegate quali sono i suoi effetti.
Il razzismo c'è, i servi di Berlusconi lo alimentano, ma spiegati quali basi razionali vi sono, se ce ne sono, nel razzismo.
Insomma, questa è l'informazione che mi piacerebbe vedere in tv e leggere nei giornali.
Non sono, lo ripeto, tra coloro che pensano che parlando male di Berlusconi lo si rafforzi, ma sono tra coloro che pensano che parlare di certi problemi, come la mafia, e accostarli a Berlusconi, faccia si che gli italiani sottovalutino questi problemi, magari sospettosi che si tratti di una macchinazione dei comunisti. Ormai in Italia si è fatta un'equazione pericolosa: la sinistra dice che Berlusconi e la mafia sono alleati? Sarà anche vero (ammesso e non concesso che non sia alleata pure con Franceschini), ma allora vuol dire che la mafia non è così pericolosa o dannosa.
Vogliamo continuare su questa strada senza ritorno o vogliamo cominciare a fare informazione seria, politica seria, tentando di costruire un futuro che prescinda dall'Imperator?
Flores D’Arcais: “IDV partito ad illegalità diffusa, Di Pietro lo rifondi”
di Luca Rinaldi
E’ un’inchiesta di Micromega, giornale considerato vicino a Di Pietro ed al suo partito, ad analizzare la situazione dell’Italia dei Valori, che fa della legalità la sua arma numero uno per riempire le urne e cercare altri consensi. Se è vero infatti che a livello nazionale può contare su candidati ’senza macchia’ come Carlo Vulpio, Sonia Alfano e Luigi De Magistris, altrettanto non si può dire che questo accada a livello locale.
E’ Marco Zerbino ad occuparsi della questione per Micromega nel numero uscito venerdì 25 settembre, facendo notare come a livello regionale il partito si trovi a contatto con una realtà ben diversa da quella mostrata a livello nazionale. Treviso e Lucca commissariate, mentre nelle Marche sono commissariate tutte le sedi provinciali, senza contare che in Umbria si necessita di un garante, che ad oggi si identifica in Orlando. Poi vari ex sostenitori di Forza Italia (Ignazio Messina, commissario calabrese), assunzioni di faccendieri vari della politica ex DC come in Puglia e Campania. Proprio in Campania, infatti, con Formisano, sono entrati Mimmo Porfidio (ex UDEUR, che sarà indagato dalla DDA di Napoli per associazione per delinquere di tipo mafioso) ed il capogruppo della regione Campania, Nicola Marrazzo, a cui sono state ritirati i certificati antimafia a 4 delle sue imprese nel settore rifiuti.
Zerbini poi conclude su Micromega: “Formisano poi ha fatto entrare l’Idv sistematicamente in giunte di centrodestra. Belisario ha fatto arrivare nel partito tra gli altri Schiavone (ex Udeur), condannato per esercizio abusivo della professione odontoiatrica. Nelle Marche tutto è in mano all’ex fondatore regionale di FI, Davide Favia. Tra le candidature Idv alla Camera risulta anche quella di Pino Aleffi, iscritto alla P2. E tra i cambiatori di casacca ci sono Cosma, Borriello, Pisicchio, Di Nardo”. L’altra faccia dell’Idv.”
La faccia sporca dell’Italia dei Valori, di cui Antonio di Pietro deve prendere coscienza, anche se da coordinatore s’immagina che ne abbia. A poco serve che Di Pietro dica che in quelle liste non vi sia nessun caso d’incandidabilità perchè nessuno di questi, nonostante le inchieste, è stato condannato in via definitiva, e dovrebbe saperlo bene, proprio perchè si fa portatore di ciò che Paolo Borsellino diceva: “Il politico non solo dev’essere onesto ma anche apparirlo”. A poco serve che Di Pietro dica a Flores D’Arcais che Micromega fa di tutta l’erba un fascio, perchè appare palese che da una parte abbiamo un IDV idealista e movimentista, come per altro scrive lo stesso Zerbino, e dall’altra un IDV inciucista e politicante.
Rincara la dose Flores D’Arcais in un’intervista rilasciata al ‘Fatto Quotidiano’( giornale di Padellaro e Travaglio, più volte accusato di dipietrismo, nonostante questi non prendano finanziamenti di sorta nè dal parito, nè dallo stato) all’ottima Wanda Marra:
Di Pietro sostiene che nelle sue liste per le ultime elezioni non c’è nessun caso di incandidabilità, visto che non ci sono “persone condannate con sentenze definitive”. Non le sembra un po’ riduttivo da parte di chi ha fatto della legalità la sua bandiera?
Ridursi solo a questo mi sembrerebbe molto, molto minimalista. Se per essere candidati in un partito che si pone come la speranza dell’altra Italia bastasse non avere una condanna definitiva, allora ci si potrebbe limitare a estrarre a sorte i candidati. Forse Di Pietro non capisce quanto è controproducente questa situazione. L’Idv alle europee ha sfiorato il risultato a 2 cifre, ma se si muovesse rinnovando tutto il partito intorno a candidature come quella di De Magistris potrebbe arrivare al 15-20%. Il minimalismo del rinnovamento mi pare possa portare a mancare un’occasione storica. Al di là di quello che si può dire sui Belisario e i Formisano non è con politici di questo genere che l’Idv può fare il 20%.
Chissà se arriverà il ben servito ai figuri ex FI, DC e UDEUR, o sono troppo importanti i faccendieri per ritrovare anche in Italia il 10% delle europee. D’altronde i faccendieri ed i furbetti agli italiani piacciono, lo sappiamo da 40 anni di DC, l’80 craxiano e dagli ultimi 15 anni. Ripulendo rischierebbe forse le urne vuote, come potrebbe ritrovarsele piene dall’altra parte di quell’Italia che ancora crede nell’onestà e nella trasparenza.
E’ un’inchiesta di Micromega, giornale considerato vicino a Di Pietro ed al suo partito, ad analizzare la situazione dell’Italia dei Valori, che fa della legalità la sua arma numero uno per riempire le urne e cercare altri consensi. Se è vero infatti che a livello nazionale può contare su candidati ’senza macchia’ come Carlo Vulpio, Sonia Alfano e Luigi De Magistris, altrettanto non si può dire che questo accada a livello locale.
E’ Marco Zerbino ad occuparsi della questione per Micromega nel numero uscito venerdì 25 settembre, facendo notare come a livello regionale il partito si trovi a contatto con una realtà ben diversa da quella mostrata a livello nazionale. Treviso e Lucca commissariate, mentre nelle Marche sono commissariate tutte le sedi provinciali, senza contare che in Umbria si necessita di un garante, che ad oggi si identifica in Orlando. Poi vari ex sostenitori di Forza Italia (Ignazio Messina, commissario calabrese), assunzioni di faccendieri vari della politica ex DC come in Puglia e Campania. Proprio in Campania, infatti, con Formisano, sono entrati Mimmo Porfidio (ex UDEUR, che sarà indagato dalla DDA di Napoli per associazione per delinquere di tipo mafioso) ed il capogruppo della regione Campania, Nicola Marrazzo, a cui sono state ritirati i certificati antimafia a 4 delle sue imprese nel settore rifiuti.
Zerbini poi conclude su Micromega: “Formisano poi ha fatto entrare l’Idv sistematicamente in giunte di centrodestra. Belisario ha fatto arrivare nel partito tra gli altri Schiavone (ex Udeur), condannato per esercizio abusivo della professione odontoiatrica. Nelle Marche tutto è in mano all’ex fondatore regionale di FI, Davide Favia. Tra le candidature Idv alla Camera risulta anche quella di Pino Aleffi, iscritto alla P2. E tra i cambiatori di casacca ci sono Cosma, Borriello, Pisicchio, Di Nardo”. L’altra faccia dell’Idv.”
La faccia sporca dell’Italia dei Valori, di cui Antonio di Pietro deve prendere coscienza, anche se da coordinatore s’immagina che ne abbia. A poco serve che Di Pietro dica che in quelle liste non vi sia nessun caso d’incandidabilità perchè nessuno di questi, nonostante le inchieste, è stato condannato in via definitiva, e dovrebbe saperlo bene, proprio perchè si fa portatore di ciò che Paolo Borsellino diceva: “Il politico non solo dev’essere onesto ma anche apparirlo”. A poco serve che Di Pietro dica a Flores D’Arcais che Micromega fa di tutta l’erba un fascio, perchè appare palese che da una parte abbiamo un IDV idealista e movimentista, come per altro scrive lo stesso Zerbino, e dall’altra un IDV inciucista e politicante.
Rincara la dose Flores D’Arcais in un’intervista rilasciata al ‘Fatto Quotidiano’( giornale di Padellaro e Travaglio, più volte accusato di dipietrismo, nonostante questi non prendano finanziamenti di sorta nè dal parito, nè dallo stato) all’ottima Wanda Marra:
Di Pietro sostiene che nelle sue liste per le ultime elezioni non c’è nessun caso di incandidabilità, visto che non ci sono “persone condannate con sentenze definitive”. Non le sembra un po’ riduttivo da parte di chi ha fatto della legalità la sua bandiera?
Ridursi solo a questo mi sembrerebbe molto, molto minimalista. Se per essere candidati in un partito che si pone come la speranza dell’altra Italia bastasse non avere una condanna definitiva, allora ci si potrebbe limitare a estrarre a sorte i candidati. Forse Di Pietro non capisce quanto è controproducente questa situazione. L’Idv alle europee ha sfiorato il risultato a 2 cifre, ma se si muovesse rinnovando tutto il partito intorno a candidature come quella di De Magistris potrebbe arrivare al 15-20%. Il minimalismo del rinnovamento mi pare possa portare a mancare un’occasione storica. Al di là di quello che si può dire sui Belisario e i Formisano non è con politici di questo genere che l’Idv può fare il 20%.
Chissà se arriverà il ben servito ai figuri ex FI, DC e UDEUR, o sono troppo importanti i faccendieri per ritrovare anche in Italia il 10% delle europee. D’altronde i faccendieri ed i furbetti agli italiani piacciono, lo sappiamo da 40 anni di DC, l’80 craxiano e dagli ultimi 15 anni. Ripulendo rischierebbe forse le urne vuote, come potrebbe ritrovarsele piene dall’altra parte di quell’Italia che ancora crede nell’onestà e nella trasparenza.
Emma Marcegaglia, Cai, Acciaierie, Confindustria: conflitto di interesse?
da Roberta Lemma
Emma Marcegaglia, durante la sua ultima conferenza stampa, parla dell’attenzione che lo Stato deve avere verso le mafie e la loro ingerenza nei progetti di sviluppo e dei fondi strutturali Ue 2007-2014 dichiarando:
“E’ l’ultima occasione che abbiamo per creare opportunita’ di sviluppo perché dopo questi fondi andranno ai Paesi dell’Est Europa. Non vanno dispersi in mille progetti, in mille rivoli, ma investiti sui grandi progetti che coinvolgano scuola, ricerca e infrastrutture materiali e immateriali”.
Poi parla di Alitalia sottolineando la gravosità del lavoro da compiere anche se le procedure penali sono in corso gia’ da diverso tempo. Lo scoglio principale e’ rappresentanto dalle 30.000 richieste di insinuazione nel passivo della societa’. Si tratta di esaminare in sostanza il diritto di queste persone ad essere presenti nel procedimento per ottenere un risarcimento danni. Si tratta, a parte i dipendenti a vario titolo dell’Alitalia, dei fornitori, degli alberghi, delle strutture e di tutte quante quelle attivita’ imprenditoriali alle quali si e’ rivolta l’Alitalia per portare avanti la sua attivita’.
Emma marcegaglia oggi è il presidente di Confindustria, un volto e un nome che pochi conoscevano ma che invece era ben noto e negli ambienti esclusivi dell’economia internazionale e nei tribunali.
Il Gruppo Marcegaglia è un gruppo industriale e finanziario che opera in Italia e all’estero con 50 società e più di 6.500 dipendenti nel settore metalsiderurgico e in una serie diversificata di altri comparti produttivi. Il gruppo, che è interamente controllato dalla famiglia Marcegaglia, fattura 4,2 miliardi di euro ed ha registrato nello scorso decennio un tasso di crescita medio del 15 per cento (del 20 per cento negli ultimi 5 anni).
Nel 2006 Steno Marcegaglia, imputato nel processo ‘Italicase-Bagaglino’, viene condannato a 4 anni e un mese per il reato di bancarotta preferenziale, in parte condonato. Nel 2008 la Marcegaglia Spa ha patteggiato una sanzione di 500 mila euro più 250 mila euro di confisca
per una tangente di 1 milione 158 mila euro pagata nel 2003 a Lorenzo Marzocchi di EniPower.
La sua SpA controllata N.e./C.c.t. spa ha invece patteggiato 500 mila euro di pena, e ben 5 milioni 250 mila euro di confisca. Oltre al patteggiamento dell’azienda, Antonio Marcegaglia ha patteggiato 11 mesi di reclusione con sospensione della pena per il reato di corruzione.
Addirittura ad oggi, su segnalazione delle Autorità svizzere, sono in corso indagini per accertare l’utilizzo e la legalità di diversi conti cifrati all’estero.
Infine il gruppo Marcegaglia lo troviamo all’interno della Cai, ma cosa è la Cai?
La CAI nasce il 26 agosto 2008 su iniziativa, guarda caso, della San Paolo Imi e di Roberto Colaninno. L’imprenditore Colaninno noto per i suoi precedenti penali ( Condannato a 4 anni e 1 mese per bancarotta nel crac Italcase-Bagaglino nel dicembre 2006 assieme a Steno Marcegaglia padre di Emma Marcegaglia, interdetti, entrambi, dai pubblici uffici per 5 anni, pene condonate grazie alla legge sull’indulto. Colaninno, ha un figlio, Matteo, deputato dal 2008 nelle file del Partito Democratico.
Non è questione d’esser mal pensanti ma è evidente l’intrigo nobile.
Sul libro di Dragoni “La paga dei padroni” vengono spiegati i meccanismi attraverso i quali Roberto Colaninno, coadiuvato da Rocco Sabelli, compivano alcune delle eccellenti scalate di casa nostra. Tra le ‘altre cita l’acquisizione della Telecom e quella della Piaggio. Dragoni scrive che nella maggior parte dei casi i capitali utilizzati per l’acquisizione delle società vengono scaricati sulle aziende stesse sotto forma di debiti, aziende che si trovano a ripartire con uno “zaino” pesante.
Non si ferma solo a questo ma spiega anche come i compensi dei manager derivino dalle speculazioni azionarie a danno dei risparmiatori che investono su queste nuove società non appena esse vengono quotate in borsa. Le azioni vengono poste sul mercato a prezzi gonfiati, i manager realizzano i propri guadagni vendendo le azioni che si sono assegnati, poi le azioni scendono al loro reale valore di mercato e gli unici a rimetterci sono gli investitori ed i piccoli risparmiatori.
La Cai, dicevamo, nasce con l’esigenza di – salvare – Alitalia: viene costituita una “newco”, una società che è stata in trattativa per l’acquisizione di Alitalia. La società, denominata, Compagnia aerea italiana è dotata di un consiglio di amministrazione presieduto da Roberto Colaninno.
Sappiamo che la CAI riesce, dopo estenuanti trattative e mille polemiche, a raggiungere un accordo con i sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL e UGL) il 25/09/2008 gettando le basi per il rilancio della compagnia aerea italiana.
Come dire basi, che con il senno di poi, ci faranno di certo rimpiangere di non essere, oggi, intervenuti. Inizialmente la Cai è una società s.r.l. con un capitale sociale di pochissimi euro. Il 28 ottobre 2008 la Cai diviene S.P.A, e con una ricapitalizzazione di un miliardo di euro. Un vincolo interno obbligherebbe i soci a restare nel capitale almeno fino al 2013, sempre non ci siano nuovi decreti ab personam, cavilli giuridici, strane sparizioni o morti improvvise.
La società, entro 3 anni doveva entrare in Borsa ma per poter quotare avrebbero avuto bisogno della licenza di operatore aeronautico che a quel tempo, nell’ottobre 2008, ancora non avevano e oggi non lo sappiamo. La società si occuperà di Alitalia, quindi di voli, aerei e quanto altro ma, udite, udite, secondo la cerved, figurerà come oggetto sociale della CAI, il commercio di accessori di abbigliamento.
Altra stranezza non vi pare?
Veniamo al Consiglio di Amministrazione Cai:
-Presidente Roberto Colanino ( di cui sopra )
-Amm. Delegato Rocco Sabelli ( Inizia la sua carriera in GEPI dove si occupa di fusioni e acquisizioni. Dal 1985 fa carriera nell’ENI fino ad occupare il ruolo di presidente e amministratore delegato di Nuova Ideni, una società del gruppo. Dal 1993 al 2001 è nel gruppo Telecom Italia. Nel 2002 è tra i fondatori di Omniainvest di cui diviene amministratore delegato. Nel 2003 è amministratore delegato IMMSI e in seguito della controllata Piaggio. In entrambe le società si dimette nel 2006. Nel 2007 entra in Tiscali come consigliere non esecutivo, nello stesso anno costituisce la società Data Holding 2007 srl.)
-Consigliere Gianluigi Aponte
-Consigliere Massimiliano Boschini
-Consigliere Francesco Caltagirone Bellavista (Francesco Caltagirone, il suocero di Pierferdinando Casini, imputato a Perugia per corruzione giudiziaria insieme a Squillante. Ed è cugino di Francesco Bellavista Caltagirone, marito di Rita Rovelli, figlia di Nino, il grande corruttore del caso Imi-Sir. Guarda un po’, alle volte, le combinazioni.)
-Consigliere Carlo D’Urso ( indaffarato con le banche )
-Consigliere Corrado Fratini
-Consigliere Andrea Guerra
-Consigliere Salvatore Mancuso
-Consigliere Fausto Marchionni
-Consigliere Francesco Paolo Mattioli
-Consigliere Gaetano Micicchè
-Consigliere Angelo Riva
-Consigliere Carlo Toto
-Consigliere Marco Tronchetti Provera.
Gli altri personaggi senza parentesi tonde appartengono a gruppi di azionisti, da noi ben conosciuti e che vedremo più avanti. In sintesi il piano della CAI era di creare una nuova Alitalia rilevando gli assetti operativi della Compagnia fondendosi con AirOne. Creando in questo modo una bad company che si accollava debiti e la maggior parte degli esuberi, azioni e obbligazioni degli azionisti che in fin di conto sono parte del nuovo assetto societario. Rinnovamento della flotta con ben 60 aerei, l’abbandono degli hub principali di Milano e Roma e con la costituzione di nuovi hub a Roma, Milano, Torino, Napoli, Venezia e Catania.
L’esubero di 3250 lavoratori della Nuova Alitalia al netto dei contratti a tempo che erano già in scadenza e che non sarebbero stati mai rinnovati ma – ricompensati – con uno stanziamento già approvato di circa 180 milioni di euro in sei, sette anni di cassa integrazione, fatevi due conti veloci.
Gli azionisti:
-Il gruppo Benetton tramite Atlantia immsi spa ( famosa per esser sempre presente agli intrighi di corte )
-Il gruppo Aponte ( navi da crociera Mac )
-Il gruppo Riva ( gruppo siderurgico italiano e mondiale per eccellenza ma con qualche guaio giudiziario legato ad inquinamenti, infortuni sul lavoro ect. )
-Il gruppo Fratini tramite Fingen spa ( c’è Della Valle dietro )
-Il gruppo Ligresti tramite Fondiaria Sai spa ( questo è scandaloso )
-Il fondo Equinox S.A di Salvatore Mancuso – Nel 2007 la sua nomina alla Presidenza del Banco di Sicilia, con il consenso di Totò Cuffaro e le congratulazioni di Francesco Musetto, viene salutata come un evento. Ma di li a poco dovrà dimettersi. Il suo fondo Equinox, con sede in Lussemburgo, è presente in molte operazioni discutibili. Così Mittel, finanziaria guidata da Giovanni Bazoli (presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo), e il fondo Equinox di Salvatore Mancuso hanno sottoscritto un accordo con Banca Mps e Banco Popolare, creditrici di Fingruppo, per liquidare in bonis Hopa, la società della galassia del finanziere bresciano Emilio Gnutti – finito in disgrazia in seguito alla calda estate dei furbetti del quartierino, anno 2005, quando fu coinvolto nella vicenda giudiziaria delle scalate bancarie e delle intercettazioni telefoniche – e degli imprenditori a lui vicini. Qualche giorno prima di partecipare alla cordata Alitalia acquista il 65% di Air Four, compagnia aerea executive con sede a Milano. )
-Il fondo Clessidra SGR spa di Claudio Sposito: uno degli uomini chiave del salvataggio di Fininvest dal fallimento all’inizio deglia anni ’90. All’epoca operava come plenipotenziario italiano per conto della banca d’affari Morgan & Stanley ed il rapporto con Berlusconi divenne così solido che nel 1998 diventerà amministratore delegato di Fininvest. Nel 2003 ritroviamo Sposito ed il suo fondo Clessidra ad operare con Gnutti, Presidente di Hopa, con l’intervento di Mediobanca. Sposito controlla oggi ADR, che gestisce gli aeroporti di Roma.
-Toto Costruzioni ( Carlo Toto arrestato con un funzionario Anas in una delle poche indagini pre-mani pulite. L’accusa per falso riguarda l’appalto del ponte sul fiume Comano (crollato nel giugno del 1980).
-Il gruppo Fossati tramite Findim Group spa – La finanziaria Findim entra nel giro Telecom, quando Tronchetti Provera lascia. Si dichiara convinto che la società nei prossimi due anni migliorerà fortemente. Si fa portatore di un piano alternativo per il rilancio Telecom, che prevede l’ingresso nella società di Mediaset. Per convincere Silvio Berlusconi, Fossati ha addirittura portato Alierta, della spagnola Telefonica socia di telecom, ad Arcore appoggiandosi al lavoro diplomatico di Alejandro Agag, genero dell´ex premier spagnolo Aznar ed ex segretario del Ppe, e di Flavio Briatore, entrambi amici del Cavaliere. Gli stessi uomini che tre anni fa fiancheggiavano la scalata di Stefano Ricucci al Corriere della Sera. Ma intanto il titolo scende.
-Il gruppo Marcegaglia spa di cui ampliamento parlato sopra.
Tutto questo era la Cai nel 2008 e non ho problemi a pensare che lo è anche oggi.
Tutte le condanne e le indagini a carico dei citati nell’articolo sono atti pubblici e non indiscezioni ai quali tutti possono accedere e controllare.
Emma Marcegaglia, durante la sua ultima conferenza stampa, parla dell’attenzione che lo Stato deve avere verso le mafie e la loro ingerenza nei progetti di sviluppo e dei fondi strutturali Ue 2007-2014 dichiarando:
“E’ l’ultima occasione che abbiamo per creare opportunita’ di sviluppo perché dopo questi fondi andranno ai Paesi dell’Est Europa. Non vanno dispersi in mille progetti, in mille rivoli, ma investiti sui grandi progetti che coinvolgano scuola, ricerca e infrastrutture materiali e immateriali”.
Poi parla di Alitalia sottolineando la gravosità del lavoro da compiere anche se le procedure penali sono in corso gia’ da diverso tempo. Lo scoglio principale e’ rappresentanto dalle 30.000 richieste di insinuazione nel passivo della societa’. Si tratta di esaminare in sostanza il diritto di queste persone ad essere presenti nel procedimento per ottenere un risarcimento danni. Si tratta, a parte i dipendenti a vario titolo dell’Alitalia, dei fornitori, degli alberghi, delle strutture e di tutte quante quelle attivita’ imprenditoriali alle quali si e’ rivolta l’Alitalia per portare avanti la sua attivita’.
Emma marcegaglia oggi è il presidente di Confindustria, un volto e un nome che pochi conoscevano ma che invece era ben noto e negli ambienti esclusivi dell’economia internazionale e nei tribunali.
Il Gruppo Marcegaglia è un gruppo industriale e finanziario che opera in Italia e all’estero con 50 società e più di 6.500 dipendenti nel settore metalsiderurgico e in una serie diversificata di altri comparti produttivi. Il gruppo, che è interamente controllato dalla famiglia Marcegaglia, fattura 4,2 miliardi di euro ed ha registrato nello scorso decennio un tasso di crescita medio del 15 per cento (del 20 per cento negli ultimi 5 anni).
Nel 2006 Steno Marcegaglia, imputato nel processo ‘Italicase-Bagaglino’, viene condannato a 4 anni e un mese per il reato di bancarotta preferenziale, in parte condonato. Nel 2008 la Marcegaglia Spa ha patteggiato una sanzione di 500 mila euro più 250 mila euro di confisca
per una tangente di 1 milione 158 mila euro pagata nel 2003 a Lorenzo Marzocchi di EniPower.
La sua SpA controllata N.e./C.c.t. spa ha invece patteggiato 500 mila euro di pena, e ben 5 milioni 250 mila euro di confisca. Oltre al patteggiamento dell’azienda, Antonio Marcegaglia ha patteggiato 11 mesi di reclusione con sospensione della pena per il reato di corruzione.
Addirittura ad oggi, su segnalazione delle Autorità svizzere, sono in corso indagini per accertare l’utilizzo e la legalità di diversi conti cifrati all’estero.
Infine il gruppo Marcegaglia lo troviamo all’interno della Cai, ma cosa è la Cai?
La CAI nasce il 26 agosto 2008 su iniziativa, guarda caso, della San Paolo Imi e di Roberto Colaninno. L’imprenditore Colaninno noto per i suoi precedenti penali ( Condannato a 4 anni e 1 mese per bancarotta nel crac Italcase-Bagaglino nel dicembre 2006 assieme a Steno Marcegaglia padre di Emma Marcegaglia, interdetti, entrambi, dai pubblici uffici per 5 anni, pene condonate grazie alla legge sull’indulto. Colaninno, ha un figlio, Matteo, deputato dal 2008 nelle file del Partito Democratico.
Non è questione d’esser mal pensanti ma è evidente l’intrigo nobile.
Sul libro di Dragoni “La paga dei padroni” vengono spiegati i meccanismi attraverso i quali Roberto Colaninno, coadiuvato da Rocco Sabelli, compivano alcune delle eccellenti scalate di casa nostra. Tra le ‘altre cita l’acquisizione della Telecom e quella della Piaggio. Dragoni scrive che nella maggior parte dei casi i capitali utilizzati per l’acquisizione delle società vengono scaricati sulle aziende stesse sotto forma di debiti, aziende che si trovano a ripartire con uno “zaino” pesante.
Non si ferma solo a questo ma spiega anche come i compensi dei manager derivino dalle speculazioni azionarie a danno dei risparmiatori che investono su queste nuove società non appena esse vengono quotate in borsa. Le azioni vengono poste sul mercato a prezzi gonfiati, i manager realizzano i propri guadagni vendendo le azioni che si sono assegnati, poi le azioni scendono al loro reale valore di mercato e gli unici a rimetterci sono gli investitori ed i piccoli risparmiatori.
La Cai, dicevamo, nasce con l’esigenza di – salvare – Alitalia: viene costituita una “newco”, una società che è stata in trattativa per l’acquisizione di Alitalia. La società, denominata, Compagnia aerea italiana è dotata di un consiglio di amministrazione presieduto da Roberto Colaninno.
Sappiamo che la CAI riesce, dopo estenuanti trattative e mille polemiche, a raggiungere un accordo con i sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL e UGL) il 25/09/2008 gettando le basi per il rilancio della compagnia aerea italiana.
Come dire basi, che con il senno di poi, ci faranno di certo rimpiangere di non essere, oggi, intervenuti. Inizialmente la Cai è una società s.r.l. con un capitale sociale di pochissimi euro. Il 28 ottobre 2008 la Cai diviene S.P.A, e con una ricapitalizzazione di un miliardo di euro. Un vincolo interno obbligherebbe i soci a restare nel capitale almeno fino al 2013, sempre non ci siano nuovi decreti ab personam, cavilli giuridici, strane sparizioni o morti improvvise.
La società, entro 3 anni doveva entrare in Borsa ma per poter quotare avrebbero avuto bisogno della licenza di operatore aeronautico che a quel tempo, nell’ottobre 2008, ancora non avevano e oggi non lo sappiamo. La società si occuperà di Alitalia, quindi di voli, aerei e quanto altro ma, udite, udite, secondo la cerved, figurerà come oggetto sociale della CAI, il commercio di accessori di abbigliamento.
Altra stranezza non vi pare?
Veniamo al Consiglio di Amministrazione Cai:
-Presidente Roberto Colanino ( di cui sopra )
-Amm. Delegato Rocco Sabelli ( Inizia la sua carriera in GEPI dove si occupa di fusioni e acquisizioni. Dal 1985 fa carriera nell’ENI fino ad occupare il ruolo di presidente e amministratore delegato di Nuova Ideni, una società del gruppo. Dal 1993 al 2001 è nel gruppo Telecom Italia. Nel 2002 è tra i fondatori di Omniainvest di cui diviene amministratore delegato. Nel 2003 è amministratore delegato IMMSI e in seguito della controllata Piaggio. In entrambe le società si dimette nel 2006. Nel 2007 entra in Tiscali come consigliere non esecutivo, nello stesso anno costituisce la società Data Holding 2007 srl.)
-Consigliere Gianluigi Aponte
-Consigliere Massimiliano Boschini
-Consigliere Francesco Caltagirone Bellavista (Francesco Caltagirone, il suocero di Pierferdinando Casini, imputato a Perugia per corruzione giudiziaria insieme a Squillante. Ed è cugino di Francesco Bellavista Caltagirone, marito di Rita Rovelli, figlia di Nino, il grande corruttore del caso Imi-Sir. Guarda un po’, alle volte, le combinazioni.)
-Consigliere Carlo D’Urso ( indaffarato con le banche )
-Consigliere Corrado Fratini
-Consigliere Andrea Guerra
-Consigliere Salvatore Mancuso
-Consigliere Fausto Marchionni
-Consigliere Francesco Paolo Mattioli
-Consigliere Gaetano Micicchè
-Consigliere Angelo Riva
-Consigliere Carlo Toto
-Consigliere Marco Tronchetti Provera.
Gli altri personaggi senza parentesi tonde appartengono a gruppi di azionisti, da noi ben conosciuti e che vedremo più avanti. In sintesi il piano della CAI era di creare una nuova Alitalia rilevando gli assetti operativi della Compagnia fondendosi con AirOne. Creando in questo modo una bad company che si accollava debiti e la maggior parte degli esuberi, azioni e obbligazioni degli azionisti che in fin di conto sono parte del nuovo assetto societario. Rinnovamento della flotta con ben 60 aerei, l’abbandono degli hub principali di Milano e Roma e con la costituzione di nuovi hub a Roma, Milano, Torino, Napoli, Venezia e Catania.
L’esubero di 3250 lavoratori della Nuova Alitalia al netto dei contratti a tempo che erano già in scadenza e che non sarebbero stati mai rinnovati ma – ricompensati – con uno stanziamento già approvato di circa 180 milioni di euro in sei, sette anni di cassa integrazione, fatevi due conti veloci.
Gli azionisti:
-Il gruppo Benetton tramite Atlantia immsi spa ( famosa per esser sempre presente agli intrighi di corte )
-Il gruppo Aponte ( navi da crociera Mac )
-Il gruppo Riva ( gruppo siderurgico italiano e mondiale per eccellenza ma con qualche guaio giudiziario legato ad inquinamenti, infortuni sul lavoro ect. )
-Il gruppo Fratini tramite Fingen spa ( c’è Della Valle dietro )
-Il gruppo Ligresti tramite Fondiaria Sai spa ( questo è scandaloso )
-Il fondo Equinox S.A di Salvatore Mancuso – Nel 2007 la sua nomina alla Presidenza del Banco di Sicilia, con il consenso di Totò Cuffaro e le congratulazioni di Francesco Musetto, viene salutata come un evento. Ma di li a poco dovrà dimettersi. Il suo fondo Equinox, con sede in Lussemburgo, è presente in molte operazioni discutibili. Così Mittel, finanziaria guidata da Giovanni Bazoli (presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo), e il fondo Equinox di Salvatore Mancuso hanno sottoscritto un accordo con Banca Mps e Banco Popolare, creditrici di Fingruppo, per liquidare in bonis Hopa, la società della galassia del finanziere bresciano Emilio Gnutti – finito in disgrazia in seguito alla calda estate dei furbetti del quartierino, anno 2005, quando fu coinvolto nella vicenda giudiziaria delle scalate bancarie e delle intercettazioni telefoniche – e degli imprenditori a lui vicini. Qualche giorno prima di partecipare alla cordata Alitalia acquista il 65% di Air Four, compagnia aerea executive con sede a Milano. )
-Il fondo Clessidra SGR spa di Claudio Sposito: uno degli uomini chiave del salvataggio di Fininvest dal fallimento all’inizio deglia anni ’90. All’epoca operava come plenipotenziario italiano per conto della banca d’affari Morgan & Stanley ed il rapporto con Berlusconi divenne così solido che nel 1998 diventerà amministratore delegato di Fininvest. Nel 2003 ritroviamo Sposito ed il suo fondo Clessidra ad operare con Gnutti, Presidente di Hopa, con l’intervento di Mediobanca. Sposito controlla oggi ADR, che gestisce gli aeroporti di Roma.
-Toto Costruzioni ( Carlo Toto arrestato con un funzionario Anas in una delle poche indagini pre-mani pulite. L’accusa per falso riguarda l’appalto del ponte sul fiume Comano (crollato nel giugno del 1980).
-Il gruppo Fossati tramite Findim Group spa – La finanziaria Findim entra nel giro Telecom, quando Tronchetti Provera lascia. Si dichiara convinto che la società nei prossimi due anni migliorerà fortemente. Si fa portatore di un piano alternativo per il rilancio Telecom, che prevede l’ingresso nella società di Mediaset. Per convincere Silvio Berlusconi, Fossati ha addirittura portato Alierta, della spagnola Telefonica socia di telecom, ad Arcore appoggiandosi al lavoro diplomatico di Alejandro Agag, genero dell´ex premier spagnolo Aznar ed ex segretario del Ppe, e di Flavio Briatore, entrambi amici del Cavaliere. Gli stessi uomini che tre anni fa fiancheggiavano la scalata di Stefano Ricucci al Corriere della Sera. Ma intanto il titolo scende.
-Il gruppo Marcegaglia spa di cui ampliamento parlato sopra.
Tutto questo era la Cai nel 2008 e non ho problemi a pensare che lo è anche oggi.
Tutte le condanne e le indagini a carico dei citati nell’articolo sono atti pubblici e non indiscezioni ai quali tutti possono accedere e controllare.
Scudo fiscale : Tremonti non ha elementi per escludere riciclaggio
di Rita Guma*
"Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, è convinto da parte sua che «i capitali criminali non saranno rimpatriati». «Non credo che la criminalità si servirà di questo strumento - afferma. - I capitali criminali o sono in Italia perfettamente sbiancati o continueranno la loro attività all'estero»".
Lo riporta il Corriere della Sera di oggi riguardo al varo dello scudo fiscale che permettera' il rientro dall'estero di capitali italiani, con una modesta penale ma senza nessun controllo sulla liceita' delle attivita' che hanno determinato tali introiti, anzi, con una garanzia di immunita', visto che pagare una misera percentuale significa evitare i controlli.
Ci si domanda su quali dati si basi l'affermazione del ministro, che con questa battuta liquida le legittime preoccupazioni di tanti che credono nella legalita' e nella lotta contro la criminalita' organizzata, e che paventano a buon diritto il concreto rischio che tornino in Italia capitali provenienti dalle attivita' della mafia, dal mercato della droga, della prostituzione e della tratta di esseri umani.
Il ministro non fornisce alcun elemento a sostegno della sua affermazione perche' non puo', ma confida evidentemente sul fatto che un'affermazione ripetuta possa essere ritenuta da alcuni la realta'. Un processo mentale che - con la distorsione dell'informazione di Stato che comporta il martellamento di solgan senza approfondimento ne' completezza delle notizie - e' sempre piu' diffuso.
Viceversa e' grave l'affermazione del ministro sul fatto che in Italia ci siano capitali di origine criminale perfettamente sbiancati, a meno che non si tratti di una mera supposizione (che vanifica l'intero discorso): infatti il fatto che egli lo dia per scontato presuppone che il governo sia a conoscenza di questo fenomeno di sbiancatura e ci si domanda se ne ha le prove come mai non intervenga.
"Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, è convinto da parte sua che «i capitali criminali non saranno rimpatriati». «Non credo che la criminalità si servirà di questo strumento - afferma. - I capitali criminali o sono in Italia perfettamente sbiancati o continueranno la loro attività all'estero»".
Lo riporta il Corriere della Sera di oggi riguardo al varo dello scudo fiscale che permettera' il rientro dall'estero di capitali italiani, con una modesta penale ma senza nessun controllo sulla liceita' delle attivita' che hanno determinato tali introiti, anzi, con una garanzia di immunita', visto che pagare una misera percentuale significa evitare i controlli.
Ci si domanda su quali dati si basi l'affermazione del ministro, che con questa battuta liquida le legittime preoccupazioni di tanti che credono nella legalita' e nella lotta contro la criminalita' organizzata, e che paventano a buon diritto il concreto rischio che tornino in Italia capitali provenienti dalle attivita' della mafia, dal mercato della droga, della prostituzione e della tratta di esseri umani.
Il ministro non fornisce alcun elemento a sostegno della sua affermazione perche' non puo', ma confida evidentemente sul fatto che un'affermazione ripetuta possa essere ritenuta da alcuni la realta'. Un processo mentale che - con la distorsione dell'informazione di Stato che comporta il martellamento di solgan senza approfondimento ne' completezza delle notizie - e' sempre piu' diffuso.
Viceversa e' grave l'affermazione del ministro sul fatto che in Italia ci siano capitali di origine criminale perfettamente sbiancati, a meno che non si tratti di una mera supposizione (che vanifica l'intero discorso): infatti il fatto che egli lo dia per scontato presuppone che il governo sia a conoscenza di questo fenomeno di sbiancatura e ci si domanda se ne ha le prove come mai non intervenga.
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Il fotovoltaico raddoppia
La produzione di pannelli è aumentata dell’80 per cento nel 2008. Leader la Cina, seguita dall’Europa. I numeri dell’Annual Photovoltaics Status Report
Nel 2008 la produzione mondiale di pannelli solari è quasi raddoppiata. Lo dice l’ottava edizione dell’Annual Photovoltaics Status Report pubblicato ieri, 21 settembre, dal Joint Research Centre della Commissione europea.
Per la precisione è stato costruito l’80 per cento di moduli solari in più rispetto all’anno precedente, in grado di produrre 7,3 Gigawatt. Ecco qualche numero nel dettaglio: la produzione europea di celle solari è cresciuta da 1,1 a 1,9 Gigawattt, mentre la capacità istallata è triplicata fino a 4,8 Gigawatt. Questo rapido sviluppo si deve principalmente alla Spagna, dove i numeri del fotovoltaico si sono quintuplicati, passando da 560 Megawatt di capacità istallata nel 2007 a 2,5-2,7 Gigawatt istallati nel 2008. In termini di generazione di elettricità, il fotovoltaico ha contribuito, nel 2008, per circa lo 0,35 per cento del consumo della corrente elettrica del Vecchio Continente.
Ad oggi, tutti i pannelli istallati nel mondo hanno una capacità cumulativa superiore a 15 Gigawatt, con l’Europa che conta per oltre il 60 per cento (9,5 Gw). La Cina è diventata il paese leader nella costruzione dei moduli, con una produzione annuale di circa 2,4 Gigawatt, e si pensa che manterrà il primato arrivando a coprire il 32 per cento della produzione globale già nel 2012. Con i suoi 1,9 Gigawatt, comunque, l’Europa è il secondo produttore a livello mondiale; segue il Giappone con 1,2 Gw e Taiwan con 0,8 Gw.
Secondo il rapporto, dal 1999 a oggi la produzione di pannelli fotovoltaici è cresciuta, in media, del 50 per cento ogni anno. Gli investimenti mondiali nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono stati toccati dalla crisi finanziaria nel tardo 2008 e nei primi mesi del 2009, ma il mercato sta mostrando già da tempo segni di forte ripresa. Lo studio evidenzia un forte calo degli investimenti nella seconda metà del 2008 (il 10% in meno nel terzo trimestre e il 23% nel quarto), continuato nel primo trimestre del 2009 (il 47% in meno rispetto alla fine del 2008). Ma già il secondo trimestre di quest’anno segnava una ripresa dell’83 per cento in più rispetto al trimestre precedente. Merito anche del numero crescente di produttori, così che la porzione del mercato spartita tra i dieci più grandi manifatturieri è scesa dall’80 al 50 per cento nell’ultimo anno. (t.m.)
Nel 2008 la produzione mondiale di pannelli solari è quasi raddoppiata. Lo dice l’ottava edizione dell’Annual Photovoltaics Status Report pubblicato ieri, 21 settembre, dal Joint Research Centre della Commissione europea.
Per la precisione è stato costruito l’80 per cento di moduli solari in più rispetto all’anno precedente, in grado di produrre 7,3 Gigawatt. Ecco qualche numero nel dettaglio: la produzione europea di celle solari è cresciuta da 1,1 a 1,9 Gigawattt, mentre la capacità istallata è triplicata fino a 4,8 Gigawatt. Questo rapido sviluppo si deve principalmente alla Spagna, dove i numeri del fotovoltaico si sono quintuplicati, passando da 560 Megawatt di capacità istallata nel 2007 a 2,5-2,7 Gigawatt istallati nel 2008. In termini di generazione di elettricità, il fotovoltaico ha contribuito, nel 2008, per circa lo 0,35 per cento del consumo della corrente elettrica del Vecchio Continente.
Ad oggi, tutti i pannelli istallati nel mondo hanno una capacità cumulativa superiore a 15 Gigawatt, con l’Europa che conta per oltre il 60 per cento (9,5 Gw). La Cina è diventata il paese leader nella costruzione dei moduli, con una produzione annuale di circa 2,4 Gigawatt, e si pensa che manterrà il primato arrivando a coprire il 32 per cento della produzione globale già nel 2012. Con i suoi 1,9 Gigawatt, comunque, l’Europa è il secondo produttore a livello mondiale; segue il Giappone con 1,2 Gw e Taiwan con 0,8 Gw.
Secondo il rapporto, dal 1999 a oggi la produzione di pannelli fotovoltaici è cresciuta, in media, del 50 per cento ogni anno. Gli investimenti mondiali nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono stati toccati dalla crisi finanziaria nel tardo 2008 e nei primi mesi del 2009, ma il mercato sta mostrando già da tempo segni di forte ripresa. Lo studio evidenzia un forte calo degli investimenti nella seconda metà del 2008 (il 10% in meno nel terzo trimestre e il 23% nel quarto), continuato nel primo trimestre del 2009 (il 47% in meno rispetto alla fine del 2008). Ma già il secondo trimestre di quest’anno segnava una ripresa dell’83 per cento in più rispetto al trimestre precedente. Merito anche del numero crescente di produttori, così che la porzione del mercato spartita tra i dieci più grandi manifatturieri è scesa dall’80 al 50 per cento nell’ultimo anno. (t.m.)
Dottori cercasi
di Tiziana Moriconi
Tra dieci anni in Italia mancheranno i medici, soprattutto chirurghi, urologi, ortopedici e quelli generali. Ecco i dati del centro studi Fnomceo, commentati dal segretario nazionale della federazione, Gabriele Peperoni
Nel 2017 undici milioni di pazienti potrebbero rimanere senza medico di famiglia. In più, tra dieci anni rischiamo di ritrovarci con 30.000 ospedalieri in meno, soprattutto cardiochirurghi e ortopedici, e dovremo importarli dall’estero come sta già accadendo in Gran Bretagna. Perché? E' colpa dell’attuale sistema del numero chiuso per l’accesso alla facoltà, la mancanza di una programmazione e l’alta mortalità studentesca, che ha raggiunto una media di oltre il 28 per cento. A disegnare il futuro demografico dei medici in Italia è stata la Federazione nazionale ordini medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) durante il workshop di studio “Formazione pre laurea e specialistica”, svoltosi a Bari lo scorso 17 settembre. Galileo ne ha parlato con Gabriele Peperoni, segretario nazionale della federazione.
Dottor Peperoni, davvero corriamo il rischio di restare senza medici?
“Sono 15 anni che esiste il numero chiuso nelle facoltà di medicina. Quest’anno abbiamo avuto circa 8.000 iscritti, lo scorso appena 6.000 (qui i dati): se si confrontano i numeri con la popolazione dei medici che oggi hanno oltre sessant’anni e stanno per andare in pensione salta agli occhi che, a meno di un’inversione di tendenza, i nostri giovani non basteranno, soprattutto perché la popolazione continuerà a invecchiare. Oggi c’è una sottoccupazione, non proprio una disoccupazione, ma si prevede una carenza di 35.000 medici tra dieci anni, e di 63.000 tra venti. In realtà, a meno di non prendere provvedimenti, si pensa che questo quadro sia persino ottimistico”.
Perché?
“Non tiene conto dell’altissima mortalità studentesca delle nostre università, tra le maggiori in Europa. In media, ogni anno il 28,6 per cento degli studenti, anche del quarto anno, abbandona la facoltà. Anche qui, pensiamo che il problema sia nella modalità di accesso. L’attuale sistema dei test è superato e si è dimostrato non valido. Per di più non riesce in alcun modo a valutare la propensione all'ascolto e al servizio che un medico dovrebbe avere”.
Quindi proponete di liberalizzare accessi a medicina?
“No, non è possibile neanche questo, perché quasi nessuna università è in grado di garantire una adeguata preparazione a un alto numero di studenti, soprattutto nella fase di specializzazione. Bisognerebbe aumentare il numero degli iscritti selezionando gli studenti in base ai curricula e dar loro modo, dove possibile, di frequentare qualche corso preparatorio durante gli ultimi due anni delle scuole superiori, in modo che possano rendersi conto se la professione medica fa per loro o meno. Comunque, anche raddoppiando il numero degli attuali iscritti, sembra che tra venti anni saremo costretti a importare 40.000 medici. Non è un male di per sè, ma mi chiedo perché, visto che sono molti gli studenti italiani che vorrebbero accedere alla professione medica. Contemporaneamente si dovrebbero costruire nuove strutture da affiancare alle università dove svolgere la parte pratica. Inoltre ci dovrebbe essere una maggiore attenzione a mantenere l’equilibrio tra le varie specialità mediche”.
Cioè?
“L’enorme calo previsto si ripercuoterà in alcuni settori molto più che in altri. Mancheranno soprattutto medici generali, come già sta accadendo in alcune regioni, chirurgi generali, urologi, ortopedici. Questo anche perché i nuovi iscritti sono soprattutto donne: stiamo assistendo a una femminilizzazione della medicina (qui i dati)”.
E dov’è il problema?
“Ovviamente non è un problema di equità di genere, ma di ‘propensioni di genere’: si è visto che le donne tendono a non specializzarsi in alcune materie, come appunto l’urologia e la cardiochirurgia. La pediatria, invece, rischia di essere sovraffollata. Per questo c’è bisogno anche di una programmazione a livello regionale. La facoltà di medicina richiede ora una riforma più ampia, che includa la Medicina Generale come un insegnamento a se stante, che valuti seriamente il sistema degli esami parcellizzati e che preveda più pratica di quanta i giovani medici non facciano adesso.
Tra dieci anni in Italia mancheranno i medici, soprattutto chirurghi, urologi, ortopedici e quelli generali. Ecco i dati del centro studi Fnomceo, commentati dal segretario nazionale della federazione, Gabriele Peperoni
Nel 2017 undici milioni di pazienti potrebbero rimanere senza medico di famiglia. In più, tra dieci anni rischiamo di ritrovarci con 30.000 ospedalieri in meno, soprattutto cardiochirurghi e ortopedici, e dovremo importarli dall’estero come sta già accadendo in Gran Bretagna. Perché? E' colpa dell’attuale sistema del numero chiuso per l’accesso alla facoltà, la mancanza di una programmazione e l’alta mortalità studentesca, che ha raggiunto una media di oltre il 28 per cento. A disegnare il futuro demografico dei medici in Italia è stata la Federazione nazionale ordini medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) durante il workshop di studio “Formazione pre laurea e specialistica”, svoltosi a Bari lo scorso 17 settembre. Galileo ne ha parlato con Gabriele Peperoni, segretario nazionale della federazione.
Dottor Peperoni, davvero corriamo il rischio di restare senza medici?
“Sono 15 anni che esiste il numero chiuso nelle facoltà di medicina. Quest’anno abbiamo avuto circa 8.000 iscritti, lo scorso appena 6.000 (qui i dati): se si confrontano i numeri con la popolazione dei medici che oggi hanno oltre sessant’anni e stanno per andare in pensione salta agli occhi che, a meno di un’inversione di tendenza, i nostri giovani non basteranno, soprattutto perché la popolazione continuerà a invecchiare. Oggi c’è una sottoccupazione, non proprio una disoccupazione, ma si prevede una carenza di 35.000 medici tra dieci anni, e di 63.000 tra venti. In realtà, a meno di non prendere provvedimenti, si pensa che questo quadro sia persino ottimistico”.
Perché?
“Non tiene conto dell’altissima mortalità studentesca delle nostre università, tra le maggiori in Europa. In media, ogni anno il 28,6 per cento degli studenti, anche del quarto anno, abbandona la facoltà. Anche qui, pensiamo che il problema sia nella modalità di accesso. L’attuale sistema dei test è superato e si è dimostrato non valido. Per di più non riesce in alcun modo a valutare la propensione all'ascolto e al servizio che un medico dovrebbe avere”.
Quindi proponete di liberalizzare accessi a medicina?
“No, non è possibile neanche questo, perché quasi nessuna università è in grado di garantire una adeguata preparazione a un alto numero di studenti, soprattutto nella fase di specializzazione. Bisognerebbe aumentare il numero degli iscritti selezionando gli studenti in base ai curricula e dar loro modo, dove possibile, di frequentare qualche corso preparatorio durante gli ultimi due anni delle scuole superiori, in modo che possano rendersi conto se la professione medica fa per loro o meno. Comunque, anche raddoppiando il numero degli attuali iscritti, sembra che tra venti anni saremo costretti a importare 40.000 medici. Non è un male di per sè, ma mi chiedo perché, visto che sono molti gli studenti italiani che vorrebbero accedere alla professione medica. Contemporaneamente si dovrebbero costruire nuove strutture da affiancare alle università dove svolgere la parte pratica. Inoltre ci dovrebbe essere una maggiore attenzione a mantenere l’equilibrio tra le varie specialità mediche”.
Cioè?
“L’enorme calo previsto si ripercuoterà in alcuni settori molto più che in altri. Mancheranno soprattutto medici generali, come già sta accadendo in alcune regioni, chirurgi generali, urologi, ortopedici. Questo anche perché i nuovi iscritti sono soprattutto donne: stiamo assistendo a una femminilizzazione della medicina (qui i dati)”.
E dov’è il problema?
“Ovviamente non è un problema di equità di genere, ma di ‘propensioni di genere’: si è visto che le donne tendono a non specializzarsi in alcune materie, come appunto l’urologia e la cardiochirurgia. La pediatria, invece, rischia di essere sovraffollata. Per questo c’è bisogno anche di una programmazione a livello regionale. La facoltà di medicina richiede ora una riforma più ampia, che includa la Medicina Generale come un insegnamento a se stante, che valuti seriamente il sistema degli esami parcellizzati e che preveda più pratica di quanta i giovani medici non facciano adesso.
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Processo Dell'Utri: improbabili suggestioni e dati processuali
di Monica Centofante e Anna Petrozzi - 29 settembre 2009
Mentre la “libera” stampa di regime tenta di salvare osso e padrone nelle aule di giustizia di Palermo si scrive uno dei pezzi più vergognosi e inquietanti della storia del nostro Paese. Altro che escort e veline.
Che all’inizio della sua requisitoria il Procuratore generale Antonino Gatto abbia “ritoccato” alcuni particolari dell’impianto accusatorio che in primo grado aveva portato alla condanna a nove anni di reclusione per il senatore Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, è un dato di fatto. Ma allo stesso modo è accertato, per chi le udienze le ascolta e non affida la ricostruzione ai racconti degli avvocati, che nella sostanza le accuse mosse contro il politico del Pdl rimangono pressoché invariate: la presenza di Mangano alla villa di Arcore negli anni Settanta rappresentava per i primi giudici e rappresenta oggi per il Procuratore generale nientemeno che la “garanzia contro i sequestri” che in quegli anni Silvio Berlusconi, per il tramite dell’amico Marcello Dell’Utri, era riuscito a tenersi in casa. A dimostrazione che il gotha di Cosa Nostra, di cui Mangano era il riferimento, proteggeva quell’imprenditore.
D’altronde, che Mangano non fosse uno stalliere era ampiamente dimostrato. Tra le altre cose anche dalle affermazioni dello stesso Dell’Utri, che in un passo delle sue dichiarazioni spontanee, il 29 novembre del 2004, disse che lui si interessava di cani, “non sapevo neanche di cavalli”. Mentre Silvio Berlusconi, il 26 giugno del 1987, ricorda Gatto, al giudice istruttore di Milano affermava “che egli aveva avuto in animo di impostare un’attività di cavalli, poi non realizzata perché Mangano si rivelò pregiudicato”.
Detto questo, che non è cosa da poco, proviamo quindi a fare un po’ di chiarezza.
Nel corso dell’udienza dello scorso 25 settembre, che ha dato appunto inizio alla requisitoria, Antonino Gatto è ripartito dall’assunzione e conseguente trasferimento del boss Vittorio Mangano presso la villa di Arcore di Silvio Berlusconi. E dopo un breve passaggio sulle sue pressoché improbabili doti di stalliere ha immediatamente sottolineato le proprie divergenze con l’impostazione data sull’argomento da Pm e Tribunale: Mangano, ha detto, quando fu presentato da Marcello Dell’Utri a Silvio Berlusconi e il 1° luglio del 1974, come anagraficamente accertato, fece il suo ingresso nella ex-villa Casati non era affiliato a Cosa Nostra e il famoso incontro tra l’imprenditore emergente, l’imputato Dell’Utri e Stefano Bontade negli uffici milanesi della Edilnord non risale al 1974, ma all’anno successivo.
Deduzioni che il magistrato avrebbe tratto dalle dichiarazioni di alcuni pentiti, nello specifico Salvatore Cucuzza, Gaspare Mutolo, Francesco Scrima e dalla rivisitazione delle deposizioni del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo.
E proprio da Di Carlo è partito il procuratore generale, ricordando quella riunione alla Edilnord a cui l’odierno collaboratore era presente insieme ai boss Mimmo Teresi e Antonino Cinà.
Ad organizzare l’incontro, aveva ricordato l’ex boss di Altofonte, era stato Marcello Dell’Utri, in un’epoca in cui Berlusconi e la sua famiglia, come altri esponenti della Milano bene, era sotto la costante minaccia dell’Anonima Sequestri. Quella stessa organizzazione costituita da gruppi di mafiosi stabilmente operanti nella città lombarda nella quale orbitava proprio Vittorio Mangano almeno dal 1972. Anno in cui fu tratto in arresto a Milano per tentata estorsione continuata.
L’incontro negli uffici dell’azienda di Silvio Berlusconi doveva servire, come effettivamente avvenne, perché da quella Cosa Nostra palermitana di cui Bontade rappresentava il vertice provenisse la garanzia che la famiglia dell’imprenditore non sarebbe stata toccata. In virtù di un rapporto di do ut des che da quel momento in poi si venne ad instaurare. Una garanzia che sarebbe stata assicurata dallo stesso Mangano, la cui presenza ad Arcore venne ostentata al punto che l’improbabile stalliere era l’unico a cui Berlusconi affidò il compito di portare i propri figli a scuola e, talvolta, anche la moglie in città a Milano.
Che quella riunione non fosse avvenuta nel 1974, ma l’anno successivo Antonino Gatto lo avrebbe dedotto da una serie di circostanze che, sottolinea, “non compromettono per nulla l’attendibilità di Di Carlo”. Poiché era stato lo stesso collaboratore ad indicare come possibili diversi periodi: la primavera o l’autunno del 1974 o le stesse stagioni del 1975. Ricordo che è legato agli indumenti leggeri che il Di Carlo ricorda indossavano i soggetti presenti alla riunione.
Tra i riferimenti forniti dal pentito anche un brevissimo periodo di detenzione a cui era stato sottoposto Stefano Bontade, “durato soltanto qualche giorno”, sottolinea Di Carlo, in una data precedente a quell’incontro, in un periodo in cui già era stata costituita la Commissione provinciale di Cosa Nostra (nata, come storicamente accertato, nei primissimi mesi del 1974) e in un lasso di tempo in cui il boss Luciano Liggio era agli arresti (Liggio è stato arrestato il 16 maggio del 1974). A questi tre dati, ha sottolineato Gatto, occorre aggiungerne un quarto secondo il quale Bontade, a detta ancora di Di Carlo, non sarebbe stato mai arrestato nel periodo successivo alla riunione, cosa che porta ad escludere la primavera del 1974 poiché proprio in quel periodo il principe di Villagrazia venne condotto in carcere dove rimase fino all’ottobre dello stesso anno. Mentre in seguito alla scarcerazione fu ricoverato a Palermo presso la casa di cura Villa Serena dalla quale fu dimesso il successivo 20 novembre.
“Un arresto di pochi giorni bel boss – prosegue Gatto – c’è stato invece nel 1975. Fu detenuto, se ricordo bene, in quel di Firenze dove rimase dal 29 aprile fino al 2 maggio di quell’anno. Quindi, effettivamente, pochi giorni”.
In quanto all’affiliazione di Mangano successiva al suo ingresso ad Arcore, il Procuratore generale ricorda invece le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza (che parla nel 1974); Gaspare Mutolo (colloca il fatto alla fine dello stesso anno) e Francesco Scrima, (che dichiarò di aver conosciuto il boss in carcere nel 1975 – una detenzione di pochi giorni con l’accusa di porto abusivo di coltello – e che gli fu presentato come un fratello “fresco fresco”).
Fatti che non vanno in conflitto con quanto dedotto dai giudici di primo grado in ordine alla presenza del Mangano ad Arcore.
Il boss di Porta Nuova, spiega infatti il magistrato, “fornisce una prima garanzia alla famiglia di Berlusconi quando non era ancora uomo d’onore, ma a Milano faceva il suo apprendistato per entrare a tutti gli effetti nell’organizzazione. Affidato alle cure di Nicola Milano, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova; legatissimo a Bontade, ai fratelli Grado e in contatto con tantissimi altri uomini d’onore nel capoluogo lombardo. Tanto più che durante il periodo di permanenza in villa aveva proseguito con le sue attività criminali, entrava e usciva dal carcere e aveva piazzato una bomba nella villa di via Rovani senza che a nessuno venisse in mente di cacciarlo.
La sua presenza ad Arcore, conclude il pg. “non poteva quindi configgere con le intenzioni di Cosa Nostra di avvicinare l’imprenditore”.
Intenzioni che sarebbero state investite di una ancor maggiore ufficialità dopo la sua formale affiliazione e l’incarico di cui fu ufficialmente investito da Bontade dopo l’incontro negli uffici della Edilnord.
Ultimo dato, giusto per completezza. Dalla figura del Mangano, Dell’Utri non si staccherà mai, neppure quando il boss subirà pesanti condanne per mafia e per omicidio e fino al giorno della sua morte. La continuità dei rapporti tra i due è infatti dimostrata sia da una ambigua telefonata risalente al 1980 – nel corso della quale gli interlocutori parlavano con il linguaggio criptico utilizzato all’epoca dai boss che trafficavano in droga (parola di Paolo Borsellino) – sia dalle dichiarazioni dello stesso senatore. Che, ricorda ancora Gatto, nelle aule di giustizia prendeva le distanze dal boss, ma pubblicamente e a mezzo stampa, quando già rivestiva importanti incarichi istituzionali, ha sempre dichiarato che non solo lo aveva frequentato, ma che lo frequenterebbe ancora, arrivando addirittura a definirlo “un eroe a modo suo”. Un comportamento che il Procuratore generale ha definito “conforme ad un ortodosso stile mafioso, il quale concede per necessità difensive che dinanzi a rappresentanti delle istituzioni si possano prendere le distanze da Cosa Nostra, ma al di fuori non lo tollera in alcun modo”.
E questo è un fatto che si commenta da sé, indipendentemente dall’esito di qualsiasi processo.
Mentre la “libera” stampa di regime tenta di salvare osso e padrone nelle aule di giustizia di Palermo si scrive uno dei pezzi più vergognosi e inquietanti della storia del nostro Paese. Altro che escort e veline.
Che all’inizio della sua requisitoria il Procuratore generale Antonino Gatto abbia “ritoccato” alcuni particolari dell’impianto accusatorio che in primo grado aveva portato alla condanna a nove anni di reclusione per il senatore Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, è un dato di fatto. Ma allo stesso modo è accertato, per chi le udienze le ascolta e non affida la ricostruzione ai racconti degli avvocati, che nella sostanza le accuse mosse contro il politico del Pdl rimangono pressoché invariate: la presenza di Mangano alla villa di Arcore negli anni Settanta rappresentava per i primi giudici e rappresenta oggi per il Procuratore generale nientemeno che la “garanzia contro i sequestri” che in quegli anni Silvio Berlusconi, per il tramite dell’amico Marcello Dell’Utri, era riuscito a tenersi in casa. A dimostrazione che il gotha di Cosa Nostra, di cui Mangano era il riferimento, proteggeva quell’imprenditore.
D’altronde, che Mangano non fosse uno stalliere era ampiamente dimostrato. Tra le altre cose anche dalle affermazioni dello stesso Dell’Utri, che in un passo delle sue dichiarazioni spontanee, il 29 novembre del 2004, disse che lui si interessava di cani, “non sapevo neanche di cavalli”. Mentre Silvio Berlusconi, il 26 giugno del 1987, ricorda Gatto, al giudice istruttore di Milano affermava “che egli aveva avuto in animo di impostare un’attività di cavalli, poi non realizzata perché Mangano si rivelò pregiudicato”.
Detto questo, che non è cosa da poco, proviamo quindi a fare un po’ di chiarezza.
Nel corso dell’udienza dello scorso 25 settembre, che ha dato appunto inizio alla requisitoria, Antonino Gatto è ripartito dall’assunzione e conseguente trasferimento del boss Vittorio Mangano presso la villa di Arcore di Silvio Berlusconi. E dopo un breve passaggio sulle sue pressoché improbabili doti di stalliere ha immediatamente sottolineato le proprie divergenze con l’impostazione data sull’argomento da Pm e Tribunale: Mangano, ha detto, quando fu presentato da Marcello Dell’Utri a Silvio Berlusconi e il 1° luglio del 1974, come anagraficamente accertato, fece il suo ingresso nella ex-villa Casati non era affiliato a Cosa Nostra e il famoso incontro tra l’imprenditore emergente, l’imputato Dell’Utri e Stefano Bontade negli uffici milanesi della Edilnord non risale al 1974, ma all’anno successivo.
Deduzioni che il magistrato avrebbe tratto dalle dichiarazioni di alcuni pentiti, nello specifico Salvatore Cucuzza, Gaspare Mutolo, Francesco Scrima e dalla rivisitazione delle deposizioni del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo.
E proprio da Di Carlo è partito il procuratore generale, ricordando quella riunione alla Edilnord a cui l’odierno collaboratore era presente insieme ai boss Mimmo Teresi e Antonino Cinà.
Ad organizzare l’incontro, aveva ricordato l’ex boss di Altofonte, era stato Marcello Dell’Utri, in un’epoca in cui Berlusconi e la sua famiglia, come altri esponenti della Milano bene, era sotto la costante minaccia dell’Anonima Sequestri. Quella stessa organizzazione costituita da gruppi di mafiosi stabilmente operanti nella città lombarda nella quale orbitava proprio Vittorio Mangano almeno dal 1972. Anno in cui fu tratto in arresto a Milano per tentata estorsione continuata.
L’incontro negli uffici dell’azienda di Silvio Berlusconi doveva servire, come effettivamente avvenne, perché da quella Cosa Nostra palermitana di cui Bontade rappresentava il vertice provenisse la garanzia che la famiglia dell’imprenditore non sarebbe stata toccata. In virtù di un rapporto di do ut des che da quel momento in poi si venne ad instaurare. Una garanzia che sarebbe stata assicurata dallo stesso Mangano, la cui presenza ad Arcore venne ostentata al punto che l’improbabile stalliere era l’unico a cui Berlusconi affidò il compito di portare i propri figli a scuola e, talvolta, anche la moglie in città a Milano.
Che quella riunione non fosse avvenuta nel 1974, ma l’anno successivo Antonino Gatto lo avrebbe dedotto da una serie di circostanze che, sottolinea, “non compromettono per nulla l’attendibilità di Di Carlo”. Poiché era stato lo stesso collaboratore ad indicare come possibili diversi periodi: la primavera o l’autunno del 1974 o le stesse stagioni del 1975. Ricordo che è legato agli indumenti leggeri che il Di Carlo ricorda indossavano i soggetti presenti alla riunione.
Tra i riferimenti forniti dal pentito anche un brevissimo periodo di detenzione a cui era stato sottoposto Stefano Bontade, “durato soltanto qualche giorno”, sottolinea Di Carlo, in una data precedente a quell’incontro, in un periodo in cui già era stata costituita la Commissione provinciale di Cosa Nostra (nata, come storicamente accertato, nei primissimi mesi del 1974) e in un lasso di tempo in cui il boss Luciano Liggio era agli arresti (Liggio è stato arrestato il 16 maggio del 1974). A questi tre dati, ha sottolineato Gatto, occorre aggiungerne un quarto secondo il quale Bontade, a detta ancora di Di Carlo, non sarebbe stato mai arrestato nel periodo successivo alla riunione, cosa che porta ad escludere la primavera del 1974 poiché proprio in quel periodo il principe di Villagrazia venne condotto in carcere dove rimase fino all’ottobre dello stesso anno. Mentre in seguito alla scarcerazione fu ricoverato a Palermo presso la casa di cura Villa Serena dalla quale fu dimesso il successivo 20 novembre.
“Un arresto di pochi giorni bel boss – prosegue Gatto – c’è stato invece nel 1975. Fu detenuto, se ricordo bene, in quel di Firenze dove rimase dal 29 aprile fino al 2 maggio di quell’anno. Quindi, effettivamente, pochi giorni”.
In quanto all’affiliazione di Mangano successiva al suo ingresso ad Arcore, il Procuratore generale ricorda invece le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza (che parla nel 1974); Gaspare Mutolo (colloca il fatto alla fine dello stesso anno) e Francesco Scrima, (che dichiarò di aver conosciuto il boss in carcere nel 1975 – una detenzione di pochi giorni con l’accusa di porto abusivo di coltello – e che gli fu presentato come un fratello “fresco fresco”).
Fatti che non vanno in conflitto con quanto dedotto dai giudici di primo grado in ordine alla presenza del Mangano ad Arcore.
Il boss di Porta Nuova, spiega infatti il magistrato, “fornisce una prima garanzia alla famiglia di Berlusconi quando non era ancora uomo d’onore, ma a Milano faceva il suo apprendistato per entrare a tutti gli effetti nell’organizzazione. Affidato alle cure di Nicola Milano, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova; legatissimo a Bontade, ai fratelli Grado e in contatto con tantissimi altri uomini d’onore nel capoluogo lombardo. Tanto più che durante il periodo di permanenza in villa aveva proseguito con le sue attività criminali, entrava e usciva dal carcere e aveva piazzato una bomba nella villa di via Rovani senza che a nessuno venisse in mente di cacciarlo.
La sua presenza ad Arcore, conclude il pg. “non poteva quindi configgere con le intenzioni di Cosa Nostra di avvicinare l’imprenditore”.
Intenzioni che sarebbero state investite di una ancor maggiore ufficialità dopo la sua formale affiliazione e l’incarico di cui fu ufficialmente investito da Bontade dopo l’incontro negli uffici della Edilnord.
Ultimo dato, giusto per completezza. Dalla figura del Mangano, Dell’Utri non si staccherà mai, neppure quando il boss subirà pesanti condanne per mafia e per omicidio e fino al giorno della sua morte. La continuità dei rapporti tra i due è infatti dimostrata sia da una ambigua telefonata risalente al 1980 – nel corso della quale gli interlocutori parlavano con il linguaggio criptico utilizzato all’epoca dai boss che trafficavano in droga (parola di Paolo Borsellino) – sia dalle dichiarazioni dello stesso senatore. Che, ricorda ancora Gatto, nelle aule di giustizia prendeva le distanze dal boss, ma pubblicamente e a mezzo stampa, quando già rivestiva importanti incarichi istituzionali, ha sempre dichiarato che non solo lo aveva frequentato, ma che lo frequenterebbe ancora, arrivando addirittura a definirlo “un eroe a modo suo”. Un comportamento che il Procuratore generale ha definito “conforme ad un ortodosso stile mafioso, il quale concede per necessità difensive che dinanzi a rappresentanti delle istituzioni si possano prendere le distanze da Cosa Nostra, ma al di fuori non lo tollera in alcun modo”.
E questo è un fatto che si commenta da sé, indipendentemente dall’esito di qualsiasi processo.
lunedì 28 settembre 2009
Gli antitaliani
In questi giorni, anche grazie al grande D’Alema, è tornato di moda definire gli oppositori del governo antitaliani. Io francamente resto sempre perplesso perché, secondo la destra italiana, se sei contro il governo Berlusconi allora sei antitaliani, come se il governo fosse l’Italia, lo Stato.
Forse, questi “turisti della democrazia” si sono scordati che il popolo, quando vota, non elegge un Imperator, ma elegge un parlamento, il quale è formato da una maggioranza e da un’opposizione che hanno la stessa dignità (secondo me hanno poca dignità, ma questo è un’altra discorso).
Dunque non è Berlusconi lo Stato, non lo è nemmeno il parlamento. Lo Stato siamo noi, sono le istituzioni, è una cosa ben più complessa del pur enorme ego del sig. Berlusconi.
Ma queste sono riflessioni che né al PdL, né a Studio Aperto potrebbero interessare, in quanto bisogna essere “realisti” e “pragmatici”. Dunque, senza farsi troppe “seghe mentali”, definiamo amorevoli patriottici gli esponenti della destra e antitaliani quelli di sinistra.
Ora, se essere italiani vuol dire fregarsene di ogni cosa, non avere rispetto di chi la pensa diversamente, organizzare macchinazioni per infangare l’avversario, mentire, rubare, approfittarsi degli altri, limitare le libertà altrui, riconoscere solo i propri diritti, giudicare cretino chiunque la pensa in maniera anche solo leggermente diversa, considerarsi superiori a prescindere, che male c’è ad essere antitaliani? È un po’ come essere anticafoni, verreste mai a dirmi che sono cretino se mi definisco anticafone?
Dunque, se c’è una parte di politici (pochissimi), giornalisti, artisti o quant’altro, che rifiuta questo modo di fare (il cosiddetto berlusconismo) perché non lo rappresenta, perché lo ritiene immorale, indecente, diseducativo, irrispettoso e illiberale, bisogna per forza definirli antitaliani a prescindere? Magari queste persone cercano di fare quel che possono per cambiare le cose, per rendere migliore questo paese, sempre, chiaramente, secondo la loro concezione di “meglio”. Ma è proprio su questo delicato gioco che si regge la democrazia, o no?
Purtroppo però per i berlusconisti non è così (e si badi, anche per i berlusconisti di sinistra, che non sono affatto pochi) e chiunque critica il governo o il parlamento o la politica è antitaliano, a prescindere da ciò che dice, da ciò che propone, da ciò che critica.
Io penso invece che non vi siano patrioti migliori di chi tiene in guardia il governo, qualsiasi esso sia, delle derive di un qualsiasi provvedimento. Queste persone aiutano a riflettere, a pensare, a confrontarsi e dunque a prendere decisioni migliori, se vi fosse una controparte disposta ad ascoltare. Ma forse, in un paese intriso di cattolicesimo dogmatico e universalistico (oltre che autoreferenziale) pretendere un confronto e una riflessione è troppo. Quel che un tempo era scritto sulla Bibbia e ora invece sta nella testa dell’Imperator è legge, è parola di Dio, è Verità assoluta, immodificabile, innegabile. Coi risultati che si sanno.
Infine poi mi vengono in mente i giovani, quelli che non hanno assistito a nessun’altra politica se non quella degli ultimi 15 anni. A questi ragazzi sarebbe bello domandare cos’è la buona politica.
Sarebbe interessante vedere se le risposte saranno la presentazione di programmi, di soluzioni per risolvere i problemi. O se invece è più vantaggioso attaccare solamente l’avversario che sbaglia. E l’opposizione che deve fare? Proporre soluzioni alternative o criticare nel merito e nel metodo quelle proposte dalla maggioranza? E i partiti, sono camere stagne a se stanti o è giusto che si critichino a vicenda tra di loro, anche per questioni interne?
E l’informazione, deve dedicarsi solamente ai politici e ai partiti, oltre che ai loro padroni pubblici o privati che siano, o devono parlare anche di temi scabrosi come lavoro, legalità, economia, laicità, senza sentire l’opinione in merito a qualsiasi argomento dei politici?
Forse, questi “turisti della democrazia” si sono scordati che il popolo, quando vota, non elegge un Imperator, ma elegge un parlamento, il quale è formato da una maggioranza e da un’opposizione che hanno la stessa dignità (secondo me hanno poca dignità, ma questo è un’altra discorso).
Dunque non è Berlusconi lo Stato, non lo è nemmeno il parlamento. Lo Stato siamo noi, sono le istituzioni, è una cosa ben più complessa del pur enorme ego del sig. Berlusconi.
Ma queste sono riflessioni che né al PdL, né a Studio Aperto potrebbero interessare, in quanto bisogna essere “realisti” e “pragmatici”. Dunque, senza farsi troppe “seghe mentali”, definiamo amorevoli patriottici gli esponenti della destra e antitaliani quelli di sinistra.
Ora, se essere italiani vuol dire fregarsene di ogni cosa, non avere rispetto di chi la pensa diversamente, organizzare macchinazioni per infangare l’avversario, mentire, rubare, approfittarsi degli altri, limitare le libertà altrui, riconoscere solo i propri diritti, giudicare cretino chiunque la pensa in maniera anche solo leggermente diversa, considerarsi superiori a prescindere, che male c’è ad essere antitaliani? È un po’ come essere anticafoni, verreste mai a dirmi che sono cretino se mi definisco anticafone?
Dunque, se c’è una parte di politici (pochissimi), giornalisti, artisti o quant’altro, che rifiuta questo modo di fare (il cosiddetto berlusconismo) perché non lo rappresenta, perché lo ritiene immorale, indecente, diseducativo, irrispettoso e illiberale, bisogna per forza definirli antitaliani a prescindere? Magari queste persone cercano di fare quel che possono per cambiare le cose, per rendere migliore questo paese, sempre, chiaramente, secondo la loro concezione di “meglio”. Ma è proprio su questo delicato gioco che si regge la democrazia, o no?
Purtroppo però per i berlusconisti non è così (e si badi, anche per i berlusconisti di sinistra, che non sono affatto pochi) e chiunque critica il governo o il parlamento o la politica è antitaliano, a prescindere da ciò che dice, da ciò che propone, da ciò che critica.
Io penso invece che non vi siano patrioti migliori di chi tiene in guardia il governo, qualsiasi esso sia, delle derive di un qualsiasi provvedimento. Queste persone aiutano a riflettere, a pensare, a confrontarsi e dunque a prendere decisioni migliori, se vi fosse una controparte disposta ad ascoltare. Ma forse, in un paese intriso di cattolicesimo dogmatico e universalistico (oltre che autoreferenziale) pretendere un confronto e una riflessione è troppo. Quel che un tempo era scritto sulla Bibbia e ora invece sta nella testa dell’Imperator è legge, è parola di Dio, è Verità assoluta, immodificabile, innegabile. Coi risultati che si sanno.
Infine poi mi vengono in mente i giovani, quelli che non hanno assistito a nessun’altra politica se non quella degli ultimi 15 anni. A questi ragazzi sarebbe bello domandare cos’è la buona politica.
Sarebbe interessante vedere se le risposte saranno la presentazione di programmi, di soluzioni per risolvere i problemi. O se invece è più vantaggioso attaccare solamente l’avversario che sbaglia. E l’opposizione che deve fare? Proporre soluzioni alternative o criticare nel merito e nel metodo quelle proposte dalla maggioranza? E i partiti, sono camere stagne a se stanti o è giusto che si critichino a vicenda tra di loro, anche per questioni interne?
E l’informazione, deve dedicarsi solamente ai politici e ai partiti, oltre che ai loro padroni pubblici o privati che siano, o devono parlare anche di temi scabrosi come lavoro, legalità, economia, laicità, senza sentire l’opinione in merito a qualsiasi argomento dei politici?
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Le mani della mafia sulla Salerno-Reggio Calabria
Giorgio Frasca Polara, 28-09-2009
Che la mafia abbia avuto e di certo abbia ancora le mani in pasta nel cosiddetto “ammodernamento” dell’autostrada più famigerata d’Italia (la Salerno-Reggio Calabria, un calvario inenarrabile per gli automobilisti) è un fatto noto, arcinoto. Ma che sia la stessa Anas – che sovrintende ai lavori – ad ammetterlo a tutte lettere è fatto meno noto e terribilmente inquietante. Lo rivelano due paginette del corposo Rapporto 2009 dell’Associazione Italiadecide (volume secondo, documentazione, pagg. 84 e 85) presentato nel luglio scorso alla Camera alla presenza del capo dello Stato Giorgio Napolitano. Nel rapporto si ricorda anzitutto che il progetto generale di ammodernamento, per la cui conclusione bisognerà attendere se va bene il 2013 secondo il presidente dell’Anas Pietro Ciucci, comprende a oggi 57 interventi suddivisi in undici macro-lotti e 46 lotti tra cui quattro nuovi svincoli non previsti nell’originario piano di adeguamento ma successivamente richiesti da regioni ed enti locali.
“Secondo un rapporto riservato consegnato dall’Anas ad alcuni membri della commissione parlamentare Antimafia – ecco il passaggio-chiave delle note diffuse da Italiadecide – il progetto risulterebbe pesantemente condizionato dall’azione della criminalità organizzata che si sarebbe manifestata sia attraverso forme di estorsione nei confronti delle imprese operanti nei cantieri, sia attraverso forme di infiltrazione, ovvero tramite tentativi volti a fare eseguire ad imprese riconducibili ad organizzazioni mafiose parte dei lavori necessari alla realizzazione dell’opera. A tal riguardo il rapporto (sempre quello riservato dell’Anas, ndr), con riferimento ai macro-lotti 5 e 6 e nel periodo compreso tra giugno 2005 e settembre 2008, registra 87 denunce da parte di imprese che lavorano all’ammodernamento della Salerno-Reggio per attentati e intimidazioni sui cantieri. Gli atti denunciati vanno dal danneggiamento e furto di materiali e mezzi alle minacce a mano armata a dipendenti delle imprese”.
Già nel 2004, del resto, l’Anas aveva sottolineato (a scarico delle proprie responsabilità? A rinvio di tutte le colpe ai ministeri dei Lavori pubblici e dello Sviluppo economico?) che “i tentativi di infiltrazione mafiosa sarebbero stati facilitati anche dall’iniziale suddivisione dell’opera in 77 micro-lotti che, insieme all’uso del sistema del massimo ribasso, avrebbe contribuito in maniera decisiva a determinare i ritardi e le difficoltà che caratterizzano i cantieri”. Sommiamo a questo i “ritardi abnormi dovuti a incongruenze delle progettazioni causate dalla suddivisione degli appalti”: l’Anas ha ammesso che ci sono stati persino casi di separazione in due lotti diversi dalle due carreggiate di uno stesso tratto! Aggiungiamoci le conseguenze dei ribassi eccessivi praticati da “diverse imprese …che sono sfociati nel fallimento delle imprese stesse con conseguente fermo dei cantieri o nella rescissione dei contratti”. Insomma, “oltre a ritardi e aggravi di costi”, ecco che ne è conseguito “un intervento a macchia di leopardo che ha pesantemente limitato la fruibilità dell’opera da parte dell’utenza”.
Già, “l’utenza”. Cioè i poveri automobilisti e camionisti costretti a code, intoppi di ogni genere, ritardi. E sta arrivando l’inverno, che moltiplicherà i disagi. “L’utenza” sa con chi prendersela. Davvero solo sino al 2013? La stessa data è stata annunciata come certa mercoledì scorso dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Elio Vito, in risposta ad un’interrogazione del repubblicano Francesco Nucara. Però, sentitelo: “…dei circa 440 chilometri da ammodernare, ne sono stati già completati 190..”. Cioè assai meno della metà. Auguri.
Che la mafia abbia avuto e di certo abbia ancora le mani in pasta nel cosiddetto “ammodernamento” dell’autostrada più famigerata d’Italia (la Salerno-Reggio Calabria, un calvario inenarrabile per gli automobilisti) è un fatto noto, arcinoto. Ma che sia la stessa Anas – che sovrintende ai lavori – ad ammetterlo a tutte lettere è fatto meno noto e terribilmente inquietante. Lo rivelano due paginette del corposo Rapporto 2009 dell’Associazione Italiadecide (volume secondo, documentazione, pagg. 84 e 85) presentato nel luglio scorso alla Camera alla presenza del capo dello Stato Giorgio Napolitano. Nel rapporto si ricorda anzitutto che il progetto generale di ammodernamento, per la cui conclusione bisognerà attendere se va bene il 2013 secondo il presidente dell’Anas Pietro Ciucci, comprende a oggi 57 interventi suddivisi in undici macro-lotti e 46 lotti tra cui quattro nuovi svincoli non previsti nell’originario piano di adeguamento ma successivamente richiesti da regioni ed enti locali.
“Secondo un rapporto riservato consegnato dall’Anas ad alcuni membri della commissione parlamentare Antimafia – ecco il passaggio-chiave delle note diffuse da Italiadecide – il progetto risulterebbe pesantemente condizionato dall’azione della criminalità organizzata che si sarebbe manifestata sia attraverso forme di estorsione nei confronti delle imprese operanti nei cantieri, sia attraverso forme di infiltrazione, ovvero tramite tentativi volti a fare eseguire ad imprese riconducibili ad organizzazioni mafiose parte dei lavori necessari alla realizzazione dell’opera. A tal riguardo il rapporto (sempre quello riservato dell’Anas, ndr), con riferimento ai macro-lotti 5 e 6 e nel periodo compreso tra giugno 2005 e settembre 2008, registra 87 denunce da parte di imprese che lavorano all’ammodernamento della Salerno-Reggio per attentati e intimidazioni sui cantieri. Gli atti denunciati vanno dal danneggiamento e furto di materiali e mezzi alle minacce a mano armata a dipendenti delle imprese”.
Già nel 2004, del resto, l’Anas aveva sottolineato (a scarico delle proprie responsabilità? A rinvio di tutte le colpe ai ministeri dei Lavori pubblici e dello Sviluppo economico?) che “i tentativi di infiltrazione mafiosa sarebbero stati facilitati anche dall’iniziale suddivisione dell’opera in 77 micro-lotti che, insieme all’uso del sistema del massimo ribasso, avrebbe contribuito in maniera decisiva a determinare i ritardi e le difficoltà che caratterizzano i cantieri”. Sommiamo a questo i “ritardi abnormi dovuti a incongruenze delle progettazioni causate dalla suddivisione degli appalti”: l’Anas ha ammesso che ci sono stati persino casi di separazione in due lotti diversi dalle due carreggiate di uno stesso tratto! Aggiungiamoci le conseguenze dei ribassi eccessivi praticati da “diverse imprese …che sono sfociati nel fallimento delle imprese stesse con conseguente fermo dei cantieri o nella rescissione dei contratti”. Insomma, “oltre a ritardi e aggravi di costi”, ecco che ne è conseguito “un intervento a macchia di leopardo che ha pesantemente limitato la fruibilità dell’opera da parte dell’utenza”.
Già, “l’utenza”. Cioè i poveri automobilisti e camionisti costretti a code, intoppi di ogni genere, ritardi. E sta arrivando l’inverno, che moltiplicherà i disagi. “L’utenza” sa con chi prendersela. Davvero solo sino al 2013? La stessa data è stata annunciata come certa mercoledì scorso dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Elio Vito, in risposta ad un’interrogazione del repubblicano Francesco Nucara. Però, sentitelo: “…dei circa 440 chilometri da ammodernare, ne sono stati già completati 190..”. Cioè assai meno della metà. Auguri.
Scudo fiscale e testamento biologico : quale etica e quali principi giuridici ?
di Margherita Corriere*
La parola “scudo” ricorda un’arma usata da valorosi cavalieri per difendere il proprio popolo…ma qui francamente il termine non ha nulla di eroico; con tale locuzione infatti si parla di un provvedimento di dubbia costituzionalità (che sembrerebbe poter diventare legge entro il 3 ottobre), con cui far rientrare nel nostro Paese capitali che furbetti evasori, tenendone debitamente all’oscuro il fisco, avevano trasferito illegittimamente o illecitamente all’estero, dietro pagamento di una irrisoria penale del 5% dell’ammontare dei soldi imboscati.
Ma, come se ciò non bastasse a premiare i trasgressori delle leggi e delle regole, da parte della maggioranza si desidera esagerare, essere ancora più benevoli verso costoro, con un lasciapassare di impunità, estendendo il famigerato scudo fiscale ai reati tributari e alle violazioni contabili, quali il falso in bilancio. E la giustificazione (sempre se potesse essercene una plausibile!!!) è che il gettito pecuniario rimediato con lo scudo fiscale è necessario per finanziare le primarie richieste delle parti sociali.
Posta la questione in questi termini sembrerebbe che senza questi “eroici evasori” non potrebbe essere finanziato il sociale. È il colmo!! Dovremmo forse ringraziarli per aver commesso delle frodi fiscali e per aver perpetrato degli illeciti, facendoli assurgere a salvatori del sociale?!
Ci si chiede in molti dove siano finiti la certezza del diritto e quei sacrosanti principi costituzionali che inneggiano al principio di legalità, di uguaglianza, di determinatezza del diritto penale, nonché che fine abbiano fatto quegli universali principi etici, tali perché bagaglio morale imprescindibile di ogni essere umano.
Quale messaggio si lancia ai cittadini con un simile provvedimento? Non siate onesti…non conviene… fate gli evasori fiscali e poi sarete premiati!!
Quale insegnamento ne traggono i giovani? Che le regole non devono essere rispettate…tanto poi ci sono i condoni… si paga un piccolissimo obolo e si sana tutto…mentre gli onesti sono degli sciocchi…. degli illusi costretti a pagare …pagare…pagare!!
Conseguenza logica è ritenere chi ha promosso ed inneggiato allo scudo fiscale portatore di una concezione dell’etica alquanto atipica e disinvolta. Ed ecco, però, che si rimane alquanto confusi e basiti, constatando che gli stessi soggetti, in merito ad altro tema attuale, quale quello del testamento biologico, diventano dei bacchettoni, paladini di un moralismo fondamentalista, che, tra l’altro, viola gli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, volendo sopprimere il diritto di autodeterminazione dell’uomo, quale soggetto di diritto.
Ma l’etica non è un vestito; non se ne può scegliere una diversa per ogni occasione!! E, soprattutto, bisogna ricordare che l’Italia è uno Stato che si fonda sui principi fondamentali della Costituzione, per un autentico rispetto della legalità e della dignità dell’essere umano.
La parola “scudo” ricorda un’arma usata da valorosi cavalieri per difendere il proprio popolo…ma qui francamente il termine non ha nulla di eroico; con tale locuzione infatti si parla di un provvedimento di dubbia costituzionalità (che sembrerebbe poter diventare legge entro il 3 ottobre), con cui far rientrare nel nostro Paese capitali che furbetti evasori, tenendone debitamente all’oscuro il fisco, avevano trasferito illegittimamente o illecitamente all’estero, dietro pagamento di una irrisoria penale del 5% dell’ammontare dei soldi imboscati.
Ma, come se ciò non bastasse a premiare i trasgressori delle leggi e delle regole, da parte della maggioranza si desidera esagerare, essere ancora più benevoli verso costoro, con un lasciapassare di impunità, estendendo il famigerato scudo fiscale ai reati tributari e alle violazioni contabili, quali il falso in bilancio. E la giustificazione (sempre se potesse essercene una plausibile!!!) è che il gettito pecuniario rimediato con lo scudo fiscale è necessario per finanziare le primarie richieste delle parti sociali.
Posta la questione in questi termini sembrerebbe che senza questi “eroici evasori” non potrebbe essere finanziato il sociale. È il colmo!! Dovremmo forse ringraziarli per aver commesso delle frodi fiscali e per aver perpetrato degli illeciti, facendoli assurgere a salvatori del sociale?!
Ci si chiede in molti dove siano finiti la certezza del diritto e quei sacrosanti principi costituzionali che inneggiano al principio di legalità, di uguaglianza, di determinatezza del diritto penale, nonché che fine abbiano fatto quegli universali principi etici, tali perché bagaglio morale imprescindibile di ogni essere umano.
Quale messaggio si lancia ai cittadini con un simile provvedimento? Non siate onesti…non conviene… fate gli evasori fiscali e poi sarete premiati!!
Quale insegnamento ne traggono i giovani? Che le regole non devono essere rispettate…tanto poi ci sono i condoni… si paga un piccolissimo obolo e si sana tutto…mentre gli onesti sono degli sciocchi…. degli illusi costretti a pagare …pagare…pagare!!
Conseguenza logica è ritenere chi ha promosso ed inneggiato allo scudo fiscale portatore di una concezione dell’etica alquanto atipica e disinvolta. Ed ecco, però, che si rimane alquanto confusi e basiti, constatando che gli stessi soggetti, in merito ad altro tema attuale, quale quello del testamento biologico, diventano dei bacchettoni, paladini di un moralismo fondamentalista, che, tra l’altro, viola gli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, volendo sopprimere il diritto di autodeterminazione dell’uomo, quale soggetto di diritto.
Ma l’etica non è un vestito; non se ne può scegliere una diversa per ogni occasione!! E, soprattutto, bisogna ricordare che l’Italia è uno Stato che si fonda sui principi fondamentali della Costituzione, per un autentico rispetto della legalità e della dignità dell’essere umano.
Ridiamo : il governo ci spiega cosa e' un servizio pubblico
di Rita Guma*
"Credo nel servizio pubblico e credo sia importante far capire agli italiani che cosa sia esattamente il servizio pubblico, e dunque far capire loro quanto sia importante che all'interno del servizio pubblico non possano esserci questo tipo di trasmissioni". Lo ha dichiarato, secondo le agenzie, il viceministro allo Sviluppo economico, Paolo Romani, nel commentare l'apertura di una istruttoria sulla trasmissione AnnoZero di Michele Santoro.
La cosa diverte, dato che il membro del governo vuole spiegare a noi - che gia' dobbiamo subire TG faziosi e autocensurati, tagli alle trasmissioni d'inchiesta piu' tenaci, spostamenti di programmi per favorire trasmissioni cui partecipa il premier, e la visione di tanti altri programmi che certo non puntano sulla cultura dei partecipanti - Romani vuol spiegare a noi cittadini come deve essere il servizio pubblico.
Ma i telespettatori esasperati che da anni chiedono il ritorno ad una televisione di maggior qualita' e gli operatori dell'informazione seri e coraggiosi che vorrebbero fare cronaca a 360 gradi sanno gia' di cosa si sta parlando, e sanno che il servizio pubblico non e' cio' che e' oggi diventata la RAI, ma non per la ragione che il viceministro vuol darci ad intendere.
Infatti, un servizio pubblico che gia' a suo tempo pospose di ore la notizia che il papa (Giovanni Paolo II) era morto, oscurando l'informazione anche allora per dar spazio ad una intervista a Berlusconi programmata sempre nel solito "Porta a Porta", e che oggi fa il bis spostando Ballaro' in favore dello show aquilano, non e' un servizio, e' semmai un disservizio, e non e' pubblico, ma un uso personalistico di uno strumento pagato dallo Stato e finanziato dai cittadini con il canone.
Un servizio pubblico che omette di informare - nei TG - su moltissime questioni di interesse generale, cioe' una funzione degli organi di informazione che secondo la Corte dei Diritti dell'Uomo e' alla base della democrazia, non e' un servizio, e non e' nemmeno pubblico, ma privato nel momento in cui non si parla di certi fatti per proteggere qualcuno e se ne propagandano altri (perche' la cronaca selettiva e unidirezionale e' mera propaganda) sempre in favore dello stesso qualcuno.
Un servizio pubblico con l'informazione ridotta ad una serie di "panini" (cioe' l'eventuale intervento scomodo viene compresso fra le immagini e le parole di segno opposto che si vuole restino fissati nella mente del telespettatore), anzi, di tramezzini, visto che sono sempre piu' ridotti e tutti tagliati uguali sulle diverse reti, non e' un servizio pubblico, ma una presa in giro del cittadino telespettatore ed elettore, che per farsi un'idea della realta' dei fatti deve cercare altrove le informazioni.
Ovviamente il governo - che tramite l'ineffabile Romani vuol spiegarci come deve essere u servizio pubblico - non e' affatto estraneo a questa manipolazione dell'informazione pubblica, dato che molti massimi dirigenti RAI sono stati e sono vicini all'"editore di riferimento", che peraltro possiede altre tre TV nazionali che non solo ripetono la stessa solfa, martellando i malcapitati telespettatori, ma che - rappresentando quasi l'altra meta' dell'emittenza nazionale, sette reti in tutto - costituiscono un "memento mori" per chi opera in RAI (in quanto opporsi a certe scelte dettate dall'alto in RAI significa essere tagliati fuori da quasi tutto il settore).
In definitiva e' un oltraggio che il viceministro Romani voglia spiegare a noi come deve operare il servizio pubblico, mentre e' perfettamente lecito che i cittadini, schifati da una TV pubblica che non risponde ne' a criteri culturali ne' a criteri di imparzialita' e completezza dell'informazione, decidano di non pagare piu' il canone (ovviamente facendosi suggellare gli apparecchi o non acquistandoli proprio, in ossequio alla legge).
E cio', ovviamente, non nel segno voluto dalla campagna del Giornale e di Libero, che invitano ad abolire il canone per opporsi alla trasmissione di Annozero, ma proprio perche' al contrario, i cittadini vogliono un vero servizio pubblico: pluralista e privo di manipolazioni politiche, con piu' Report, piu' voci diverse, piu' informazione completa, piu' inchieste e meno personaggi genuflessi al potente di turno.
"Credo nel servizio pubblico e credo sia importante far capire agli italiani che cosa sia esattamente il servizio pubblico, e dunque far capire loro quanto sia importante che all'interno del servizio pubblico non possano esserci questo tipo di trasmissioni". Lo ha dichiarato, secondo le agenzie, il viceministro allo Sviluppo economico, Paolo Romani, nel commentare l'apertura di una istruttoria sulla trasmissione AnnoZero di Michele Santoro.
La cosa diverte, dato che il membro del governo vuole spiegare a noi - che gia' dobbiamo subire TG faziosi e autocensurati, tagli alle trasmissioni d'inchiesta piu' tenaci, spostamenti di programmi per favorire trasmissioni cui partecipa il premier, e la visione di tanti altri programmi che certo non puntano sulla cultura dei partecipanti - Romani vuol spiegare a noi cittadini come deve essere il servizio pubblico.
Ma i telespettatori esasperati che da anni chiedono il ritorno ad una televisione di maggior qualita' e gli operatori dell'informazione seri e coraggiosi che vorrebbero fare cronaca a 360 gradi sanno gia' di cosa si sta parlando, e sanno che il servizio pubblico non e' cio' che e' oggi diventata la RAI, ma non per la ragione che il viceministro vuol darci ad intendere.
Infatti, un servizio pubblico che gia' a suo tempo pospose di ore la notizia che il papa (Giovanni Paolo II) era morto, oscurando l'informazione anche allora per dar spazio ad una intervista a Berlusconi programmata sempre nel solito "Porta a Porta", e che oggi fa il bis spostando Ballaro' in favore dello show aquilano, non e' un servizio, e' semmai un disservizio, e non e' pubblico, ma un uso personalistico di uno strumento pagato dallo Stato e finanziato dai cittadini con il canone.
Un servizio pubblico che omette di informare - nei TG - su moltissime questioni di interesse generale, cioe' una funzione degli organi di informazione che secondo la Corte dei Diritti dell'Uomo e' alla base della democrazia, non e' un servizio, e non e' nemmeno pubblico, ma privato nel momento in cui non si parla di certi fatti per proteggere qualcuno e se ne propagandano altri (perche' la cronaca selettiva e unidirezionale e' mera propaganda) sempre in favore dello stesso qualcuno.
Un servizio pubblico con l'informazione ridotta ad una serie di "panini" (cioe' l'eventuale intervento scomodo viene compresso fra le immagini e le parole di segno opposto che si vuole restino fissati nella mente del telespettatore), anzi, di tramezzini, visto che sono sempre piu' ridotti e tutti tagliati uguali sulle diverse reti, non e' un servizio pubblico, ma una presa in giro del cittadino telespettatore ed elettore, che per farsi un'idea della realta' dei fatti deve cercare altrove le informazioni.
Ovviamente il governo - che tramite l'ineffabile Romani vuol spiegarci come deve essere u servizio pubblico - non e' affatto estraneo a questa manipolazione dell'informazione pubblica, dato che molti massimi dirigenti RAI sono stati e sono vicini all'"editore di riferimento", che peraltro possiede altre tre TV nazionali che non solo ripetono la stessa solfa, martellando i malcapitati telespettatori, ma che - rappresentando quasi l'altra meta' dell'emittenza nazionale, sette reti in tutto - costituiscono un "memento mori" per chi opera in RAI (in quanto opporsi a certe scelte dettate dall'alto in RAI significa essere tagliati fuori da quasi tutto il settore).
In definitiva e' un oltraggio che il viceministro Romani voglia spiegare a noi come deve operare il servizio pubblico, mentre e' perfettamente lecito che i cittadini, schifati da una TV pubblica che non risponde ne' a criteri culturali ne' a criteri di imparzialita' e completezza dell'informazione, decidano di non pagare piu' il canone (ovviamente facendosi suggellare gli apparecchi o non acquistandoli proprio, in ossequio alla legge).
E cio', ovviamente, non nel segno voluto dalla campagna del Giornale e di Libero, che invitano ad abolire il canone per opporsi alla trasmissione di Annozero, ma proprio perche' al contrario, i cittadini vogliono un vero servizio pubblico: pluralista e privo di manipolazioni politiche, con piu' Report, piu' voci diverse, piu' informazione completa, piu' inchieste e meno personaggi genuflessi al potente di turno.
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Imprenditori lecchesi sfruttavano migranti nei cantieri, chiesti 27 anni di carcere
Tra gli imputati anche Angelo Musolino, fratello della “mente finanziaria” del boss Franco Trovato
Estorsione in concorso, favoreggiamento e sfruttamento della manodopera clandestina: questi i reati contestati dal Pubblico Ministero Luca Masini (ora trasferitosi a Livorno) a cinque imprenditori lecchesi durante l’udienza del 16 giugno scorso presso il Tribunale di Lecco.
di Duccio Facchini
L’accusa ritiene che gli imputati costringessero i migranti – trasformatisi per l’occasione in schiavi moderni – a strazianti orari di lavoro (dalle 12 alle 16 ore) senza la minima garanzia e, ovviamente, nella più disumana condizione di sicurezza e di salario. I lavoratori nordafricani potevano al massimo aspirare a 200/300 euro mensili. Per chi non si piegava al regime schiavista erano previste percosse e violenze di ogni genere. Salvatore Marino, nato a Petronà e residente a Mandello, 47enne, è socio accomandante di “Edil Brianza 2007 Sas” (2007 è l’anno in cui sorge, ndr), impresa dedita alla costruzione di edifici residenziali e non, insieme a Severino Angora. Marino è molto attivo nel campo; nel 1992, infatti, diede vita alla “EdilSem Snc” (identica sede legale della “Edil Brianza 2007” a Mandello) che s’occupava di compravendita di beni immobili. Poi ancora nel ‘96 fu titolare firmatario di un’impresa non specializzata in attività di lavori edili ad Abbadia Lariana (Lecco), poi ancora nel 2000 con un’impresa di “completamento e finitura di edifici” sempre ad Abbadia Lariana (stessa sede legale della precedente) e poi, per finire in bellezza, socio amministratore di “Edilizia Sr Snc” ancora con Severino Angora ed ancora di “costruzione di edifici residenziali e non”. Vita breve anche per questa attività: poco meno di due anni. Per l’attivissimo Marino l’accusa ha chiesto 3 anni e 8 mesi di reclusione.
Severino Angora, napoletano di Striano classe 1956 e residente a Oggiono (Lecco), oltre ad esser socio accomandatario di “Edil Brianza 2007 Sas” con Marino, è stato titolare firmatario di “Bhiond” - impresa cancellata dopo circa un anno (ottobre 2006, novembre 2007) attiva nel commercio al dettaglio di articoli di profumeria, prodotti per toeletta e igiene personale. Il Pubblico Ministero Masini ha chiesto per Angora 5 anni.
Per Mario Verrillo, anch’egli imprenditore di Abbadia Lariana, sono stati chiesti 5 anni e 4 mesi.
Fabio Castagna, lecchese nato nel giugno del 1969 e residente a Galbiate (Lecco), è titolare firmatario della “Edil Arcadia” di Pasturo (Lc) nata nel 2003 ed attiva in lavori non specializzati di edilizia – soprattutto muratori. Inoltre Castagna è socio accomandante della di un’attività di famiglia operante nel settore delle onoranze funebri in via Torre Tarelli 31 a Lecco nata nel lontano 1991.La pena richiesta per Castagna è durissima: 6 anni e 8 mesi di carcere.
Angelo Musolino, calabrese classe 1959, è – insieme a Fabio Castagna – colui che, tra gli imputati coinvolti, rischia il maggior numero di anni di reclusione: 6 anni e 8 mesi per la precisione richiesti dal Pm Luca Masini. Le ricerche effettuate non hanno permesso – come nel caso di Verillo – di stabilire l’attività economica di Musolino; nonostante questo, Angelo Musolino racchiude in sé una storia ricca di spunti e particolari che meritano d’esser raccontati.
Angelo Musolino è fratello di Eustina, moglie del boss della ‘ndrangheta lecchese Franco Trovato, e di Vincenzo (1954, nato a Cerva in Calabria). Vincenzo Musolino è stato senza ombra di dubbio la “mente finanziaria” di Franco Trovato. Gestiva per conto del capo immobiliari, finanziarie, imprese di movimento terra e di smaltimento dei rifiuti. All’interno del clan di Franco Trovato (operativo da Milano a Varese passando per la Comasina ma stanziatosi nel lecchese) Angelo Musolino non ha mai rivestito lo stesso ruolo di Vincenzo – definito “organizzatore dell’associazione, in quanto preposto, nella zona di Lecco, al reinvestimento dei proventi illeciti del traffico”, secondo l’accusa del processo Wall Street. Antonio Schettini, braccio destro di Franco Trovato, interrogato nell’ambito del maxi processo “Wall Street” dichiarò che Angelo Musolino, così come Tonino Bruno e Antonio Sacchinello, era uno degli “amici” del boss attivo nello spaccio di cocaina sin dai primi anni del 1980. Salvatore Pace, anch’egli imputato nel maxi processo, dichiarò che al “Portico” di Airuno – locale intestato alla moglie del super boss e bunker operativo della cosca mafiosa – si incontrò spesso con Angelo Musolino, il fratello Vincenzo, Franco Trovato e Mario Trovato (altro “organizzatore” della cosca). Le frequentazioni con i capi indiscussi della ‘Ndrangheta lecchese – e tuttora attivi nonostante il regime di carcere duro, come nel caso di Franco Trovato – non costituiscono però l’unico dato interessante della “carriera” di Angelo Musolino.
Nella notte tra il 4 e il 5 settembre del 1976, durante la festa de L’Unità presso il circolo Farfallino di Lecco, il fratello maggiore dell’attore Nino Castelnuovo - celebre ai tempi per l’interpretazione di Renzo Tramaglino, Promessi Sposi – Pier Antonio, operaio 42enne, fu aggredito violentemente da sei uomini. Inizialmente furono accusati i tre fratelli Govoni, vicini al Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale. Uno di loro, Vittorio, fu infatti “candidato alle ultime elezioni politiche per il MSI-DN” a detta del deputato Borromeo D’Adda. Nel 1977 vi fu un’interrogazione parlamentare nella quale lo stesso deputato missino Borromeo D’Adda invitò l’allora responsabile agli Interni, Francesco Cossiga, a ristabilire “quel clima di civile convivenza che da diversi anni non esiste più” perché preoccupato del “processo popolare” riservato ai Govoni. Castelnuovo morì poche ore dopo per le gravissime lesioni riportate dopo il pestaggio. I Govoni vennero presto scagionati e ritenuti estranei al fattaccio. Secondo il collaboratore Antonio Zagari, interrogato nell’ambito del processo “Wall Street”, uno dei sei aggressori fu proprio Angelo Musolino, fratello di Vincenzo. Zagari, figlio di uno dei primi boss mafiosi calabresi giunti in Lombardia, Pasquale Zagari, attribuì in un primo momento il fatto a Vincenzo, confondendo i curricula dei due Musolino. Grazie ad un accertamento dei Ros risalente al 1993, la verbalizzazione dell’interrogatorio fu corretta: all’aggressione che portò alla morte di Pier Antonio Castelnuovo partecipò Angelo Musolino.
E’ la volta del 17 gennaio 1980. Negli uffici di una società milanese coinvolta in un giro di false fatturazioni, la Co.Ge.Me., Silvio Scarfò – collaboratore dell’amministratore dell’attività – morì ammazzato. Gregorio Vigliarolo (già coinvolto in una brutta faccenda di sequestro di persona e spaccio di droga), Angelo Musolino e, successivamente, il boss Franco Trovato, furono arrestati con l’accusa di omicidio. Nell’ottobre 1982 furono tutti e tre assolti per “avere agito in condizione di legittima difesa”. Fu Scarfò a far fuoco per primo.
1995, carcere di Vigevano. Vincenzo Musolino era lì detenuto da circa due anni. Il 21 marzo dello stesso anno il ministro di Grazia e Giustizia aveva deciso l’applicazione del regime di carcere duro, il famigerato 41 -bis, anche per la “mente finanziaria” del clan Trovato. In origine era stato però commesso un errore. I funzionari avevano scambiato le fedine penali tra fratelli. “Il mio cliente non e’ stato mai condannato. Molto probabilmente e’ stato preso un grosso abbaglio. Pluripregiudicato e’ il fratello”, si era lamentato il legale del foro di Lecco Giuseppe Martini.Vincenzo smise per questo di mangiare e rifiutò l’ora d’aria; la moglie, Maria Sacco, s’incatenò davanti al Tribunale di Milano in segno di protesta: “non voglio che muoia” affermò. Scrisse pure al Papa.Angelo Musolino se ne stava intanto nel carcere di Fossano (Cuneo) a scontare 12 anni.
Nonostante tutto, secondo l’impianto accusatorio e le richieste del Pubblico Ministero Luca Masini, Angelo Musolino ha continuato a commettere reati. L’ultimo appunto quello di malmenare, estorcere e sfruttare migranti maghrebini in concorso con altri quattro imprenditori attivi nel tessuto economico del territorio lecchese.
Fonti:
1) Corriere della Sera, 14 aprile 1995, pagina 45
2) Corriere della Sera, 27 luglio 1994, pagina 30
3) dalla relazione di Armando Spataro, Incontro di studio sul tema “Corso Falcone-Borsellino. Strategie e tecniche di conduzione della cross-examination”, Roma 30 giugno-2 luglio 2003
4)Atti parlamentari, Camera dei Deputati, seduta del 1^ marzo 1977
5)La Provincia di Lecco, 17 giugno 2009
6)Il Giorno, 17 giugno 2009
Estorsione in concorso, favoreggiamento e sfruttamento della manodopera clandestina: questi i reati contestati dal Pubblico Ministero Luca Masini (ora trasferitosi a Livorno) a cinque imprenditori lecchesi durante l’udienza del 16 giugno scorso presso il Tribunale di Lecco.
di Duccio Facchini
L’accusa ritiene che gli imputati costringessero i migranti – trasformatisi per l’occasione in schiavi moderni – a strazianti orari di lavoro (dalle 12 alle 16 ore) senza la minima garanzia e, ovviamente, nella più disumana condizione di sicurezza e di salario. I lavoratori nordafricani potevano al massimo aspirare a 200/300 euro mensili. Per chi non si piegava al regime schiavista erano previste percosse e violenze di ogni genere. Salvatore Marino, nato a Petronà e residente a Mandello, 47enne, è socio accomandante di “Edil Brianza 2007 Sas” (2007 è l’anno in cui sorge, ndr), impresa dedita alla costruzione di edifici residenziali e non, insieme a Severino Angora. Marino è molto attivo nel campo; nel 1992, infatti, diede vita alla “EdilSem Snc” (identica sede legale della “Edil Brianza 2007” a Mandello) che s’occupava di compravendita di beni immobili. Poi ancora nel ‘96 fu titolare firmatario di un’impresa non specializzata in attività di lavori edili ad Abbadia Lariana (Lecco), poi ancora nel 2000 con un’impresa di “completamento e finitura di edifici” sempre ad Abbadia Lariana (stessa sede legale della precedente) e poi, per finire in bellezza, socio amministratore di “Edilizia Sr Snc” ancora con Severino Angora ed ancora di “costruzione di edifici residenziali e non”. Vita breve anche per questa attività: poco meno di due anni. Per l’attivissimo Marino l’accusa ha chiesto 3 anni e 8 mesi di reclusione.
Severino Angora, napoletano di Striano classe 1956 e residente a Oggiono (Lecco), oltre ad esser socio accomandatario di “Edil Brianza 2007 Sas” con Marino, è stato titolare firmatario di “Bhiond” - impresa cancellata dopo circa un anno (ottobre 2006, novembre 2007) attiva nel commercio al dettaglio di articoli di profumeria, prodotti per toeletta e igiene personale. Il Pubblico Ministero Masini ha chiesto per Angora 5 anni.
Per Mario Verrillo, anch’egli imprenditore di Abbadia Lariana, sono stati chiesti 5 anni e 4 mesi.
Fabio Castagna, lecchese nato nel giugno del 1969 e residente a Galbiate (Lecco), è titolare firmatario della “Edil Arcadia” di Pasturo (Lc) nata nel 2003 ed attiva in lavori non specializzati di edilizia – soprattutto muratori. Inoltre Castagna è socio accomandante della di un’attività di famiglia operante nel settore delle onoranze funebri in via Torre Tarelli 31 a Lecco nata nel lontano 1991.La pena richiesta per Castagna è durissima: 6 anni e 8 mesi di carcere.
Angelo Musolino, calabrese classe 1959, è – insieme a Fabio Castagna – colui che, tra gli imputati coinvolti, rischia il maggior numero di anni di reclusione: 6 anni e 8 mesi per la precisione richiesti dal Pm Luca Masini. Le ricerche effettuate non hanno permesso – come nel caso di Verillo – di stabilire l’attività economica di Musolino; nonostante questo, Angelo Musolino racchiude in sé una storia ricca di spunti e particolari che meritano d’esser raccontati.
Angelo Musolino è fratello di Eustina, moglie del boss della ‘ndrangheta lecchese Franco Trovato, e di Vincenzo (1954, nato a Cerva in Calabria). Vincenzo Musolino è stato senza ombra di dubbio la “mente finanziaria” di Franco Trovato. Gestiva per conto del capo immobiliari, finanziarie, imprese di movimento terra e di smaltimento dei rifiuti. All’interno del clan di Franco Trovato (operativo da Milano a Varese passando per la Comasina ma stanziatosi nel lecchese) Angelo Musolino non ha mai rivestito lo stesso ruolo di Vincenzo – definito “organizzatore dell’associazione, in quanto preposto, nella zona di Lecco, al reinvestimento dei proventi illeciti del traffico”, secondo l’accusa del processo Wall Street. Antonio Schettini, braccio destro di Franco Trovato, interrogato nell’ambito del maxi processo “Wall Street” dichiarò che Angelo Musolino, così come Tonino Bruno e Antonio Sacchinello, era uno degli “amici” del boss attivo nello spaccio di cocaina sin dai primi anni del 1980. Salvatore Pace, anch’egli imputato nel maxi processo, dichiarò che al “Portico” di Airuno – locale intestato alla moglie del super boss e bunker operativo della cosca mafiosa – si incontrò spesso con Angelo Musolino, il fratello Vincenzo, Franco Trovato e Mario Trovato (altro “organizzatore” della cosca). Le frequentazioni con i capi indiscussi della ‘Ndrangheta lecchese – e tuttora attivi nonostante il regime di carcere duro, come nel caso di Franco Trovato – non costituiscono però l’unico dato interessante della “carriera” di Angelo Musolino.
Nella notte tra il 4 e il 5 settembre del 1976, durante la festa de L’Unità presso il circolo Farfallino di Lecco, il fratello maggiore dell’attore Nino Castelnuovo - celebre ai tempi per l’interpretazione di Renzo Tramaglino, Promessi Sposi – Pier Antonio, operaio 42enne, fu aggredito violentemente da sei uomini. Inizialmente furono accusati i tre fratelli Govoni, vicini al Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale. Uno di loro, Vittorio, fu infatti “candidato alle ultime elezioni politiche per il MSI-DN” a detta del deputato Borromeo D’Adda. Nel 1977 vi fu un’interrogazione parlamentare nella quale lo stesso deputato missino Borromeo D’Adda invitò l’allora responsabile agli Interni, Francesco Cossiga, a ristabilire “quel clima di civile convivenza che da diversi anni non esiste più” perché preoccupato del “processo popolare” riservato ai Govoni. Castelnuovo morì poche ore dopo per le gravissime lesioni riportate dopo il pestaggio. I Govoni vennero presto scagionati e ritenuti estranei al fattaccio. Secondo il collaboratore Antonio Zagari, interrogato nell’ambito del processo “Wall Street”, uno dei sei aggressori fu proprio Angelo Musolino, fratello di Vincenzo. Zagari, figlio di uno dei primi boss mafiosi calabresi giunti in Lombardia, Pasquale Zagari, attribuì in un primo momento il fatto a Vincenzo, confondendo i curricula dei due Musolino. Grazie ad un accertamento dei Ros risalente al 1993, la verbalizzazione dell’interrogatorio fu corretta: all’aggressione che portò alla morte di Pier Antonio Castelnuovo partecipò Angelo Musolino.
E’ la volta del 17 gennaio 1980. Negli uffici di una società milanese coinvolta in un giro di false fatturazioni, la Co.Ge.Me., Silvio Scarfò – collaboratore dell’amministratore dell’attività – morì ammazzato. Gregorio Vigliarolo (già coinvolto in una brutta faccenda di sequestro di persona e spaccio di droga), Angelo Musolino e, successivamente, il boss Franco Trovato, furono arrestati con l’accusa di omicidio. Nell’ottobre 1982 furono tutti e tre assolti per “avere agito in condizione di legittima difesa”. Fu Scarfò a far fuoco per primo.
1995, carcere di Vigevano. Vincenzo Musolino era lì detenuto da circa due anni. Il 21 marzo dello stesso anno il ministro di Grazia e Giustizia aveva deciso l’applicazione del regime di carcere duro, il famigerato 41 -bis, anche per la “mente finanziaria” del clan Trovato. In origine era stato però commesso un errore. I funzionari avevano scambiato le fedine penali tra fratelli. “Il mio cliente non e’ stato mai condannato. Molto probabilmente e’ stato preso un grosso abbaglio. Pluripregiudicato e’ il fratello”, si era lamentato il legale del foro di Lecco Giuseppe Martini.Vincenzo smise per questo di mangiare e rifiutò l’ora d’aria; la moglie, Maria Sacco, s’incatenò davanti al Tribunale di Milano in segno di protesta: “non voglio che muoia” affermò. Scrisse pure al Papa.Angelo Musolino se ne stava intanto nel carcere di Fossano (Cuneo) a scontare 12 anni.
Nonostante tutto, secondo l’impianto accusatorio e le richieste del Pubblico Ministero Luca Masini, Angelo Musolino ha continuato a commettere reati. L’ultimo appunto quello di malmenare, estorcere e sfruttare migranti maghrebini in concorso con altri quattro imprenditori attivi nel tessuto economico del territorio lecchese.
Fonti:
1) Corriere della Sera, 14 aprile 1995, pagina 45
2) Corriere della Sera, 27 luglio 1994, pagina 30
3) dalla relazione di Armando Spataro, Incontro di studio sul tema “Corso Falcone-Borsellino. Strategie e tecniche di conduzione della cross-examination”, Roma 30 giugno-2 luglio 2003
4)Atti parlamentari, Camera dei Deputati, seduta del 1^ marzo 1977
5)La Provincia di Lecco, 17 giugno 2009
6)Il Giorno, 17 giugno 2009
Presidente, non firmi!
di Bruno Tinti - 27 settebre 2009
Signor Presidente,
il Senato ha approvato l’emendamento Fleres alla legge che ha istituito lo scudo fiscale. Se anche la Camera lo approvasse, Lei resterebbe l’ultima difesa.
Signor Presidente, con questo emendamento una legge già odiosa diventerà uno strumento di illegalità. I beneficiati dallo scudo non potranno essere perseguiti per reati tributari e di falso in bilancio, il mezzo con cui sono stati prodotti i capitali che lo Stato “liceizza”; e intermediarie professionisti che ne cureranno il rientro non saranno tenuti a rispettare l'obbligo di segnalazione per l'antiriciclaggio; insomma omertà, complicità, favoreggiamento.
Le prime due previsioni, in realtà, non cagioneranno un grave danno al concreto esercizio della giustizia penale: da anni (dal 2000) una legge costruita all’esplicito scopo di impedire i processi penali in materia di reati fiscali assicura l’impunità alla quasi totalità degli evasori. Perché l’evasione fiscale costituisca reato bisogna evadere un’imposta superiore a 103.000 euro per ogni anno di imposta; e i casi di evasione superiori a tale soglia si aggirano intorno al 10 % del totale. E’ormai impossibile celebrare un processo per falsa fatturazione, e dunque anche per frode all’Iva comunitaria: quando si scopre una “cartiera” (una società che emette fatture false) e quindi si scoprono gli “utilizzatori finali” (secondo una recente definizione che ha avutomolto successo) di queste fatture, poi non si può fare un unico processo ma tanti quanti sono i luoghi in cui questi utilizzatori hanno il loro domicilio fiscale; il che è fonte di tali sprechi di tempo e di risorse da garantire nella quasi totalità dei casi la prescrizione. Infine, una delle forme più insidiose di evasione fiscale, quella commessa mediante la sistematica falsificazione della contabilità (il sistema seguito dalla quasi totalità degli evasori), è stata considerata un reato lieve, punito con una pena massima di 3 anni di reclusione; il che significa che nessuno va mai in prigione per via di sospensione condizionale della pena, indulto, affidamento in prova al servizio sociale.
Quanto al falso in bilancio, non è certo una novità che dopo la riforma della legislazione societaria voluta dal governo Berlusconi (che ha consentito allo stesso Berlusconi di essere assolto in molti processi in cui era imputato per questo reato), in Italia di processi del genere non se ne fanno più: il falso in bilancio è divenuto un reato fantasma, che c’è in astratto ma non si processa mai in concreto.
Ma la nuova legge contiene una norma che è una calamità: essa assicura l’impunità a trafficanti di droga, di armi, di donne, sequestratori di persona e altri delinquenti di grosso livello.
Signor Presidente, il danaro non ha colore, non odora diversamente a seconda del reato da cui deriva, non ha etichette che lo identifichino. Il provento dell’evasione fiscale e del falso in bilancio non si differenzia visivamente dal riscatto pagato dalla famiglia del sequestrato o dal ricavo del traffico di esseri umani. I trafficanti di droga colombiani portano il loro denaro a Miami e lo “ripuliscono”pagando circa il 50 per cento: questo è il prezzo del riciclaggio. Se passasse questa legge, avremmo un riciclaggio di Stato, per di più assolutamente concorrenziale con quello praticato dai professionisti del settore: lo scudo fiscale costa solo il 5 per cento.
E’vero, la nuova legge prevede che la possibilità per banche e altri intermediari di non rispettare l'obbligo di segnalazione per l'antiriciclaggio sia limitata ai reati fiscali e al falso in bilancio. Ma, signor Presidente, chi glielo spiegherà alle banche (che certamente non hanno molto interesse a scoraggiare queste iniziative da cui ricavano dei bei soldi) che i capitali che rientrano provengono da un traffico di armi e non da evasione fiscale? Come distinguere il provento dell’evasione fiscale da quello di altri truci e violenti delitti?
Non si può, signor Presidente: questa legge garantirà ai peggiori delinquenti una prospera e sicura verginità.
Signor Presidente, questa legge è una bandiera dell’illegalità: dove non avrà concreti effetti sul piano penale, trasmetterà un messaggio di opportunismo: renderà evidente a tutti che adempiere ai propri obblighi tributari, a principi etici irrinunciabili nella gestione delle imprese, è un’ingenuità, peggio è antieconomico. E’ una legge criminogena perché favorirà la futura evasione fiscale, convincendo tutti che “pagare le tasse” è cosa inutile, perfino stupida, tanto,prima o poi …. E dove invece e purtroppo avrà concrete conseguenze, sitratterà di un formidabile favoreggiamento nei confronti delle forme più gravi di delinquenza organizzata. Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Magistratura non potranno nemmeno trovare le prove di questi reati, forse conosciuti per altre vie, poiché il provento del reato sarà ormai sparito.
Signor Presidente non firmi questa legge; eviti che il nostro Paese sia sospinto ancora più in fondo nel precipizio di illegalità, peggio, di immoralità che ci sta separando dai Paesi civili.
Signor Presidente,
il Senato ha approvato l’emendamento Fleres alla legge che ha istituito lo scudo fiscale. Se anche la Camera lo approvasse, Lei resterebbe l’ultima difesa.
Signor Presidente, con questo emendamento una legge già odiosa diventerà uno strumento di illegalità. I beneficiati dallo scudo non potranno essere perseguiti per reati tributari e di falso in bilancio, il mezzo con cui sono stati prodotti i capitali che lo Stato “liceizza”; e intermediarie professionisti che ne cureranno il rientro non saranno tenuti a rispettare l'obbligo di segnalazione per l'antiriciclaggio; insomma omertà, complicità, favoreggiamento.
Le prime due previsioni, in realtà, non cagioneranno un grave danno al concreto esercizio della giustizia penale: da anni (dal 2000) una legge costruita all’esplicito scopo di impedire i processi penali in materia di reati fiscali assicura l’impunità alla quasi totalità degli evasori. Perché l’evasione fiscale costituisca reato bisogna evadere un’imposta superiore a 103.000 euro per ogni anno di imposta; e i casi di evasione superiori a tale soglia si aggirano intorno al 10 % del totale. E’ormai impossibile celebrare un processo per falsa fatturazione, e dunque anche per frode all’Iva comunitaria: quando si scopre una “cartiera” (una società che emette fatture false) e quindi si scoprono gli “utilizzatori finali” (secondo una recente definizione che ha avutomolto successo) di queste fatture, poi non si può fare un unico processo ma tanti quanti sono i luoghi in cui questi utilizzatori hanno il loro domicilio fiscale; il che è fonte di tali sprechi di tempo e di risorse da garantire nella quasi totalità dei casi la prescrizione. Infine, una delle forme più insidiose di evasione fiscale, quella commessa mediante la sistematica falsificazione della contabilità (il sistema seguito dalla quasi totalità degli evasori), è stata considerata un reato lieve, punito con una pena massima di 3 anni di reclusione; il che significa che nessuno va mai in prigione per via di sospensione condizionale della pena, indulto, affidamento in prova al servizio sociale.
Quanto al falso in bilancio, non è certo una novità che dopo la riforma della legislazione societaria voluta dal governo Berlusconi (che ha consentito allo stesso Berlusconi di essere assolto in molti processi in cui era imputato per questo reato), in Italia di processi del genere non se ne fanno più: il falso in bilancio è divenuto un reato fantasma, che c’è in astratto ma non si processa mai in concreto.
Ma la nuova legge contiene una norma che è una calamità: essa assicura l’impunità a trafficanti di droga, di armi, di donne, sequestratori di persona e altri delinquenti di grosso livello.
Signor Presidente, il danaro non ha colore, non odora diversamente a seconda del reato da cui deriva, non ha etichette che lo identifichino. Il provento dell’evasione fiscale e del falso in bilancio non si differenzia visivamente dal riscatto pagato dalla famiglia del sequestrato o dal ricavo del traffico di esseri umani. I trafficanti di droga colombiani portano il loro denaro a Miami e lo “ripuliscono”pagando circa il 50 per cento: questo è il prezzo del riciclaggio. Se passasse questa legge, avremmo un riciclaggio di Stato, per di più assolutamente concorrenziale con quello praticato dai professionisti del settore: lo scudo fiscale costa solo il 5 per cento.
E’vero, la nuova legge prevede che la possibilità per banche e altri intermediari di non rispettare l'obbligo di segnalazione per l'antiriciclaggio sia limitata ai reati fiscali e al falso in bilancio. Ma, signor Presidente, chi glielo spiegherà alle banche (che certamente non hanno molto interesse a scoraggiare queste iniziative da cui ricavano dei bei soldi) che i capitali che rientrano provengono da un traffico di armi e non da evasione fiscale? Come distinguere il provento dell’evasione fiscale da quello di altri truci e violenti delitti?
Non si può, signor Presidente: questa legge garantirà ai peggiori delinquenti una prospera e sicura verginità.
Signor Presidente, questa legge è una bandiera dell’illegalità: dove non avrà concreti effetti sul piano penale, trasmetterà un messaggio di opportunismo: renderà evidente a tutti che adempiere ai propri obblighi tributari, a principi etici irrinunciabili nella gestione delle imprese, è un’ingenuità, peggio è antieconomico. E’ una legge criminogena perché favorirà la futura evasione fiscale, convincendo tutti che “pagare le tasse” è cosa inutile, perfino stupida, tanto,prima o poi …. E dove invece e purtroppo avrà concrete conseguenze, sitratterà di un formidabile favoreggiamento nei confronti delle forme più gravi di delinquenza organizzata. Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Magistratura non potranno nemmeno trovare le prove di questi reati, forse conosciuti per altre vie, poiché il provento del reato sarà ormai sparito.
Signor Presidente non firmi questa legge; eviti che il nostro Paese sia sospinto ancora più in fondo nel precipizio di illegalità, peggio, di immoralità che ci sta separando dai Paesi civili.
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