di Monica Centofante e Anna Petrozzi - 29 settembre 2009
Mentre la “libera” stampa di regime tenta di salvare osso e padrone nelle aule di giustizia di Palermo si scrive uno dei pezzi più vergognosi e inquietanti della storia del nostro Paese. Altro che escort e veline.
Che all’inizio della sua requisitoria il Procuratore generale Antonino Gatto abbia “ritoccato” alcuni particolari dell’impianto accusatorio che in primo grado aveva portato alla condanna a nove anni di reclusione per il senatore Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, è un dato di fatto. Ma allo stesso modo è accertato, per chi le udienze le ascolta e non affida la ricostruzione ai racconti degli avvocati, che nella sostanza le accuse mosse contro il politico del Pdl rimangono pressoché invariate: la presenza di Mangano alla villa di Arcore negli anni Settanta rappresentava per i primi giudici e rappresenta oggi per il Procuratore generale nientemeno che la “garanzia contro i sequestri” che in quegli anni Silvio Berlusconi, per il tramite dell’amico Marcello Dell’Utri, era riuscito a tenersi in casa. A dimostrazione che il gotha di Cosa Nostra, di cui Mangano era il riferimento, proteggeva quell’imprenditore.
D’altronde, che Mangano non fosse uno stalliere era ampiamente dimostrato. Tra le altre cose anche dalle affermazioni dello stesso Dell’Utri, che in un passo delle sue dichiarazioni spontanee, il 29 novembre del 2004, disse che lui si interessava di cani, “non sapevo neanche di cavalli”. Mentre Silvio Berlusconi, il 26 giugno del 1987, ricorda Gatto, al giudice istruttore di Milano affermava “che egli aveva avuto in animo di impostare un’attività di cavalli, poi non realizzata perché Mangano si rivelò pregiudicato”.
Detto questo, che non è cosa da poco, proviamo quindi a fare un po’ di chiarezza.
Nel corso dell’udienza dello scorso 25 settembre, che ha dato appunto inizio alla requisitoria, Antonino Gatto è ripartito dall’assunzione e conseguente trasferimento del boss Vittorio Mangano presso la villa di Arcore di Silvio Berlusconi. E dopo un breve passaggio sulle sue pressoché improbabili doti di stalliere ha immediatamente sottolineato le proprie divergenze con l’impostazione data sull’argomento da Pm e Tribunale: Mangano, ha detto, quando fu presentato da Marcello Dell’Utri a Silvio Berlusconi e il 1° luglio del 1974, come anagraficamente accertato, fece il suo ingresso nella ex-villa Casati non era affiliato a Cosa Nostra e il famoso incontro tra l’imprenditore emergente, l’imputato Dell’Utri e Stefano Bontade negli uffici milanesi della Edilnord non risale al 1974, ma all’anno successivo.
Deduzioni che il magistrato avrebbe tratto dalle dichiarazioni di alcuni pentiti, nello specifico Salvatore Cucuzza, Gaspare Mutolo, Francesco Scrima e dalla rivisitazione delle deposizioni del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo.
E proprio da Di Carlo è partito il procuratore generale, ricordando quella riunione alla Edilnord a cui l’odierno collaboratore era presente insieme ai boss Mimmo Teresi e Antonino Cinà.
Ad organizzare l’incontro, aveva ricordato l’ex boss di Altofonte, era stato Marcello Dell’Utri, in un’epoca in cui Berlusconi e la sua famiglia, come altri esponenti della Milano bene, era sotto la costante minaccia dell’Anonima Sequestri. Quella stessa organizzazione costituita da gruppi di mafiosi stabilmente operanti nella città lombarda nella quale orbitava proprio Vittorio Mangano almeno dal 1972. Anno in cui fu tratto in arresto a Milano per tentata estorsione continuata.
L’incontro negli uffici dell’azienda di Silvio Berlusconi doveva servire, come effettivamente avvenne, perché da quella Cosa Nostra palermitana di cui Bontade rappresentava il vertice provenisse la garanzia che la famiglia dell’imprenditore non sarebbe stata toccata. In virtù di un rapporto di do ut des che da quel momento in poi si venne ad instaurare. Una garanzia che sarebbe stata assicurata dallo stesso Mangano, la cui presenza ad Arcore venne ostentata al punto che l’improbabile stalliere era l’unico a cui Berlusconi affidò il compito di portare i propri figli a scuola e, talvolta, anche la moglie in città a Milano.
Che quella riunione non fosse avvenuta nel 1974, ma l’anno successivo Antonino Gatto lo avrebbe dedotto da una serie di circostanze che, sottolinea, “non compromettono per nulla l’attendibilità di Di Carlo”. Poiché era stato lo stesso collaboratore ad indicare come possibili diversi periodi: la primavera o l’autunno del 1974 o le stesse stagioni del 1975. Ricordo che è legato agli indumenti leggeri che il Di Carlo ricorda indossavano i soggetti presenti alla riunione.
Tra i riferimenti forniti dal pentito anche un brevissimo periodo di detenzione a cui era stato sottoposto Stefano Bontade, “durato soltanto qualche giorno”, sottolinea Di Carlo, in una data precedente a quell’incontro, in un periodo in cui già era stata costituita la Commissione provinciale di Cosa Nostra (nata, come storicamente accertato, nei primissimi mesi del 1974) e in un lasso di tempo in cui il boss Luciano Liggio era agli arresti (Liggio è stato arrestato il 16 maggio del 1974). A questi tre dati, ha sottolineato Gatto, occorre aggiungerne un quarto secondo il quale Bontade, a detta ancora di Di Carlo, non sarebbe stato mai arrestato nel periodo successivo alla riunione, cosa che porta ad escludere la primavera del 1974 poiché proprio in quel periodo il principe di Villagrazia venne condotto in carcere dove rimase fino all’ottobre dello stesso anno. Mentre in seguito alla scarcerazione fu ricoverato a Palermo presso la casa di cura Villa Serena dalla quale fu dimesso il successivo 20 novembre.
“Un arresto di pochi giorni bel boss – prosegue Gatto – c’è stato invece nel 1975. Fu detenuto, se ricordo bene, in quel di Firenze dove rimase dal 29 aprile fino al 2 maggio di quell’anno. Quindi, effettivamente, pochi giorni”.
In quanto all’affiliazione di Mangano successiva al suo ingresso ad Arcore, il Procuratore generale ricorda invece le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza (che parla nel 1974); Gaspare Mutolo (colloca il fatto alla fine dello stesso anno) e Francesco Scrima, (che dichiarò di aver conosciuto il boss in carcere nel 1975 – una detenzione di pochi giorni con l’accusa di porto abusivo di coltello – e che gli fu presentato come un fratello “fresco fresco”).
Fatti che non vanno in conflitto con quanto dedotto dai giudici di primo grado in ordine alla presenza del Mangano ad Arcore.
Il boss di Porta Nuova, spiega infatti il magistrato, “fornisce una prima garanzia alla famiglia di Berlusconi quando non era ancora uomo d’onore, ma a Milano faceva il suo apprendistato per entrare a tutti gli effetti nell’organizzazione. Affidato alle cure di Nicola Milano, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova; legatissimo a Bontade, ai fratelli Grado e in contatto con tantissimi altri uomini d’onore nel capoluogo lombardo. Tanto più che durante il periodo di permanenza in villa aveva proseguito con le sue attività criminali, entrava e usciva dal carcere e aveva piazzato una bomba nella villa di via Rovani senza che a nessuno venisse in mente di cacciarlo.
La sua presenza ad Arcore, conclude il pg. “non poteva quindi configgere con le intenzioni di Cosa Nostra di avvicinare l’imprenditore”.
Intenzioni che sarebbero state investite di una ancor maggiore ufficialità dopo la sua formale affiliazione e l’incarico di cui fu ufficialmente investito da Bontade dopo l’incontro negli uffici della Edilnord.
Ultimo dato, giusto per completezza. Dalla figura del Mangano, Dell’Utri non si staccherà mai, neppure quando il boss subirà pesanti condanne per mafia e per omicidio e fino al giorno della sua morte. La continuità dei rapporti tra i due è infatti dimostrata sia da una ambigua telefonata risalente al 1980 – nel corso della quale gli interlocutori parlavano con il linguaggio criptico utilizzato all’epoca dai boss che trafficavano in droga (parola di Paolo Borsellino) – sia dalle dichiarazioni dello stesso senatore. Che, ricorda ancora Gatto, nelle aule di giustizia prendeva le distanze dal boss, ma pubblicamente e a mezzo stampa, quando già rivestiva importanti incarichi istituzionali, ha sempre dichiarato che non solo lo aveva frequentato, ma che lo frequenterebbe ancora, arrivando addirittura a definirlo “un eroe a modo suo”. Un comportamento che il Procuratore generale ha definito “conforme ad un ortodosso stile mafioso, il quale concede per necessità difensive che dinanzi a rappresentanti delle istituzioni si possano prendere le distanze da Cosa Nostra, ma al di fuori non lo tollera in alcun modo”.
E questo è un fatto che si commenta da sé, indipendentemente dall’esito di qualsiasi processo.
martedì 29 settembre 2009
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