di Giovanna Dall’Ongaro
Quattro inchieste in sette anni: non è certo un risultato da sbandierare con orgoglio, anzi è la prova evidente che il motore gira troppo lentamente. Questo, in sintesi, il giudizio sull’attività del Tribunale dell’Aja uscito dalla tavola rotonda organizzata lo scorso 17 luglio a Roma dall’associazione radicale Non c’è Pace Senza Giustizia (No Peace Without Justice). Più che un convegno accademico, una sorta di riunione di famiglia per riflettere sul comportamento di un figlio che ha deluso le aspettative dei genitori.
A valutare le manchevolezze della Corte Penale Internazionale (Cpi), c’erano infatti i protagonisti storici della lunga e difficile marcia verso l’Aja (Un tribunale a ostacoli): le madri (Emma Bonino in primis, Una corte per giudicare il mondo) e i padri (i membri di NPWJ) di quel progetto nato come un’utopia e che invece si concretizzò il 17 luglio del 1998 con la firma dello Statuto di Roma dove venne sancita la nascita della Cpi, divenuta operativa solo nel 2002 (Il compromesso e la speranza; Decolla il Tribunale internazionale).
Il pretesto per fare il punto della situazione viene proprio dalla ricorrenza dell’11° anniversario di quel trattato. Ma quali sono i difetti di questo giovane strumento giuridico che sognava sin dalla nascita (Non c’è pace senza giustizia) di diventare il principale paladino dei diritti umani nel mondo, affrontando delitti di portata universale come il genocidio, i crimini contro l’umanità, crimini di guerra e di aggressione?
“Troppa diplomazia”. Risponde senza giri di parole Flavia Lattanzi giudice del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (intervistata da Galileo nel 2000 sulle aspettative della giustizia penale internazionale, L’egoismo e l’ignoranza), intervenuta alla tavola rotonda. Solamente l’ossessione del procuratore Luis Moreno Ocampo per le trattative politiche può giustificare, secondo Lattanzi, l’apertura di soli quattro procedimenti rispetto alle migliaia di notizie di reato giunte alla Corte in questi anni. Il Tribunale vivrebbe insomma, per Lattanzi, una specie di crisi identità che lo spingerebbe a preferire l'arte della mediazione ai processi.
Inoltre non tutti gli strumenti dello Statuto sono sfruttati a pieno: la facoltà di azione “motu proprio”, senza cioè aspettare denunce esterne da parte di un paese firmatario o dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è per lo più ignorata. A questa forma di intervento si è sempre prediletto il principio di complementarietà, ossia il ruolo di “assistenza” del Tribunale rispetto alle istituzioni giuridiche dei paesi coinvolti nelle inchieste. Da qui l’abitudine di cercare prima di tutto di convincere gli Stati a intervenire nelle questioni segnalate, senza sostituirsi tout court a essi. Ma tutta questa prudenza non ha prodotto finora risultati soddisfacenti e i pesci grossi non sono ancora finiti nelle maglie della giustizia internazionale.
C’è infatti un solo imputato eccellente nel curriculum vitae della procura dell’Aja(il presidente del Sudan tuttora in carica Omar Al Bashir, responsabile del genocidio delle popolazioni del Darfur, Emergenza Darfur), accanto agli altri procedimenti che coinvolgono il Nord Uganda, la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica centrafricana. Tra morti e fuggitivi gli imputati in custodia della Corte non completano le dita di una mano.
Ma i motivi di scontento non finiscono qui. Si aggiunge anche il fatto che l'Italia non ha ancora recepito nel suo ordinamento legislativo lo Statuto di Roma del 1998. Una situazione paradossale visto che il nostro paese ne è stato uno dei principali sostenitori.
martedì 1 settembre 2009
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