martedì 29 settembre 2009

Dottori cercasi

di Tiziana Moriconi

Tra dieci anni in Italia mancheranno i medici, soprattutto chirurghi, urologi, ortopedici e quelli generali. Ecco i dati del centro studi Fnomceo, commentati dal segretario nazionale della federazione, Gabriele Peperoni

Nel 2017 undici milioni di pazienti potrebbero rimanere senza medico di famiglia. In più, tra dieci anni rischiamo di ritrovarci con 30.000 ospedalieri in meno, soprattutto cardiochirurghi e ortopedici, e dovremo importarli dall’estero come sta già accadendo in Gran Bretagna. Perché? E' colpa dell’attuale sistema del numero chiuso per l’accesso alla facoltà, la mancanza di una programmazione e l’alta mortalità studentesca, che ha raggiunto una media di oltre il 28 per cento. A disegnare il futuro demografico dei medici in Italia è stata la Federazione nazionale ordini medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) durante il workshop di studio “Formazione pre laurea e specialistica”, svoltosi a Bari lo scorso 17 settembre. Galileo ne ha parlato con Gabriele Peperoni, segretario nazionale della federazione.

Dottor Peperoni, davvero corriamo il rischio di restare senza medici?
“Sono 15 anni che esiste il numero chiuso nelle facoltà di medicina. Quest’anno abbiamo avuto circa 8.000 iscritti, lo scorso appena 6.000 (qui i dati): se si confrontano i numeri con la popolazione dei medici che oggi hanno oltre sessant’anni e stanno per andare in pensione salta agli occhi che, a meno di un’inversione di tendenza, i nostri giovani non basteranno, soprattutto perché la popolazione continuerà a invecchiare. Oggi c’è una sottoccupazione, non proprio una disoccupazione, ma si prevede una carenza di 35.000 medici tra dieci anni, e di 63.000 tra venti. In realtà, a meno di non prendere provvedimenti, si pensa che questo quadro sia persino ottimistico”.

Perché?
“Non tiene conto dell’altissima mortalità studentesca delle nostre università, tra le maggiori in Europa. In media, ogni anno il 28,6 per cento degli studenti, anche del quarto anno, abbandona la facoltà. Anche qui, pensiamo che il problema sia nella modalità di accesso. L’attuale sistema dei test è superato e si è dimostrato non valido. Per di più non riesce in alcun modo a valutare la propensione all'ascolto e al servizio che un medico dovrebbe avere”.

Quindi proponete di liberalizzare accessi a medicina?
“No, non è possibile neanche questo, perché quasi nessuna università è in grado di garantire una adeguata preparazione a un alto numero di studenti, soprattutto nella fase di specializzazione. Bisognerebbe aumentare il numero degli iscritti selezionando gli studenti in base ai curricula e dar loro modo, dove possibile, di frequentare qualche corso preparatorio durante gli ultimi due anni delle scuole superiori, in modo che possano rendersi conto se la professione medica fa per loro o meno. Comunque, anche raddoppiando il numero degli attuali iscritti, sembra che tra venti anni saremo costretti a importare 40.000 medici. Non è un male di per sè, ma mi chiedo perché, visto che sono molti gli studenti italiani che vorrebbero accedere alla professione medica. Contemporaneamente si dovrebbero costruire nuove strutture da affiancare alle università dove svolgere la parte pratica. Inoltre ci dovrebbe essere una maggiore attenzione a mantenere l’equilibrio tra le varie specialità mediche”.

Cioè?
“L’enorme calo previsto si ripercuoterà in alcuni settori molto più che in altri. Mancheranno soprattutto medici generali, come già sta accadendo in alcune regioni, chirurgi generali, urologi, ortopedici. Questo anche perché i nuovi iscritti sono soprattutto donne: stiamo assistendo a una femminilizzazione della medicina (qui i dati)”.

E dov’è il problema?
“Ovviamente non è un problema di equità di genere, ma di ‘propensioni di genere’: si è visto che le donne tendono a non specializzarsi in alcune materie, come appunto l’urologia e la cardiochirurgia. La pediatria, invece, rischia di essere sovraffollata. Per questo c’è bisogno anche di una programmazione a livello regionale. La facoltà di medicina richiede ora una riforma più ampia, che includa la Medicina Generale come un insegnamento a se stante, che valuti seriamente il sistema degli esami parcellizzati e che preveda più pratica di quanta i giovani medici non facciano adesso.

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