da Gerardo Adinolfi
Quella sera del 23 settembre 1985 mi hanno aspettato sotto casa, nel mio quartiere, al Vomero. Erano in tre, i killer.
Mi hanno lasciato li, nella mia Mehari verde, senza vita. Avevo solo 26 anni compiuti pochi giorni prima. Avevo una ragazza, che amavo. Una famiglia, che pur preoccupandosi era fiera di ciò che facevo. Avevo una passione, che era diventata anche il mio lavoro. Qualcuno mi ha tolto tutto. La libertà di scrivere, di indagare, di denunciare, di amare, di vivere.
Mi chiamavo, anzi mi chiamo, Giancarlo Siani: giornalista pubblicista. Scrivevo per “Il Mattino”, ed ero da poco stato trasferito nella sede di Napoli, dopo aver collaborato come corrispondente da Torre Annunziata.
Stare tra la gente, scoprire,scrivere e informare era la mia vita. Sapevo di correre dei rischi. Nei miei articoli non avevo paura di denunciare la criminalità che affligge la mia terra, non temevo di fare nomi e mostrare come la camorra sfruttava la povertà e l’ignoranza che dilagavano negli strati più bassi della popolazione. In zone dove non c’è lavoro, dove la disoccupazione è una realtà concreta è facile trasformare ragazzi in killer e spacciatori in cambio di denaro e presunto rispetto.
Ero al corrente dei pericoli cui andavo in contro, ma nonostante questo la mia voglia di verità mi impediva di fermarmi. E invece lo hanno fatto quei colpi, sparati da una pistola 7 e 65.
Un’arma strana,si dirà. Una pistola comune, non come quelle che i camorristi usano per compiere i loro crimini. Per molto tempo, quasi nove anni, la magistratura ha brancolato nel buio. La stranezza dell’arma usata ha sviato le indagini verso altre piste: una storia di gelosia, una questione di donne.
La camorra non aveva mai sparato ad un giornalista, perché avrebbe dovuto iniziare proprio con un semplice corrispondente del Il Mattino?
Eppure quell’articolo apparso sul quotidiano il 10 giugno 1985 è stata la mia condanna a morte.
Era stato arrestato da pochi giorni il boss di Torre Annunziata Valentino Gionta, che era a capo della “Nuova famiglia”. Ma Gionta era diventato troppo potente, tanto che anche i suoi alleati cominciarono a preoccuparsi e a meditare su come sbarazzarsi di lui. In quell’articolo del 10 giugno, il giorno seguente all’arresto di Gionta da parte dei carabinieri ho accusato i Bardellino e i Nuvoletta di tradimento e li avevo resi vulnerabili al cospetto della mafia siciliana, con cui stavano tessendo rapporti.
Per questo motivo dovevo pagare. Il clan Nuvoletta decretò la mia punizione, anche se Valentino Gionta era contrario. A suo avviso dovevo essere sì punito, ma non con la morte. E non nella sua zona, a Torre Annunziata.
Ma i Nuvoletta avevano deciso,dovevo morire. Vennero scelti i killer e il luogo,venne pianificato il mio omicidio.
Ho trascorso il mio ultimo giorno in redazione. Stavo seguendo una pista importante, avevo raccolto informazioni e verità che avrebbero sconvolto e probabilmente modificato il panorama camorristico nel napoletano. Ma tutto ciò non ho potuto mai raccontarlo, non ne ho avuto il tempo. Tutto quello che avevo scoperto resterà un mistero. Come un mistero per molto tempo è stato il mio assassinio.
Ho potuto conoscere i nomi dei miei killer solo dopo anni e anni di inchieste, di indagini molto spesso condotte a rilento. Solo nel 1997 la Corte di Assise di Napoli condanna all’ergastolo Angelo Nuvoletta, Valentino Gionta e Luigi Baccante come mandanti del mio omicidio, e Ciro Cappuccio e Armando Del Core come esecutori. Ma la mia storia non finisce qui, ci sono ancora tanti misteri e tanti dubbi da risolvere. La mia è una storia ancora da raccontare.
Per troppi anni sono stato dimenticato. I media hanno parlato poco di me, e quando lo hanno fatto non sempre hanno raccontato che sono morto solo perché facevo bene il mio lavoro.
Cosa resta di me oggi? Sono riuscito con i miei articoli, con la mia voglia di verità a lasciare una traccia di me che possa fungere da esempio? Non so se sono stato un buon giornalista o meno, non so se il mio lavoro, in fin dei conti, sia servito a cambiare “qualcosa”, ma credo di essermi impegnato a fare ciò che ho sempre voluto fare. Non piegandomi a nessuna logica di potere.
Eppure oggi guardo la mia città, la mia terra. Quei problemi che denunciavo venti anni fa ci sono ancora,anzi sembrano essere peggiorati. I ragazzini- i muschilli- che prima spacciavano droga ora girano armati, sparano, ammazzano.
La disoccupazione c’è sempre, e i ragazzi preferiscono ancora cadere nell’illegalità pur di comprarsi abiti di marca e una bella automobile. Le istituzioni sono lontane dai cittadini, e sono diffusissime le infiltrazioni mafiose negli organi di governo delle città, delle province, delle regioni.
Tutto ciò mi fa soffrire ancora di più di quei colpi sparatimi contro.
Eppure vedo che anche oggi qualcuno disposto a rischiare c’è,mettendo in pericolo la sua incolumità per contrastare contro ciò che io stesso ho iniziato a combattere.
Parlo dei giornalisti antimafia che quotidianamente operano nel nostro Paese. Parlo delle associazioni come LiberaInformazione, delle iniziative di RadioOndaLibera, di giornalisti come Rosanna Capacchione, Gabriele Sardo,Pino Maniaci, Roberto Saviano. E infine parlo di tutti i giornalisti che come me sono stati ridotti al silenzio forzato, perché proprio non ne volevano sapere di tacere la verità. Peppino Impastato, Giovanni Spampinato,Giuseppe Fava e tanti altri uomini che hanno pagato perché con le loro denunce si sono messi “contro”.
Non chiamateci eroi, per favore. Siamo uomini normali. I diversi sono gli altri,quelli che decidono di stare nell’illegalità, di tacere o di mentire, non portando a termine il loro lavoro di giornalisti e di uomini.
Cosa resta di me oggi? Scuole intitolate col mio nome, qualche strada, un teatro, associazioni, premi e una radio antimafia in via di creazione. Ma soprattutto resta- sì, riesco a vederlo negli occhi di voi che state ascoltando o leggendo questa mia ultima lettera- il desiderio e la ricerca della verità.”
Giancarlo Siani
Giancarlo Siani il 19 settembre avrebbe compiuto 50 anni, e sono sicuro che sarebbe stato anche lui, come tutti i giornalisti liberi e indipendenti, un “farabutto”. Così come ci ha definiti qualcuno.
martedì 22 settembre 2009
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