di Bruno Tinti
Quasi tutti i cittadini (beh, quelli che si preoccupano di questo genere di cose) sanno ormai che le intercettazioni telefoniche, quando arriverà la nuova legge, saranno impossibili perché, per farle, occorrerà già aver individuato il colpevole; e siccome, per i reati più gravi ed importanti (tra cui la corruzione, il peculato, la frode fiscale, il falso in bilancio e gli altri reati tipici della classe dirigente italiana) senza intercettazioni il colpevole non si individua, ecco che appunto le intercettazioni non si potranno fare. Di questo ho già parlato in un’analisi precedente, fornendo anche alcuni esempi.
Probabilmente poche persone sanno che c’è anche un altro motivo per cui le intercettazioni diventano impossibili. Dice infatti la nuova legge che le intercettazioni devono “essere fondate su elementi espressamente e analiticamente indicati nel provvedimento, non limitati ai soli contenuti di conversazioni telefoniche intercettate nel medesimo procedimento”.
Che vuol dire? Si fa prima a capirlo con un esempio.
Tizio ha violentato Caia insieme a due altre persone che però non sono state identificate. Caia lo ha riconosciuto in fotografia ma non ha trovato nessuna foto degli altri due. Il PM chiede al giudice di intercettare il telefono di Tizio nei confronti del quale il riconoscimento di Caia costituisce “evidente indizio di colpevolezza”; spera così di identificare i suoi due complici con cui, forse, Tizio parlerà servendosi del suo telefono.
In realtà, questo tipo di riconoscimenti in genere non viene ritenuto idoneo per i provvedimenti che richiedono “gravi indizi di reato” (per esempio per mettere in prigione una persona con la cosiddetta misura cautelare): troppi riconoscimenti fotografici si rivelano poi sbagliati. E il punto è che gli “evidenti” indizi richiesti per un’intercettazione sono la stessa cosa dei “gravi” indizi richiesti per mettere un indagato in prigione; sicché niente prigione, niente intercettazione.
Ma supponiamo che invece il giudice ritenga questo indizio abbastanza “evidente” o “grave” o quello che volete; magari, come nel caso a cui mi riferisco (che sfortunatamente è reale), perché il riconoscimento è stato facilitato da una particolare cicatrice che Tizio aveva sulla faccia. Il telefono di Tizio finisce dunque sotto controllo. A un certo punto, Tizio parla con Sempronio e, ignaro di essere indagato e intercettato, commenta con lui la violenza carnale commessa ai danni di Caia; e lo fa in termini tali da rendere evidente che Sempronio è uno degli altri due che hanno partecipato allo stupro: “Certo che meno male che quell’amico tuo, Mevio, te l’ha tenuta perché tu non ce la facevi” (Tizio) e “Si, ma io non l’ho dovuta pestare come hai fatto tu e me la sono goduta” (Sempronio). L’ho detto che si trattava di una violenza reale vera, queste erano più o meno le frasi pronunciate.
Che fece la Procura? Chiese ed ottenne di intercettare Sempronio. Poco dopo questi si mise a parlare con Mevio, amico suo ma non di Tizio, commentando lo stupro (erano delinquenti violenti e bestiali e anche particolarmente stupidi).
Bene, tutti identificati, “gravi indizi” in quantità, misura cautelare e tutti in prigione.
Caia non riconobbe né Sempronio né Mevio perché le percosse di Tizio l’avevano resa quasi incosciente; però, con le intercettazioni, la condanna fu facile. E, notate, il DNA di Mevio non venne trovato e nessuno confessò. Però, tutti si presero circa 9 anni.
Che succederebbe in un processo come questo con la nuova legge?
Beh, il telefono di Tizio lo metteremmo sotto controllo e identificheremmo Sempronio. Però …, eh però non potremmo mettere sotto controllo il telefono di Sempronio, perché tutto quello che abbiamo nei suoi confronti è “il contenuto di una conversazione telefonica intercettata nel medesimo procedimento”. E, come ho detto prima, questo non è sufficiente per disporre un’intercettazione. Solo che, siccome Tizio non conosce Mevio e non gli parla per telefono, senza intercettare Sempronio non identificheremo mai Mevio. I due delinquenti non confesseranno mai e men che meno riveleranno chi è Mevio (di cui non abbiamo nemmeno il DNA). Conclusione: Mevio resta impunito e violenterà qualcun’altra.
Possiamo utilizzare questo esempio per descrivere un’altra chicca di questa legge che, in verità, parrebbe proprio progettata dagli abituali frequentatori di aule giudiziarie messi in difficoltà dalle intercettazioni. Beh, ora che ci penso….
Supponiamo che il telefono di Tizio resti muto per parecchi giorni, nel senso che le sue conversazioni non rivelano niente di importante. Però non lo possiamo mollare, non sappiamo quando parlerà con gli altri due partecipi dello stupro. E che ci parlerà, prima o poi, è sicuro: dall’intercettazione sappiamo che continua a frequentare il suo ambiente di degenerati, drogati e violenti; e che spesso e volentieri parla di donne in termini aggressivi e spregiativi. In effetti, a un certo punto, ecco la telefonata giusta: Tizio parla con Sempronio (che non è intercettato perché, come ho detto, la nuova legge non lo consente), gli racconta che ha incontrato una donna particolarmente appetibile, che l’ha pedinata, che sa dove abita e che ha già identificato un posto giusto per “farle la festa” (ho già detto che faccio riferimento a un fatto vero). Gli dice anche di parlarne con Mevio e che gli telefonerà tra un paio di giorni per prendere gli ultimi accordi.
La Procura ascolta palpitando per tutto il giorno seguente e poi… Poi più niente, perché sono scaduti i 60 giorni e l’intercettazione deve essere terminata per legge e non può più essere prorogata. Così non si sa chi sia la vittima designata, non si sa chi sia Mevio, non si sa dove e come i tre si incontreranno.
Certo, come ci ripetono fino alla nausea gli ideatori della nuova legge, si può far ricorso “ai buoni vecchi metodi di indagine”; e infatti si può pedinare Tizio e cercare di capire dove va, chi sono quelli che incontra e quando si riunirà con i due complici per commettere il nuovo stupro; e poi seguirli tutti e tre, salvando all’ultimo momento la poveretta; che in verità poteva essere salvata subito senza subire un tentativo di aggressione.
Certo che, se tutto va bene, abbiamo visto un bel film. Se invece ci si perde Tizio, oppure Tizio si accorge di essere seguito, oppure se ne accorgono Sempronio o Mevio e i tre vanno a bersi una birra e intanto progettano un nuovo appuntamento in un altro posto; oppure succede qualcosa d’altro per cui arriviamo tardi quando lo stupro è già bello che finito. Ecco, allora, avremmo la straordinaria soddisfazione di aver condotto un’indagine nel rispetto di una legge che ci mette al passo dei Paesi più progrediti, come si suol dire.
Per concludere, una riflessione: tra le tante sciocchezze dette per giustificare questa nuova legge, c’è stata anche quella secondo cui le intercettazioni vanno “ridotte” perché costano troppo: di questo si può riparlare in un’altra analisi. Ma la domanda è: quanto costa “il buon vecchio metodo di indagine”? Quanto la macchina, la benzina, i… quanti? 10, 20, 30 poliziotti necessari per pedinare Tizio, Sempronio e Mevio per 2, 3, 4, X giorni? E anche: quanto controllo del territorio non è stato possibile mentre i 10, 20, 30 poliziotti seguivano i 3 delinquenti? Quanti altri reati sono stati commessi? Quanti danni sono stati arrecati ai cittadini? Quanti ci hanno lasciato la pelle o hanno subito esperienze drammatiche? E non si sarebbe evitato tutto questo con un’intercettazione dei telefoni di Tizio e Sempronio fatta comodamente da 4 poliziotti (si chiama h. 24, un poliziotto per un turno di 6 ore)? Ma certo che si sarebbe evitato.
Serve altro per rendersi conto che la nuova legge sulle intercettazioni è stata inventata all’unico scopo di assicurare l’impunità a quelli che l’hanno inventata?
Se proseguiamo nell’analisi della legge sulle intercettazioni (certo che chiamarla “legge” fa un po’ senso), dopo le questioni sugli evidenti indizi di colpevolezza (le intercettazioni fatte per trovare un colpevole che sappiamo già chi è, analisi 1); e dopo quelle sulla durata delle intercettazioni e la loro utilizzabilità in altri procedimenti (con conseguente impunità garantita per chi è identificato come autore di un reato solo attraverso le intercettazioni - analisi 2), veniamo ad altre perle di sicura efficacia per la procurata inefficacia (stilisticamente discutibile ma assai utile per esprimere il concetto) del processo penale.
Dice la nuova legge che, “nei procedimenti contro ignoti, l’autorizzazione a disporre le intercettazioni è data, su richiesta della persona offesa, relativamente alle utenze e ai luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l’autore del reato”.
Proviamo a calare questa norma in un esempio che ci farà capire bene come funzionano le cose.
Allora: l’autosalone di Giovanni, titolare di un’avviata concessionaria, viene distrutto da un incendio. Intervengono i pompieri e scoprono i resti di una tanica di benzina e di alcuni stracci semi carbonizzati: incendio doloso.
Che fa il Pubblico Ministero, allo stato attuale della legislazione, con la nuova legge sulle intercettazioni non ancora in vigore?
Manda a chiamare Giovanni e lo interroga: hai avuto richieste estorsive (cioè: ti è stato chiesto di pagare il pizzo)? No, dice Giovanni. Hai qualche nemico che ce l’ha con te per qualche ragione? No, dice Giovanni. Ma chi può essere stato ad appiccare l’incendio? Quale motivo può aver avuto? Boh, dice Giovanni.
Il PM naturalmente non crede a una parola di quelle (poche) dette da Giovanni e gli mette sotto controllo i telefoni; quelli suoi, quelli dell’azienda, quelli della moglie, quelli dei suoi soci, quelli dei dipendenti, se magari scopre che ne ha una, quelli dell’amante, Giuditta. Dopo un po’ scopre che Giuditta riceve una telefonata da un telefono intestato a uno sconosciuto (Giuseppe detto Pippo, che si scoprirà essere un altro suo amante). E, nel corso di questa telefonata, i due parlano dell’incendio, della bella lezione data a quel cornuto, del fatto che adesso vedremo se non pagherà, e concordano che Giuditta andrà a spiegargli che il milione di euro, che già gli avevano chiesto, adesso è diventato uno e mezzo e che sarà bene darlo a lei, Giuditta, in tutta fretta, ad evitare altri problemi.
Il PM riflette tra sé sulla perfidia delle donne, abbandona immediatamente le intercettazioni nei confronti di tutti gli altri e “mette sotto” il telefono di Pippo. Scopre così che Pippo è un associato al clan di Calogero, mafioso pericolosissimo se mai ce ne è stato uno; e che Calogero è il beneficiario finale del milione e mezzo di euro e del pizzo futuro che Giovanni certamente da quel momento pagherà. A questo punto l’indagine è avviata, altre intercettazioni, pedinamenti, arresti, si scoprono altre vittime e altri “pizzi”; e insomma tutto quello che si fa in un procedimento di questo tipo. Calogero, Pippo, Giuditta e altri mafiosi vengono processati e condannati e i cittadini vivono un po’ più tranquilli.
Che succederà con la nuova legge?
Prima di tutto non si mette sotto controllo nemmeno un telefono; perché, come ho detto, per farlo occorre la richiesta della persona offesa, cioè Giovanni. E siccome Giovanni sta ancora tremando per la paura, continua a dire che nessuno gli ha chiesto niente, nessuno lo ha minacciato, nessuno ce l’ha con lui, l’ultima cosa che fa è quella di chiedere al PM di mettergli sotto controllo i telefoni. “Ma no, dottore, è inutile, non si scoprirebbe niente, è certamente uno sbaglio, io poi ci tengo alla mia privacy”. Sicché l’indagine si ferma prima ancora di cominciare.
E’ anche vero che, per i reati di mafia (e terrorismo, sequestri di persona) le intercettazioni si possono disporre “quando vi sono sufficienti indizi di reato” (e in questo caso ci sono, l’incendio è doloso); il che vuol dire che il PM della richiesta di Giovanni potrebbe pure fare a meno; senza dire niente a nessuno, potrebbe mettere sotto controllo i telefoni di tutte quelle persone che ho elencato prima.
Ma il punto è: e chi lo dice che questo incendio è stato appiccato dai mafiosi a scopo estorsivo? Mica c’è la firma “clan di Calogero - mafia S.p.A.” sulla tanica di benzina. E se l’estorsione l’ha fatta un dipendente licenziato? O Giuditta (vi ricordate, l’amante di Giovanni) cui Giovanni ha appena detto che la vuole lasciare per tornare in seno alla famiglia? O uno dei soci che ha contrasti con Giovanni nella gestione della società? O un concorrente che vuole far fuori l’azienda di Giovanni dal mercato? Come si fa a dire che si tratta di un reato di mafia? Eh, infatti non si fa: prove o anche solo indizi che si tratta di reato di mafia non ce n’è; a meno di non stabilire che tutte le estorsioni che avvengono in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia (sapete, le famose 4 Regioni in cui lo Stato ha perso il controllo del territorio) sono di natura mafiosa. Ma questo è un principio di diritto un po’ azzardato ….; e sono sicuro che, le Pro Loco, i Governatori, i Sindaci, gli Assessori e i cittadini tutti di queste Regioni avrebbero qualcosa da ridire; per non parlare della Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi su un principio di diritto come questo. E poi, che si fa se l’incendio capita in Friuli Venezia Giulia?
Quindi no mafia, no intercettazioni; no richiesta di Giovanni, no intercettazioni; no intercettazioni, no scoperta di Giuditta, Pippo, Calogero e tutti gli altri; no scoperta di Giuditta etc., no processo; no processo, no prigione per i mafiosi; no prigione per i mafiosi, no sicurezza per i cittadini; no sicurezza, sì pizzo. Grande successo per la legalità.
Ma supponiamo che Giovanni, vuoi perché è coraggioso, vuoi perché è stufo, vuoi perché si fida della Giustizia e dello Stato (???), dica al PM che da qualche tempo qualcuno gli chiede soldi; non sa chi è e non sa a chi fa capo; però basta, mettimi sotto controllo i telefoni; e il PM, che non crede alle sue orecchie, lo fa. Si va avanti per un po’ ma nessun risultato. Perché? Perché vi ricordate che la telefonata che dà il via alle indagini è quella tra Giuditta e Pippo, i cui telefoni non sono tra “le utenze” nella disponibilità di Giovanni; sicché il PM, anche se sa che esiste Giuditta, non può “metterle sotto” il telefono. No intercettazione telefono Giuditta, no identificazione di Pippo; no identificazione di Pippo, no identificazione di Calogero etc. etc.
E comunque, la rete può restare tesa per i soliti 60 giorni perché, alla scadenza, si molla tutto. Sicché magari Pippo fa una telefonata a Giovanni al giorno 61, sarebbe il momento buono per identificare il telefono di Pippo e quindi lui; però niente da fare, i telefoni di Giovanni non sono più sotto controllo. E, alla sfiga non c’è limite, ovviamente Giovanni non sa che Giuditta ha un altro amante e quindi non conosce Pippo; sicché non può dare indicazioni che portino alla sua identificazione.
No identificazione Pippo, no identificazione Calogero etc. etc.
Ma perché non chiediamo a George Cloneey (che sempre cittadino americano è; lì, con buona pace del ministro Alfano, le intercettazioni le fanno, altro che se le fanno) che cosa ne pensa? Magari facciamo una sottoscrizione per fargli fare un altro spot.
venerdì 31 luglio 2009
La legalità e la libertà.
In questi giorni sto avendo un piccolo dibattito con un caro amico sul tema della giustizia e della legalità. Manco a dirlo l'argomento principale ruota attorno al perverso rapporto che hanno gli italiani con la giustizia e coi magistrati.
I berlusconisti (ma non solo) hanno un odio profondo nei confronti dei magistrati, sopratutto quelli inquirenti, i quali vengono accusati di ogni nefandezza possibile.
Secondo loro i magistrati attuano metodi da regime con lo scopo di controllare le nostre vite, uccidere la nostra privacy e, ultimo ma non ultimo, sovvertire l'ordine democratico voluto dalla gente (termine alquanto oscuro e triste) accusando di ogni infamia il capo del governo e i suoi uomini. Siccome la maggior parte di queste infamie (secondo loro) senza alcuna prova deriva dalle intercettazioni l'unica cosa da fare per ristabilire la privacy è abolire le intercettazioni. Per indorare la pillola e per convincere anche i più dubbiosi il governo non ha fatto altro che ripetere per mesi che in Italia si fanno moltissime intercettazioni, che costano un occhio della testa, che invadono la vita privata, che non risolvono nulla.
Io non voglio tornare per l'ennesima volta a trattare i soliti argomenti, triti e ritriti. Sia su questo blog che su tanti altri è facile ricercare dei post in cui si smontano con imbarazzante facilità tutte queste menzogne.
Come spesso accade in Italia, però, la verità e la realtà devono fare i conti con le opinioni e con gli interessi.
Secondo alcune stime il valore dell'economia nera, sommersa, è di circa 500 miliardi di euro. E' una cifra che corrisponde a circa un terzo del PIL italiano. Questa cifra va poi divisa tra il giro d'affari dell'economia mafiosa (tra i 120 e i 200 miliardi) e l'economia del nero di tipo normale (tra i 250 e i 300 miliardi). Dire che sono cifre spaventose è quasi un eufemismo. Ma come vengono utilizzati e da cosa derivano questi soldi? Innanzitutto essi derivano da attività illecite come lo spaccio di droga, la prostituzione, il pizzo oppure dall'evasione fiscale. Questi soldi vengono poi investiti per nuove attività illegali, riciclati all'estero o usati per la corruzione. La sola corruzione muove, secondo alcune stime, circa 150 miliardi all'anno. Per chi ancora non se ne fosse reso conto la corruzione causa principalmente due problemi: il maggior costo di beni e servizi e la minor qualità degli stessi. Spesso la corruzione si accompagna al conflitto di interessi, che causa all'incirca lo stesso tipo di danni.
Ora, lasciando perdere il conflitto di interessi che è una questione complessa ed irrisolta, guardiamo un attimo cosa si può fare per contrastare corruzione, evasione fiscale ed economia mafiosa. Ad esempio di potrebbero aumentare le pene (sopratutto le sanzioni pecuniarie) per chi commette questi reati. Ad esempio si potrebbero fare delle leggi per impedire questi reati o per facilitarne lo smascheramento. Si potrebbe dare in mano ai magistrati i mezzi non solo per individuare questo tipo di reati, ma anche quelli per giungere a sentenza. Si potrebbe, anzi, si dovrebbe, limitare il potere intimidatorio dei potenti che spesso se la cavano.
La grandezza delle cifre e la pochezza dell'indignazione di fronte all'azione di governo che va in palese contrasto coi principi predentemente elencati mi fa supporre che vi sia molta gente interessata a evitare pericolose indagini e a perpetuare una situazione di illegalità che, evidentemente, a qualcuno giova assai.
Coloro che si fanno portabandiera di questa azione illegalitaria si difendono dietro lo scudo del liberalismo e del liberismo. Per quanto riguarda il neo-liberismo reaganiano e della scuola di Chicago non ho dubbi che esso approva pienamente l'elusione di ogni regola e di ogni principio in nome del profitto, legale o illegale che sia. E in questa ottica è chiaro ed evidente che i controlli, le intercettazioni, i processi sono visti come il demonio.
Ma se si parla di liberalismo allora ho i miei dubbi che questa situazione di illegalità perpetua sia l'ideale. Anzi, mi pare che anche nel liberalismo la parola legalità sia una parola importante, un valore fondante. Forse perchè i liberali, al contrario dei reaganiani, sanno che la legge e la legalità non sono un freno per la libertà, bensì una garanzia a difesa dei sopprusi e della privazione di libertà.
I berlusconisti (ma non solo) hanno un odio profondo nei confronti dei magistrati, sopratutto quelli inquirenti, i quali vengono accusati di ogni nefandezza possibile.
Secondo loro i magistrati attuano metodi da regime con lo scopo di controllare le nostre vite, uccidere la nostra privacy e, ultimo ma non ultimo, sovvertire l'ordine democratico voluto dalla gente (termine alquanto oscuro e triste) accusando di ogni infamia il capo del governo e i suoi uomini. Siccome la maggior parte di queste infamie (secondo loro) senza alcuna prova deriva dalle intercettazioni l'unica cosa da fare per ristabilire la privacy è abolire le intercettazioni. Per indorare la pillola e per convincere anche i più dubbiosi il governo non ha fatto altro che ripetere per mesi che in Italia si fanno moltissime intercettazioni, che costano un occhio della testa, che invadono la vita privata, che non risolvono nulla.
Io non voglio tornare per l'ennesima volta a trattare i soliti argomenti, triti e ritriti. Sia su questo blog che su tanti altri è facile ricercare dei post in cui si smontano con imbarazzante facilità tutte queste menzogne.
Come spesso accade in Italia, però, la verità e la realtà devono fare i conti con le opinioni e con gli interessi.
Secondo alcune stime il valore dell'economia nera, sommersa, è di circa 500 miliardi di euro. E' una cifra che corrisponde a circa un terzo del PIL italiano. Questa cifra va poi divisa tra il giro d'affari dell'economia mafiosa (tra i 120 e i 200 miliardi) e l'economia del nero di tipo normale (tra i 250 e i 300 miliardi). Dire che sono cifre spaventose è quasi un eufemismo. Ma come vengono utilizzati e da cosa derivano questi soldi? Innanzitutto essi derivano da attività illecite come lo spaccio di droga, la prostituzione, il pizzo oppure dall'evasione fiscale. Questi soldi vengono poi investiti per nuove attività illegali, riciclati all'estero o usati per la corruzione. La sola corruzione muove, secondo alcune stime, circa 150 miliardi all'anno. Per chi ancora non se ne fosse reso conto la corruzione causa principalmente due problemi: il maggior costo di beni e servizi e la minor qualità degli stessi. Spesso la corruzione si accompagna al conflitto di interessi, che causa all'incirca lo stesso tipo di danni.
Ora, lasciando perdere il conflitto di interessi che è una questione complessa ed irrisolta, guardiamo un attimo cosa si può fare per contrastare corruzione, evasione fiscale ed economia mafiosa. Ad esempio di potrebbero aumentare le pene (sopratutto le sanzioni pecuniarie) per chi commette questi reati. Ad esempio si potrebbero fare delle leggi per impedire questi reati o per facilitarne lo smascheramento. Si potrebbe dare in mano ai magistrati i mezzi non solo per individuare questo tipo di reati, ma anche quelli per giungere a sentenza. Si potrebbe, anzi, si dovrebbe, limitare il potere intimidatorio dei potenti che spesso se la cavano.
La grandezza delle cifre e la pochezza dell'indignazione di fronte all'azione di governo che va in palese contrasto coi principi predentemente elencati mi fa supporre che vi sia molta gente interessata a evitare pericolose indagini e a perpetuare una situazione di illegalità che, evidentemente, a qualcuno giova assai.
Coloro che si fanno portabandiera di questa azione illegalitaria si difendono dietro lo scudo del liberalismo e del liberismo. Per quanto riguarda il neo-liberismo reaganiano e della scuola di Chicago non ho dubbi che esso approva pienamente l'elusione di ogni regola e di ogni principio in nome del profitto, legale o illegale che sia. E in questa ottica è chiaro ed evidente che i controlli, le intercettazioni, i processi sono visti come il demonio.
Ma se si parla di liberalismo allora ho i miei dubbi che questa situazione di illegalità perpetua sia l'ideale. Anzi, mi pare che anche nel liberalismo la parola legalità sia una parola importante, un valore fondante. Forse perchè i liberali, al contrario dei reaganiani, sanno che la legge e la legalità non sono un freno per la libertà, bensì una garanzia a difesa dei sopprusi e della privazione di libertà.
giovedì 30 luglio 2009
Telepredicatori e radiomistificatori
Il signor Cruciani, questa sera, nel suo programma La Zanzara, ha deciso, per l'ennesima volta, di attaccare Travaglio e le sue ricostruzioni riguardanti le stragi del '92-'93.
La tesi del dott. Cruciani è molto semplice: siccome quelle tesi non sono accreditate dai bollettini stampa del governo, sono chiaramente ed evidentemente false. Il fatto che proprio alla vigilia della strage di via d'Amelio Publitalia abbia iniziato i propri corsi di politica per manager, proprio nei giorni in cui Totò Riina accellerava l'organizzazione dell'attentato, a causa di qualche assicurazione avuta in merito alla futura trattativa, il fatto che Dell'Utri fosse in contatto con boss del calibro di Antonino Cinà, il fatto che poi lo stesso Provenzano abbia scritto delle lettere a Berlusconi (le cui richieste, causualmente, sono state esaudite), il fatto che i boss degli anni '90 parlassero di Berlusconi come di un uomo che avrebbe favorito Cosa nostra, forse non dice nulla al dott. Cruciani.
Evidentemente il dott. Cruciani non solo ignora tutti gli aspetti riguardanti la strage di via d'Amelio che esulino dalla retorica, evidentemente ignora le vicende del dott. Tescaroli quando lavorava a Caltanissetta. Evidentemente il signor Cruciani è uno dei soliti servi del potere, pronti a difendere l'indifendibile (come quel ponte, che secondo lui s'ha da fare).
Il dott. Cruciani rappresenta bene dunque quella parte di italiani convinti che nessun colletto bianco si sporcherebbe le mani con criminali come Riina. Dicevano lo stesso di Andreotti e Bontate, invece così non fu. Ma basterebbe leggere la storia d'Italia un pò più approfonditamente per capire che nessuna versione ufficiale sta in piedi. Come risponderebbe Cruciani a tutto ciò? Tutte fantasie, tutte fandonie. E' abile il giornalistucolo a criticare Travaglio perchè fa quel tipo di associazioni, ma è andato a leggersi i vari libri che parlano di questo? Prima di dire che una teoria è campata in aria sarebbe bene sapere su quali prove si basa. O su quali indizi perlomeno.
Anche Montanelli non credeva nel coinvolgimento di Berlusconi in quegli avvenimenti, ma ebbe per lo meno il buon cuore e l'onestà di dire che non si era mai informato in merito. Anche se penso la sapesse più lunga di quel che voleva far credere.
Cruciani invece la sa molto corta, al contrario di ciò che vuole far credere.
Nessuno dice che Berlusconi volle la morte di Borsellino, ma non si può negare che egli fu avvantaggiato da tale morte, così come dai successivi attentati. Non si può negare che quella di via d'Amelio fu una strage di Stato e non di mafia. Nessuno sano di mente ed onesto può negare tutto ciò.
Io penso sia ora di finirlo con questo buonismo, con questi benpensati asserviti al potere e privi di senso critico. Cruciani è bravo, finge di essere pungente e diretto, però lo è solo con le minoranze, con i suoi ascoltatori, mai che lo sia con i poteri forti, con i politici, con i capi di governi. Quanto ha da imparare dai veri artisti della polemica.
Cruciani nega ogni volta che può il fatto che vi sia un regime in Italia, adducendo al fatto che ognuno può dire la propria opinione. Già, peccato che opinioni diverse hanno il diritto di essere dette, ma non di essere ascoltate. Peccato che la verità e la realtà siano sempre a senso unico, peccato che io credo più a Freedom House che non a un cerchiobottista come lui.
Peccato che, nonostante le rivelazioni di questi giorni vi siano ancora giornalisti come Cruciani pronti a nascondere la polvere sotto il tappeto per proteggere i propri padroni (che magari nemmeno sanno di essere suoi padroni).
Dunque, armiamoci di buona volontà e brindiamo alla versione ufficiale, che come sempre è quella a cui non credere. E se Cruciani vi dice che non è così rallegratevi: siete dalla parte della ragione (o se non altro dalla parte di chi ricerca la verità).
La tesi del dott. Cruciani è molto semplice: siccome quelle tesi non sono accreditate dai bollettini stampa del governo, sono chiaramente ed evidentemente false. Il fatto che proprio alla vigilia della strage di via d'Amelio Publitalia abbia iniziato i propri corsi di politica per manager, proprio nei giorni in cui Totò Riina accellerava l'organizzazione dell'attentato, a causa di qualche assicurazione avuta in merito alla futura trattativa, il fatto che Dell'Utri fosse in contatto con boss del calibro di Antonino Cinà, il fatto che poi lo stesso Provenzano abbia scritto delle lettere a Berlusconi (le cui richieste, causualmente, sono state esaudite), il fatto che i boss degli anni '90 parlassero di Berlusconi come di un uomo che avrebbe favorito Cosa nostra, forse non dice nulla al dott. Cruciani.
Evidentemente il dott. Cruciani non solo ignora tutti gli aspetti riguardanti la strage di via d'Amelio che esulino dalla retorica, evidentemente ignora le vicende del dott. Tescaroli quando lavorava a Caltanissetta. Evidentemente il signor Cruciani è uno dei soliti servi del potere, pronti a difendere l'indifendibile (come quel ponte, che secondo lui s'ha da fare).
Il dott. Cruciani rappresenta bene dunque quella parte di italiani convinti che nessun colletto bianco si sporcherebbe le mani con criminali come Riina. Dicevano lo stesso di Andreotti e Bontate, invece così non fu. Ma basterebbe leggere la storia d'Italia un pò più approfonditamente per capire che nessuna versione ufficiale sta in piedi. Come risponderebbe Cruciani a tutto ciò? Tutte fantasie, tutte fandonie. E' abile il giornalistucolo a criticare Travaglio perchè fa quel tipo di associazioni, ma è andato a leggersi i vari libri che parlano di questo? Prima di dire che una teoria è campata in aria sarebbe bene sapere su quali prove si basa. O su quali indizi perlomeno.
Anche Montanelli non credeva nel coinvolgimento di Berlusconi in quegli avvenimenti, ma ebbe per lo meno il buon cuore e l'onestà di dire che non si era mai informato in merito. Anche se penso la sapesse più lunga di quel che voleva far credere.
Cruciani invece la sa molto corta, al contrario di ciò che vuole far credere.
Nessuno dice che Berlusconi volle la morte di Borsellino, ma non si può negare che egli fu avvantaggiato da tale morte, così come dai successivi attentati. Non si può negare che quella di via d'Amelio fu una strage di Stato e non di mafia. Nessuno sano di mente ed onesto può negare tutto ciò.
Io penso sia ora di finirlo con questo buonismo, con questi benpensati asserviti al potere e privi di senso critico. Cruciani è bravo, finge di essere pungente e diretto, però lo è solo con le minoranze, con i suoi ascoltatori, mai che lo sia con i poteri forti, con i politici, con i capi di governi. Quanto ha da imparare dai veri artisti della polemica.
Cruciani nega ogni volta che può il fatto che vi sia un regime in Italia, adducendo al fatto che ognuno può dire la propria opinione. Già, peccato che opinioni diverse hanno il diritto di essere dette, ma non di essere ascoltate. Peccato che la verità e la realtà siano sempre a senso unico, peccato che io credo più a Freedom House che non a un cerchiobottista come lui.
Peccato che, nonostante le rivelazioni di questi giorni vi siano ancora giornalisti come Cruciani pronti a nascondere la polvere sotto il tappeto per proteggere i propri padroni (che magari nemmeno sanno di essere suoi padroni).
Dunque, armiamoci di buona volontà e brindiamo alla versione ufficiale, che come sempre è quella a cui non credere. E se Cruciani vi dice che non è così rallegratevi: siete dalla parte della ragione (o se non altro dalla parte di chi ricerca la verità).
Un profilo di storia critica del socialismo italiano e la proposta liberalsocialista
11 setttembre 2006.
La storia del socialismo italiano, vista nella lunga durata bisecolare, si presenta oggi come una matassa ingarbugliata, di cui è arduo, quasi impossibile trovare il bandolo.
Gli uomini e le donne di sinistra liberalsocialista devono fare un ennesimo tentativo, mettendoci tutta la serietà possibile, tutta la più coraggiosa autocritica possibile, tutta l'umiltà possibile, ma tutto l'orgoglio doveroso di un ideale nobile, il socialismo liberale e democratico, che ha dato tanto nella storia italiana, europea, mondiale per l'emancipazione degli uomini e delle donne, in particolare dei più deboli, dei più umili.
Secondo noi le cause delle crisi, delle divisioni, delle cadute, delle sconfitte, dei fallimenti, dei tradimenti, della fine storica di tante strutture partitiche socialiste, sono state l'individualismo presuntuoso e distruttore, il professionismo burocratico-politico con l'egemonia degli apparati, gli sbandamenti delle collocazioni e delle alleanze politiche. Quelle cause mescolate insieme hanno portato ad una scissione tra etica e politica, in nome di un malinteso realismo, e ad un rapporto confuso, e spesso masochisticamente e tragicamente conflittuale, nei confronti dell'istanza liberale, del valore della libertà, frutto del mondo moderno, dell'Umanesimo, della Rivoluzione Scientifica, delle Rivoluzioni politiche in Inghilterra e negli Stati Uniti, della Rivoluzione francese coi suoi principi immortali, che sono stati, sono e dovranno essere sempre i nostri, in cui sono collocate le nostre radici: "Libertà - Eguaglianza - Fraternità", testimoniati tra i primi in Italia nel 1799 dai Martiri della Repubblica Napoletana (tra i quali Eleonora Pimentel Fonseca, Domenico Cirillo, Mario Pagano, Vincenzio Russo, il vescovo Michele Natale).
Fino alla svolta marxista nella storia del socialismo italiano, che ha la sua data nel Congresso operaio e socialista del 1892, quando si verifica la prima scissione marxista (e non la nascita del socialismo italiano), il panorama ideale ed organizzativo era vario e plurale.
Se si prende come data di nascita del socialismo italiano il 1869, quando viene aperta a Napoli la prima sezione della Prima Internazionale, fondata a Londra nel 1864, molte erano le linee ideali e organizzative socialiste e tutte conciliate profondamente con le istanze liberali e libertarie del mondo moderno: il socialismo liberaldemocratico, il socialismo libertario, il comunismo libertario, il socialismo operaista, il socialismo sperimentale, in collaborazione/intreccio con le forze liberaldemocratiche, sia quelle intransigentemente repubblicane e antiparlamentari, legate al profeta del Risorgimento Giuseppe Mazzini, sia quelle più realistiche e mediatrici, legate a Giuseppe Garibaldi, l'eroe dei Due Mondi, riunite in Parlamento e nel paese nella Sinistra Estrema Democratica Radicale, che aveva le sue personalità più importanti, dopo Garibaldi, in Agostino Bertani e Felice Cavallotti.
I primi deputati sostanzialmente socialisti, prima di Andrea Costa, furono dopo l'Unità Giuseppe Fanelli di Napoli e Saverio Friscia di Sciacca (Agrigento). Giuseppe Fanelli (collaboratore del martire napoletano Carlo Pisacane, morto nel Cilento nel 1857, uno dei primi socialisti liberali italiani) partecipò con Garibaldi nel 1860 all'impresa dei Mille, fu anche uno degli apostoli del socialismo liberale e libertario in Spagna, che deve proprio a queste origini liberali e libertarie la sua difesa dal marxismo, che non a caso non ha mai attecchito in Spagna, come dimostrano le vicende storiche di quel paese, tra cui la gloriosa rivoluzione del 1936-1939 e l'ispirazione della sua tradizione socialista fino ad oggi.
Fanelli e Friscia fondarono a Napoli nel 1867 l'associazione democratico-sociale, con relativo periodico, "Libertà e Giustizia", dal programma sostanzialmente socialista liberale e democratico, e che appoggiò, tra le altre iniziative, la candidatura di Cattaneo a deputato.
Se il realismo, anche di origine positivista, quindi non solo marxista, rese l'azione politica turatiana concreta e vincente a livello amministrativo - sindacale, essa creò una tradizione di dogmatismo, pur raffinato (es. quello di Rodolfo Mondolfo), e di diffuso professionismo politico, che è stata la causa non secondaria delle tante crisi del socialismo italiano.
Nessuno può e dovrà dimenticare la tradizione socialista riformista italiana, anche nella sua variante espressamente socialdemocratica, da Turati e Matteotti a Pertini, Nenni e Saragat, nelle sue pagine più nobili, ed il nostro tentativo ne riconosce espressamente i valori, le esperienze, le testimonianze alte fino al martirio da essa incarnate.
Ma il dogmatismo marxista, specialmente nelle versioni massimaliste, e il professionismo burocratico-politico allontanarono dal socialismo uomini come Gaetano Salvemini, che pur vi aveva aderito. Egli definiva il marxismo una droga ideologica, che all'inizio ti dà un'ebbrezza, una forte emozione intellettuale, poi crea una dipendenza pericolosa e tragica, tra il dogmatico, il religioso, con rischi di settarismo e anche fanatismo, ed accusava il classismo operaista di Turati e del PSI, che implicava l'abbandono del Mezzogiorno contadino alle clientele spesso mafiose del giolittismo.
Ogni tentativo di rinnovare il socialismo marxista italiano, portato avanti da Francesco Saverio Merlino, Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, dal Movimento Liberalsocialista, dagli esponenti socialisti liberali del Partito d'Azione (1942-1947) prima e dopo la confluenza nel Partito Socialista, ha conosciuto ostracismi, condanne, emarginazioni, e questo è stato causa non secondaria della scomparsa ideologica ed organizzativa del PSI e del PSDI italiani, che fino ad età recentissima erano fermi al programma del 1892.
Il coraggioso tentativo fatto in età craxiana di liberarsi di quel condizionamento e rinnovarsi a tutto campo (famoso il saggio su Proudhon), con il contributo anche del gruppo di Mondoperaio, non è riuscito a svilupparsi, essendo il partito finito nel gorgo della corruzione, dello sbandamento della collocazione e delle collaborazioni politiche.
Ma le responsabilità maggiori, quasi assolute, della tragica, imbrogliata matassa della storia della sinistra italiana socialista sono da addossare alla tradizione marxista-leninista dal 1918 fino ad oggi.
La realizzazione di uno stato operaio socialcomunista autoritario, marxista-leninista, fondato sulla dittatura del proletariato, e la nascita della Terza Internazionale Comunista hanno prodotto degli effetti devastanti nella storia del socialismo italiano.
I giovani socialisti italiani, Gramsci, Togliatti, Terracini, Bordiga e Bombacci (finito fascista e con Mussolini a Piazzale Loreto), abbagliati dalla Rivoluzione d'Ottobre (in realtà colpo di stato militare leninista-bolscevico, con l'appoggio degli anarchici e dei socialisti rivoluzionari, contro la Repubblica liberaldemocratica, nata nella grande Rivoluzione di Febbraio 1917, che aveva abbattuto la monarchia assoluta zarista, e che era guidata dal socialdemocratico Kerenskij), portarono alla nascita non di una delle tante formazioni prodotte da altre scissioni, quali si erano verificate o si verificheranno (es. quella di Bissolati-Bonomi del 1912, che portò alla nascita del Partito Socialista Riformista Italiano, così ricco di spunti moderni, per far uscire il partito da posizioni massimaliste), ma a quella del Partito Comunista.
La scissione comunista marxista-leninista terzinternazionalista e la nascita del Partito Comunista Italiana (PCI) al Congresso Socialista di Livorno del 1921 furono l'inserzione nel corpo del socialismo italiano, di tutta la sinistra italiana, del panorama politico italiano, di una forza settaria, millenarista, in scontro frontale contro tutto e tutti, ma con una forza d'urto fortissima, sia per la sua presa ideologica quasi religiosa, sia anche per l'appoggio e il finanziamento (fino a qualche anno fa) di una potenza straniera di peso planetario, l'URSS (Unione delle Repubbliche "Socialiste" Sovietiche), stato esterno al nostro paese.
Tra i paradossali effetti di questa inserzione nel corpo della sinistra italiana ci fu la seconda scissione del 1922 al Congresso di Roma, quando furono espulsi dal Partito Socialista massimalista di Menotti Serrati e Nenni Turati e Matteotti, che fondarono il Partito Socialista Unitario (PSU), il primo partito sostanzialmente liberalsocialista nella storia italiana, che si presentò alle drammatiche elezioni del 1924 (con Mussolini al potere, le squadracce fasciste nelle piazze, le forze dell'ordine e i prefetti compiacenti, i liberali moderati alleati coi fascisti) con il simbolo storico del sole nascente e la grande novità dell'abbinamento delle parole in esso contenute "Libertà" "Socialismo".
La ritrovata simbiosi tra socialismo e libertà non fu più ripresa successivamente, data l'egemonia che permase del socialismo marxista. Solo Carlo Rosselli (che aveva aderito al PSU e fu il figlio spirituale di Turati, che aiutò, con Pertini e Parri, a fuggire in Corsica nel 1926, conoscendo poi per questo carcere e confino) in Francia, dopo la leggendaria evasione dall'isola di Lipari con Emilio Lussu in motoscafo nel 1929, col lavoro organizzativo del Movimento 'Giustizia e Libertà' e col lavoro teorico col suo libro fondamentale 'Socialismo Liberale' del 1930, il Movimento Liberalsocialista di Guido Calogero ed Aldo Capitini dal 1937 in poi, le componenti liberalsocialiste del Partito d'Azione citato, l'esperienza del rinnovato Partito Socialista Unitario del 1949-1950, lavoro legato ai nomi di Codignola, Silone, Vittorelli, Garosci, anche Ciampi (fondatore della sezione del Partito d'Azione a Livorno e collaboratore nel 1946 della rivista 'Liberalsocialismo' diretta dal suo maestro, Calogero), cercarono disperatamente, senza riuscirvi finora, a raddrizzare il socialismo verso il nesso con l'istanza liberale.
I paesi che avevano avuto partiti socialisti di forte impronta marxista hanno subito gli effetti più drammatici, a differenza di quelli nei quali l'influenza marxista è stata minore (es. Inghilterra e Spagna).
Così in Italia è nata una guerra politica tra comunisti e socialisti, i cui effetti sono ancora presenti nel fondo della vita politica italiani, coi post-comunisti dei Democratici di Sinistra ad esempio, che, pur aderendo all'Internazionale Socialista e pur membri del Partito Socialista Europeo, non hanno avuto e non hanno il coraggio di presentarsi in Italia come "socialisti", e mettere all'ordine del giorno ad es. la nascita di un unitario partito socialista liberaldemocratico, annegando la loro storia complessa, anche tragica, e la loro mancanza di coraggio e di chiarezza in contenitori generici, tipo 'democratici', 'riformisti', 'ulivisti'. Gli espliciti 'comunisti' continuano ad avere il radicale riflesso antisocialista, sempre di origine marxista e leninista, in Italia, in Europa, nel Mondo.
La storia del comunismo italiano e russo richiede comunque un giudizio articolato: le testimonianze personali dei carcerati, dei confinati (es. Gramsci, Terracini, Giorgio Amendola, figlio del martire liberaldemocratico Giovanni), dei torturati, degli assassinati, dei partigiani delle formazioni "Garibaldi" (pur machiavellico recupero della tradizione nazionale risorgimentale, così ferocemente criticata da Marx e marxisti vari come 'borghese'), per abbattere la dittatura fascista e restituire all'Italia la democrazia, il voto comunista per l'avvento della Repubblica del 1946, il contributo per la stesura della Costituzione, pur nel tradimento dei principi liberali col voto positivo sull'art. 7 con la Democrazia Cristiana, che ha permesso l'inserzione dei fascisti Patti Lateranensi, del Concordato, con la Chiesa Cattolica nel cuore della nostra carta costituzionale, il contributo per portare alla partecipazione politica milioni di contadini e di operai nel cinquantennio repubblicano, il buongoverno in migliaia di situazioni locali, la promozione cooperativistica e sindacale per l'emancipazione dalla miseria e dalla subalternità storica delle classi lavoratrici, i venti milioni di morti tra militari e civili che l'Unione Sovietica di Stalin machiavellico, oltre che tiranno, alleato con gli Stati Uniti e con l'Inghilterra (dopo essere stato alleato di Hitler e Mussolini dal 1939 agli inizi del 1941) dalla metà del 1941 al 1945, per liberare l'Europa dai mostri disumani, demoniaci del nazismo e del fascismo, meritano rispetto. Le truppe che liberarono Auschwitz erano sovietiche. Questo spiega anche la collaborazione durante la Resistenza e nei primi governi del dopoguerra fino al 1947 col Partito Comunista Italiano della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista Italiano, del Partito d'Azione, dello stesso Partito Liberale.
Ma effetti perversi ha prodotto la presenza di forti partiti comunisti nei sistemi politici pluralisti e democratici, drammatizzando ogni elezione non in termini di serena scelta tra classi dirigenti nelle loro virtù e nei loro limiti di governo, ma di quasi - referendum ogni volta tra sistema liberaldemocratico e sistema monopartitico-totalitario, incancrenendo sempre di più, in una spirale perversa, fino alla quasi impunità, il governo cattolico, ad es. in Italia, con le appendici subalterne di liberali conservatori e repubblicani sempre più nel tempo coinvolti dalla corruzione, non essendovi altro sbocco democratico, dato il congelamento comunista di milioni di voti.
Gli effetti nella storia della sinistra italiana dei comportamenti politici del PCI sono stati negativi nel vedere i compagni diversi come sostanziali nemici da combattere in modo subdolo e machiavellico, senza pietà e spirito di autocritica, fino alla distruzione morale, psicologica, a volte peggiore di quella fisica (così coraggiosamente descritta ad es. dal grande scrittore Ignazio Silone, uno dei fondatori del PCI, poi espulso nel 1930), da stalinisti ed eredi dello stalinismo, di quello Stalin, che viveva nell'ossessione non soltanto del capitalismo, ma dei compagni del suo stesso partito da distruggere fisicamente, come Bucharin o peggio Trotskij.
In questo contesto il Partito Socialista e Nenni si allearono con Togliatti e con lo stalinismo, ponendosi fuori anche dell'Internazionale Socialista fino al 1956, quando coi fatti d'Ungheria, coi comunisti stalinisti che sparavano sugli operai che chiedevano libertà e democrazia, oltre che più umane condizioni di lavoro, si aprirono gli occhi anche ai ciechi. Si giunse al punto di ricevere nel PSI finanziamenti dall'Est sovietico.
Tragici effetti di quella scelta sciagurata stalinista del PSI furono la giusta scissione socialdemocratica di Saragat del 1947, l'emarginazione delle correnti e figure autonomiste e liberalsocialiste di Silone, Garosci, Codignola, del Partito Socialista Unitario citato, di Unità Popolare, al tempo della lotta contro la legge-truffa del 1953, la fine dell'unità sindacale con la nascita prima della CISL e poi della UIL.
Ma non bisogna dimenticare, per onestà storica doverosa, che il PSI di Nenni e Pertini, insieme alla componente socialdemocratica, ha saputo dal 1956 recuperare una sua autonomia e scrivere, nella collaborazione con le più serie forze progressiste italiane (dai cattolici democratici ai repubblicani, ai liberali, ai radicali) le più alte pagine nella storia repubblicana, dai diritti civili ai diritti sociali (ad es. la scuola materna statale, la scuola media unica, il divorzio, l'aborto, lo statuto dei lavoratori, il buongoverno in tantissimi enti locali, l'impegno sindacale diviso tra CGIL e UIL).
Ma l'effetto più nefasto della tradizione marxista nella storia sia riformista (con l'eccezione del PSU di Turati-Matteotti) e massimalista, che comunista del socialismo italiano è stata la rescissione del legame/osmosi del socialismo con i valori e le istanze liberali.
Il socialismo senza la libertà è la peggiore forma di tirannia. Lo avevano profetizzato già i socialisti liberali e libertari tra Ottocento e i primi del Novecento. La profezia si è avverata al di là dell'immaginazione con le tragedie disumane e i morti provocati a milioni, a milioni, a milioni.
Ancora oggi stati sedicenti 'socialisti' in Cina, a Cuba, nel Vietnam, in Corea del Nord esemplificano tragicamente gli effetti della tragica scissione tra l'istanza socialista e l'istanza liberale. Per non richiamare paradossalmente Hitler e il suo 'nazionalsocialismo', anche Saddam Hussein si chiamava 'socialista'.
Il socialismo ha senso e futuro, può riprendere il suo posto e il suo cammino in campo politico e nel cuore della gente solo se è liberale, se è 'liberalsocialista', se sa tenere insieme, specialmente nell'Italia delle confusioni e degli sbandamenti, congiunte, nello spirito e nella lettera, giustizia sociale e libertà, socialismo e libertà.
Ecco perché è preliminare, fondamentale che LETTERALMENTE i termini 'socialismo', 'socialista' non possono stare da soli, per i motivi storici e logici sopra ampiamente argomentati, e vanno integrati con quello 'liberale' e le espressioni 'liberalsocialismo', 'liberalsocialista' stanno proprio ad indicare proprio questo nesso e la consapevolezza definitiva dell'indissolubilità tra l'istanza socialiste e quella liberale.
Tra i tanti effetti nefasti della confusa tradizione marxista italiana, nelle sue varie innumerevoli versioni, c'è stato quello della collocazione politica. Scissa l'istanza socialista da quella liberale, l'istanza etica da quella politica, in nome di un preteso socialismo ‘scientifico' contrapposto a pretesi socialismi 'utopistici', è divenuto il realismo machiavellico il metodo di fondo dell'agire politico, sono stati inevitabili quindi la spregiudicatezza, i funambolismi, i trasformismi, le acrobatiche posizioni e alleanze. Anticattolici e alleati coi cattolici, antisocialisti e alleati dei socialisti, anticomunisti ed alleati coi comunisti, antidemocratici ed alleati coi democratici. Comportamenti politici sconcertanti, guidati quasi sempre dall'ago della bussola del potere amministrativo, sindacale, parlamentare da impadronirsi o da spartire. Si è giunti finanche ad allearsi con la destra, con i post-fascisti, coi dichiarati fascisti, coi secessionisti.
Allo sbandamento ideologico ed organizzativo hanno contribuito anche l'egemone individualismo presuntuoso e distruttivo. Ambiziosi di carriera politica senza merito, esistenze mancate, gente senza arte né parte, gente che non ha mai lavorato e non aveva voglia di lavorare, incapaci di vivere anzitutto da sé, onestamente, si sono buttati negli apparati, governandoli per la loro sistemazione, per quella degli amici e clan, riducendo l'ideale socialista e la sua storia a parole scritte sui manifesti.
Questo è un abbozzo della nostra laica interpretazione della storia del socialismo italiano, discutibile, ma per noi preliminare punto di partenza, altrimenti si cadrà, secondo noi, in un ennesimo tentativo sterile.
Per noi è preliminare andare alle radici con coraggio, per vedere le cose come sono andate, con autocritica accettazione del tribunale della storia e delle sue obiettive sentenze.
Quando una struttura di partito muore, non è colpa di un solo uomo, spesso ridotto a ingiusto capro espiatorio, o di pochi, ma di comportamenti diffusi di sbandamento ideologico-politico e di costumi.
Un partito, una formazione politica vecchi o nuovi senza memoria e con un passato rimosso non hanno futuro.
Da dove ripartire dunque ?
Anzitutto dal coraggio della verità, dal coraggio di fare i conti fino in fondo con la propria storia, senza nascondere nulla di ciò che nel bene e nel male la propria tradizione ha commesso, accettando con umiltà e onestà le sentenze del tribunale della storia e ripartendo da esse, con la disponibilità e l'impegno a non cadere negli stessi errori e nelle stesse tragedie.
Come si è detto, dopo tante tragedie e tante confusioni, ancora permanenti, occorre
preliminarmente partire da una più chiara, precisa identità, dallo stesso nome. Non più solo 'socialista, ma 'liberalsocialista.
Poi forza dichiaratamente di 'sinistra', per impianto ideale e naturale posizione storica, con qualificazione necessaria, giacchè nel panorama politico nazionale e locale si sono visti e si vedono cosiddetti 'socialisti' collocati a destra o annebbiati in posizioni centriste.
Poi riferimento al nuovo, ineludibile orizzonte europeo, con il collegamento anzitutto con le tradizioni laburiste del mondo anglo-sassone, per le loro storie così profondamente e sostanzialmente liberalsocialiste, che possono quindi aiutare a precisare e consolidare una definitiva e solida posizione liberalsocialista.
La collocazione di una posizione di sinistra liberalsocialista è, non può non essere, pertanto, assolutamente autonoma dalle confusioni permanenti dell'Ulivo, dallo SDI, che si è annegato in esso, dalle posizioni dei Comunisti Italiani nell'Ulivo, dal Partito della Rifondazione Comunista, che sta abbandonando (vedi le elezioni Europee), la stessa non sostenibile denominazione 'comunista' per un un generico 'Partito della Sinistra Europea', esplicitazione a livello delle competizioni nazionali del gruppo nel quale sono collocati nel Parlamento Europeo i rappresentanti dei partiti comunisti europei, da quello italiano a quello francese a quello tedesco, a quello spagnolo, a quello austriaco, a quello ceco, a quello slovacco, a quello greco, a quello estone, ancora poco chiaro nella ispirazione di fondo, come dice la sua stessa denominazione, ancora incapace di fare i conti con la storia (e che conti le tradizioni comuniste europee devono ancora fare!), ma comunque in cammino, anche nella direzione del riferimento alla nonviolenza.
E' naturalmente in contrapposizione storico-ideale, democratica, ma non demagogica, alla Casa delle Libertà, alla Lega Nord, con le sue sciagurate tendenze secessioniste, che offendono le conquiste fondamentali del Risorgimento e dell'Antifascismo repubblicani liberaldemocratici, liberalsocialisti, con le sue argomentate ispirazioni anche federaliste, da Cattaneo al Partito Sardo d'Azione di Bellieni e Lussu del 1921, al Manifesto di Ventotene.
Gli uomini e le donne di sinistra liberalsocialista hanno l'ambizione di radicarsi a partire dalla gente, dai problemi concreti, specialmente dei più umili, dei più deboli socialmente, per dimostrare nei fatti, sperimentalmente, lo stile di governo di una sinistra liberalsocialista. Essi si alleeranno solo con quelle forze e con quegli uomini di sinistra-centro, che siano stati e siano di altrettanto rigore autocritico e lo dimostrino nei fatti, e non solo a parole.
Gli uomini e le donne di sinistra liberalsocialista non hanno fretta.
La fretta è cattiva consigliera.
Occorre, come diceva Salvemini, il maestro di concretezza e di rigore ideale socialista liberale, un lavoro di anni a pane e acqua su alcuni punti concreti fondamentali, che condizionano in modo negativo la vita della gente, del paese, battendoli e ribattendoli, articolandoli a livello locale soprattutto, per aprire spazi di liberazione reale nell'ansimante vita quotidiana della gente umile ed onesta ed evitare il declino, in cui la nostra cara Italia si sta incanalando.
Solo alle condizioni sopra indicate possiamo rialzare, a testa alta e con orgoglio, la bandiera antica e nobile del socialismo, che non può che essere, per chiarezza e verità, 'liberalsocialismo', con una formazione federale e federativa, rispettosa ed esaltatrice delle varietà regionali e locali, senza centralismi e burocrazia professionistica, che, nel nome e negli intenti, vuole essere erede e riattualizzare nel presente e per il futuro il meglio che ha espresso la complessa, complicata, a volte tragica, storia del socialismo italiano. Diretta democraticamente dai suoi promotori e responsabili legali, che si impegnano a non allontanarsi mai dalle sue linee ideali, politiche e programmatiche, liberamente accettate, a farlo vivere organizzativamente, ad uniformarsi alle sue deliberazioni.
PUNTI FONDAMENTALI DELL'ORIENTAMENTO POLITICO LIBERALSOCIALISTA
1. Le istituzioni repubblicane, liberali e democratiche vanno difese contro i fanatici di ogni colore, ogni giorno, vanno rispettate e fatte funzionare al massimo delle loro potenzialità nel riferimento alla Costituzione scritta, limitando, eliminando la costituzione materiale che si è stratificata nel tempo.
Le istituzioni liberali e democratiche non sono né borghesi, né proletarie, ma sono conquiste di civiltà, che riguardano tutti gli uomini, prima di ogni fede e distinzione politica. Come dice Carlo Rosselli esse sono "una sorta di patto di civiltà che gli uomini di tutte le fedi stringono fra loro per salvare nella lotta gli attributi della loro umanità. "
Senza la libertà e senza la democrazia c'è solo la tirannia.
Questa dura lezione, mai da dimenticare, è stata appresa ad esempio a duro prezzo dall'Italia sotto il fascismo, dalla Russia sotto lo zarismo e sotto il comunismo.
L'Italia repubblicana liberaldemocratica con il lavoro e il sacrificio quotidiano degli operai, dei contadini, degli artigiani, dei tecnici, degli intellettuali, dei servitori dello stato, degli operatori della scuola, degli imprenditori e commercianti onesti e seri, di diversi settori responsabili del mondo sindacale, politico, culturale, con il contributo di milioni di emigrati dal Sud al Nord e fuori d'Italia è diventata la settima potenza al mondo ed ha una ricchezza ed un peso politico, quali mai ha avuto nella storia.
Ma molte questioni importanti restano aperte: dalla disoccupazione giovanile, specialmente meridionale, alla criminalità organizzata, alla confusa immigrazione, fatto nuovo nella storia d'Italia, al disordine urbanistico ed ambientale, alla mancanza di una diffusa moralità pubblica e civile, alla crisi della scuola, alla diseducazione dei mezzi di comunicazione di massa, alla perdita di competività nel mondo vorticosamente globalizzato..
2. Per la nostra fede nella dignità di ogni uomo, di ogni donna, per far vivere, far amare poi concretamente il bene della libertà, non possiamo, non dobbiamo, non sappiamo accettare che lo stato di libertà si accompagni alla miseria, all'ignoranza, alla disoccupazione, alla prepotenza. Noi vogliamo incarnare una libertà sempre disperatamente mobilitata, che ogni giorno crea nuovi spazi di liberazione, una ‘incessante libertà creatrice e liberatrice', una libertà che rispetta il libero lavoro, la libera impresa e i suoi frutti, ma che sappia intaccare decisamente e senza violenza gratuita i privilegi, le ricchezze, le sopraffazioni, raddrizzando secolari ingiustizie.
3. Un fondamentale obiettivo, accanto alla difesa ed alla promozione delle libertà civili e politiche, è la libertà dal bisogno.
Chi ha fame o è senza lavoro non può godere e apprezzare nessuna libertà, non può essere cittadino democratico libero e responsabile.
Quindi il primo fronte della battaglia politica liberalsocialista è il diritto al lavoro, da garantire a tutti i cittadini, a tutte le cittadine, al compimento del 18° anno di età, usando tutti i mezzi a disposizione, elaborando tutti i tipi di leggi possibili per garantirlo, sottraendo ad ogni corporazione l'attuale monopolio dei concorsi e degli avviamenti al lavoro, pubblici e privati.
Si ripete: non si può essere cittadini liberi e democratici, se non si ha una autonomia economica.
Il diritto al lavoro è possibile: occorre solo un'energica volontà politica di garantirlo, imponendo i sacrifici giusti a tutti e colpendo chi lo ostacola.
E' uno scandalo che una democrazia repubblicana liberale e democratica abbia generazioni che vedono trascorrere gli anni e i decenni in attesa di un lavoro, costringendo giovani e meno giovani all'umiliazione dell'aiuto dei genitori, dei parenti, dell'assistenza privata o pubblica, alla clientela politica, sindacale, privata.
Si appoggerà anche ogni iniziativa di sperimentalismo economico-sociale libertario non capitalistico, come in uno degli orientamenti socialisti di fine Ottocento, che vada nella direzione di offrire alternative quotidiane di vita e di lavoro a chi è liberamente interessato, aggiungendo così ulteriori scelte ai cittadini maggiorenni.
Accanto al diritto al lavoro, si collocano altri punti fondamentali ricorrenti nella nostra tradizione.
4) Anzitutto la religione dei doveri, accanto alla giusta rivendicazione dei diritti (nessun dovere senza diritti, nessun diritto senza doveri), che dovrebbe essere diffusa e praticata specialmente in ambito sindacale, come avveniva agli inizi del movimento operaio e socialista, per non diventare delle corporazioni cieche o peggio strutture clientelari, con fenomeni di professionismo burocratico-professionistico paralleli a quelli dei partiti, di cui si è spesso l'altra faccia nascosta.
5. La laicità dello stato che garantisce la libertà di tutte le fedi, ma non è condizionato da alcuna. Eliminazione del riferimento ai fascisti Patti Lateranensi nell'art. 7 della Costituzione e degli aspetti illiberali nei rapporti tra Repubblica Italiana, Stato del Vaticano, Chiesa Cattolica.
6. Gli Stati Uniti d'Europa e la riforma dell'ONU, per renderlo in grado di governare veramente il destino della nostra cara, piccola Terra, unica nostra casa, così in pericolo di inquinamento e sviluppo irrazionali e pericolosi, di conflitti, di fanatismi spesso di origine religiosa, oltre che ideologica, di terrorismi.
7. L'economia del benessere, da accrescere nel rispetto dell'ambiente e dei diritti delle persone, perché nessuno giustamente vuole tornare alla vecchia miseria e povertà.
8. L'autogoverno locale, onde creare un costume di partecipazione democratica e di controllo del pubblico denaro a livello dei luoghi dove si vive con le proprie piccole storie e le identità culturali, economiche e sociali da difendere e da esaltare nei suoi aspetti positivi.
Ma i Comuni, le Province, le Città Metropolitane, le Regioni che l'attuale art. 114 della Costituzione, riscritto da recenti classi politiche nazionali sbandate o machiavelliche, ambiguamente mette sullo stesso piano dello Stato Liberale e Democratico (che invece dovrebbe contenerle e regolarle), devono rendere conto in modo stringente sul piano istituzionale della spesa pubblica, mentre oggi i controlli si sono allentati e la modifica Titolo V della Costituzione ha creato una confusione di ruoli e di poteri, col rischio di disgregare i delicati equilibri di uno stato liberale e democratico federale.
9. I problemi del Nord e in particolare del Mezzogiorno, mai da dimenticare, coi suoi problemi strutturali di modernizzazione, e soprattutto della criminalità, da combattere in modo radicale, altrimenti non c'è sviluppo e le imprese vanno ad investire altrove, anche fuori d'Italia, accrescendo così la disoccupazione meridionale, abbandonando il Sud all'assistenzialismo e alle clientele.
10. La lotta alle clientele, che rendono servi e non liberi cittadini, e contro la corruzione, sempre così diffusa in mille forme sottili, di affaristi, speculatori, parassiti, e la promozione di valori di legalità da praticare da parte degli organi dello stato e dei cittadini.
Gli 8.101 uffici tecnici, quanti sono i Comuni italiani, coi poteri sui piani regolatori, le opere pubbliche, gli appalti, i cimiteri, la raccolta dei rifiuti, l'acqua sono delicati centri di potere, strettamente collegati con il ceto dei dirigenti e funzionari locali, gli assessori, i sindaci, le classi dirigenti provinciali e regionali, che si riservano poteri di autorizzazioni e di erogazioni, e stendono tutti insieme e collegati una ragnatele possente di condizionamenti sui territori e sulle persone.
Su di essi va promossa una campagna nazionale di trasparenza e di controllo democratici, così come sugli altri uffici (es. quello degli affari generali, quelli finanziari, quelli sui servizi sociali, culturali), dove avvengono sprechi e si consolidano possenti catene clientelari, basi di appoggio poi di tanti partiti e di tante carriere professionistiche politiche a livello comunale, provinciale, regionale, nazionale, europeo.
11. Il superamento dell'estraneità tra la politica e la cultura, per portare gli uomini di scienza e delle professioni a dare il loro contributo, attraverso i partiti e la dialettica democratica, allo sviluppo economico e sociale del paese e dei governi a livello locale, nazionale, europeo.
12. La difesa della scuola pubblica, luogo di educazione civile, di dialogo e di rispetto tra gli alunni di tutte le fedi, per imparare a stare insieme e vivere il diritto/dovere della verità e della obiettività.
13. La rivoluzione sanitaria ed urbanistica, onde avere la garanzia, anzitutto in strutture pubbliche, fatte funzionare al massimo livello possibile, della fondamentale salute, di abitazioni e città a misura d'uomo, onde vivere la vita già così breve in modo dignitoso e felice, per quanto è possibile. Occorre un democratico regime dei suoli edificatori, che li sottragga all'ingorda e disordinata speculazione privata, che ha devastato il Belpaese e che è stata tollerata dal permissivismo e da assurdi condoni (offensivi dei cittadini onesti) delle forze politiche di ogni colore.
14. Il più ampio riconoscimento alla partecipazione politica, civile e democratiche delle donne, che sono la metà dell'umanità e senza il cui contributo nessun vero problema potrà mai essere risolto.
15. Contro i pericoli dei totalitarismi e i processi di massificazione, occorre potenziare in tutti gli uomini, specialmente nei lavoratori, sentimenti di dignità, di autonomia, di moralità, di cultura, di responsabilità.
Il potenziamento dell'individualità è la barriera più efficace contro le tragedie totalitarie, contro l'emergere di tendenze deresponsabilizzanti, gregarie, disumane. Dice Carlo Rosselli "I regimi di massa, i fascismi, si combattono ridando all'uomo, alla ragione, alla libertà il loro valore; creando in ciascun uomo, nel massimo numero di uomini, e per ora in una minoranza di intellettuali e di lavoratori, una coscienza forte della propria personalità ed autonomia. Rompere la massa e la vita di massa con nuclei pensanti ed agenti."
16. E' giusto rivendicare il rispetto degli aspetti nobili della propria storia e della propria identità linguistica e culturale, ma senza chiudersi in un pericoloso isolamento o in un orgoglio nazionale, che sarebbero la rovina per i popoli, come hanno dimostrato tragicamente gli ultimi secoli.
La tradizione repubblicana liberaldemocratica e liberalsocialista ha indicato, da Cattaneo a Carlo Rosselli, al Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi, Colorni, al Presidente della Repubblica Ciampi, come fondamentale via di salvezza gli Stati Uniti d'Europa.
Noi crediamo in questa prospettiva, abbiamo dato e diamo ogni giorno il nostro contributo, affinché l'Europa viva e si affermi sempre di più, non solo sul terreno monetario, dove ormai già si è costituita e vive in modo irreversibile, ma sul piano politico, giuridico, sociale, culturale, coinvolgendo sempre più i cittadini, le cittadine, i popoli, specialmente quelli dei 10 paesi che stanno per entrare a maggio 2004, portando a 25 i membri dell'Unione Europea.
Vogliamo un Parlamento europeo investito di maggiori responsabilità legislative e con un governo che, pienamente rappresentativo, decida e controlli per tutti i membri almeno la politica estera, la difesa militare e la sicurezza interna.
17. L'umanità attende ancora l'era della fraternità dei popoli, il terzo grande immortale principio della Rivoluzione Francese del 1789. Occorre costruirla con fede e pazienza, essendo un'opera gigantesca, che richiederà il contributo di generazioni.
18. Alla luce delle argomentazioni sopra addotte, occorrono nuovi orizzonti di dignità e di educazione civile, di liberazione culturale e sociale, di partecipazione democratica, di nuovi governi e di nuove classi dirigenti, non provinciali, perché il mondo si è fatto sempre più interconnesso, complesso e anche tragico, specialmente dopo gli attentati dell'integralismo islamico dell'11 settembre 2001, onde evitare di tornare indietro in termini di benessere e civiltà, come potrebbe avvenire ed è avvenuto nella storia umana.
Il progresso civile, economico, culturale non è garantito, dipende dalla volontà e dalla responsabilità delle generazioni, degli uomini e delle donne tutte, coinvolgendo soprattutto i giovani nella consapevolezza delle sfide difficili e complesse che li attendono.
NICOLA TERRACCIANO
La storia del socialismo italiano, vista nella lunga durata bisecolare, si presenta oggi come una matassa ingarbugliata, di cui è arduo, quasi impossibile trovare il bandolo.
Gli uomini e le donne di sinistra liberalsocialista devono fare un ennesimo tentativo, mettendoci tutta la serietà possibile, tutta la più coraggiosa autocritica possibile, tutta l'umiltà possibile, ma tutto l'orgoglio doveroso di un ideale nobile, il socialismo liberale e democratico, che ha dato tanto nella storia italiana, europea, mondiale per l'emancipazione degli uomini e delle donne, in particolare dei più deboli, dei più umili.
Secondo noi le cause delle crisi, delle divisioni, delle cadute, delle sconfitte, dei fallimenti, dei tradimenti, della fine storica di tante strutture partitiche socialiste, sono state l'individualismo presuntuoso e distruttore, il professionismo burocratico-politico con l'egemonia degli apparati, gli sbandamenti delle collocazioni e delle alleanze politiche. Quelle cause mescolate insieme hanno portato ad una scissione tra etica e politica, in nome di un malinteso realismo, e ad un rapporto confuso, e spesso masochisticamente e tragicamente conflittuale, nei confronti dell'istanza liberale, del valore della libertà, frutto del mondo moderno, dell'Umanesimo, della Rivoluzione Scientifica, delle Rivoluzioni politiche in Inghilterra e negli Stati Uniti, della Rivoluzione francese coi suoi principi immortali, che sono stati, sono e dovranno essere sempre i nostri, in cui sono collocate le nostre radici: "Libertà - Eguaglianza - Fraternità", testimoniati tra i primi in Italia nel 1799 dai Martiri della Repubblica Napoletana (tra i quali Eleonora Pimentel Fonseca, Domenico Cirillo, Mario Pagano, Vincenzio Russo, il vescovo Michele Natale).
Fino alla svolta marxista nella storia del socialismo italiano, che ha la sua data nel Congresso operaio e socialista del 1892, quando si verifica la prima scissione marxista (e non la nascita del socialismo italiano), il panorama ideale ed organizzativo era vario e plurale.
Se si prende come data di nascita del socialismo italiano il 1869, quando viene aperta a Napoli la prima sezione della Prima Internazionale, fondata a Londra nel 1864, molte erano le linee ideali e organizzative socialiste e tutte conciliate profondamente con le istanze liberali e libertarie del mondo moderno: il socialismo liberaldemocratico, il socialismo libertario, il comunismo libertario, il socialismo operaista, il socialismo sperimentale, in collaborazione/intreccio con le forze liberaldemocratiche, sia quelle intransigentemente repubblicane e antiparlamentari, legate al profeta del Risorgimento Giuseppe Mazzini, sia quelle più realistiche e mediatrici, legate a Giuseppe Garibaldi, l'eroe dei Due Mondi, riunite in Parlamento e nel paese nella Sinistra Estrema Democratica Radicale, che aveva le sue personalità più importanti, dopo Garibaldi, in Agostino Bertani e Felice Cavallotti.
I primi deputati sostanzialmente socialisti, prima di Andrea Costa, furono dopo l'Unità Giuseppe Fanelli di Napoli e Saverio Friscia di Sciacca (Agrigento). Giuseppe Fanelli (collaboratore del martire napoletano Carlo Pisacane, morto nel Cilento nel 1857, uno dei primi socialisti liberali italiani) partecipò con Garibaldi nel 1860 all'impresa dei Mille, fu anche uno degli apostoli del socialismo liberale e libertario in Spagna, che deve proprio a queste origini liberali e libertarie la sua difesa dal marxismo, che non a caso non ha mai attecchito in Spagna, come dimostrano le vicende storiche di quel paese, tra cui la gloriosa rivoluzione del 1936-1939 e l'ispirazione della sua tradizione socialista fino ad oggi.
Fanelli e Friscia fondarono a Napoli nel 1867 l'associazione democratico-sociale, con relativo periodico, "Libertà e Giustizia", dal programma sostanzialmente socialista liberale e democratico, e che appoggiò, tra le altre iniziative, la candidatura di Cattaneo a deputato.
Se il realismo, anche di origine positivista, quindi non solo marxista, rese l'azione politica turatiana concreta e vincente a livello amministrativo - sindacale, essa creò una tradizione di dogmatismo, pur raffinato (es. quello di Rodolfo Mondolfo), e di diffuso professionismo politico, che è stata la causa non secondaria delle tante crisi del socialismo italiano.
Nessuno può e dovrà dimenticare la tradizione socialista riformista italiana, anche nella sua variante espressamente socialdemocratica, da Turati e Matteotti a Pertini, Nenni e Saragat, nelle sue pagine più nobili, ed il nostro tentativo ne riconosce espressamente i valori, le esperienze, le testimonianze alte fino al martirio da essa incarnate.
Ma il dogmatismo marxista, specialmente nelle versioni massimaliste, e il professionismo burocratico-politico allontanarono dal socialismo uomini come Gaetano Salvemini, che pur vi aveva aderito. Egli definiva il marxismo una droga ideologica, che all'inizio ti dà un'ebbrezza, una forte emozione intellettuale, poi crea una dipendenza pericolosa e tragica, tra il dogmatico, il religioso, con rischi di settarismo e anche fanatismo, ed accusava il classismo operaista di Turati e del PSI, che implicava l'abbandono del Mezzogiorno contadino alle clientele spesso mafiose del giolittismo.
Ogni tentativo di rinnovare il socialismo marxista italiano, portato avanti da Francesco Saverio Merlino, Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, dal Movimento Liberalsocialista, dagli esponenti socialisti liberali del Partito d'Azione (1942-1947) prima e dopo la confluenza nel Partito Socialista, ha conosciuto ostracismi, condanne, emarginazioni, e questo è stato causa non secondaria della scomparsa ideologica ed organizzativa del PSI e del PSDI italiani, che fino ad età recentissima erano fermi al programma del 1892.
Il coraggioso tentativo fatto in età craxiana di liberarsi di quel condizionamento e rinnovarsi a tutto campo (famoso il saggio su Proudhon), con il contributo anche del gruppo di Mondoperaio, non è riuscito a svilupparsi, essendo il partito finito nel gorgo della corruzione, dello sbandamento della collocazione e delle collaborazioni politiche.
Ma le responsabilità maggiori, quasi assolute, della tragica, imbrogliata matassa della storia della sinistra italiana socialista sono da addossare alla tradizione marxista-leninista dal 1918 fino ad oggi.
La realizzazione di uno stato operaio socialcomunista autoritario, marxista-leninista, fondato sulla dittatura del proletariato, e la nascita della Terza Internazionale Comunista hanno prodotto degli effetti devastanti nella storia del socialismo italiano.
I giovani socialisti italiani, Gramsci, Togliatti, Terracini, Bordiga e Bombacci (finito fascista e con Mussolini a Piazzale Loreto), abbagliati dalla Rivoluzione d'Ottobre (in realtà colpo di stato militare leninista-bolscevico, con l'appoggio degli anarchici e dei socialisti rivoluzionari, contro la Repubblica liberaldemocratica, nata nella grande Rivoluzione di Febbraio 1917, che aveva abbattuto la monarchia assoluta zarista, e che era guidata dal socialdemocratico Kerenskij), portarono alla nascita non di una delle tante formazioni prodotte da altre scissioni, quali si erano verificate o si verificheranno (es. quella di Bissolati-Bonomi del 1912, che portò alla nascita del Partito Socialista Riformista Italiano, così ricco di spunti moderni, per far uscire il partito da posizioni massimaliste), ma a quella del Partito Comunista.
La scissione comunista marxista-leninista terzinternazionalista e la nascita del Partito Comunista Italiana (PCI) al Congresso Socialista di Livorno del 1921 furono l'inserzione nel corpo del socialismo italiano, di tutta la sinistra italiana, del panorama politico italiano, di una forza settaria, millenarista, in scontro frontale contro tutto e tutti, ma con una forza d'urto fortissima, sia per la sua presa ideologica quasi religiosa, sia anche per l'appoggio e il finanziamento (fino a qualche anno fa) di una potenza straniera di peso planetario, l'URSS (Unione delle Repubbliche "Socialiste" Sovietiche), stato esterno al nostro paese.
Tra i paradossali effetti di questa inserzione nel corpo della sinistra italiana ci fu la seconda scissione del 1922 al Congresso di Roma, quando furono espulsi dal Partito Socialista massimalista di Menotti Serrati e Nenni Turati e Matteotti, che fondarono il Partito Socialista Unitario (PSU), il primo partito sostanzialmente liberalsocialista nella storia italiana, che si presentò alle drammatiche elezioni del 1924 (con Mussolini al potere, le squadracce fasciste nelle piazze, le forze dell'ordine e i prefetti compiacenti, i liberali moderati alleati coi fascisti) con il simbolo storico del sole nascente e la grande novità dell'abbinamento delle parole in esso contenute "Libertà" "Socialismo".
La ritrovata simbiosi tra socialismo e libertà non fu più ripresa successivamente, data l'egemonia che permase del socialismo marxista. Solo Carlo Rosselli (che aveva aderito al PSU e fu il figlio spirituale di Turati, che aiutò, con Pertini e Parri, a fuggire in Corsica nel 1926, conoscendo poi per questo carcere e confino) in Francia, dopo la leggendaria evasione dall'isola di Lipari con Emilio Lussu in motoscafo nel 1929, col lavoro organizzativo del Movimento 'Giustizia e Libertà' e col lavoro teorico col suo libro fondamentale 'Socialismo Liberale' del 1930, il Movimento Liberalsocialista di Guido Calogero ed Aldo Capitini dal 1937 in poi, le componenti liberalsocialiste del Partito d'Azione citato, l'esperienza del rinnovato Partito Socialista Unitario del 1949-1950, lavoro legato ai nomi di Codignola, Silone, Vittorelli, Garosci, anche Ciampi (fondatore della sezione del Partito d'Azione a Livorno e collaboratore nel 1946 della rivista 'Liberalsocialismo' diretta dal suo maestro, Calogero), cercarono disperatamente, senza riuscirvi finora, a raddrizzare il socialismo verso il nesso con l'istanza liberale.
I paesi che avevano avuto partiti socialisti di forte impronta marxista hanno subito gli effetti più drammatici, a differenza di quelli nei quali l'influenza marxista è stata minore (es. Inghilterra e Spagna).
Così in Italia è nata una guerra politica tra comunisti e socialisti, i cui effetti sono ancora presenti nel fondo della vita politica italiani, coi post-comunisti dei Democratici di Sinistra ad esempio, che, pur aderendo all'Internazionale Socialista e pur membri del Partito Socialista Europeo, non hanno avuto e non hanno il coraggio di presentarsi in Italia come "socialisti", e mettere all'ordine del giorno ad es. la nascita di un unitario partito socialista liberaldemocratico, annegando la loro storia complessa, anche tragica, e la loro mancanza di coraggio e di chiarezza in contenitori generici, tipo 'democratici', 'riformisti', 'ulivisti'. Gli espliciti 'comunisti' continuano ad avere il radicale riflesso antisocialista, sempre di origine marxista e leninista, in Italia, in Europa, nel Mondo.
La storia del comunismo italiano e russo richiede comunque un giudizio articolato: le testimonianze personali dei carcerati, dei confinati (es. Gramsci, Terracini, Giorgio Amendola, figlio del martire liberaldemocratico Giovanni), dei torturati, degli assassinati, dei partigiani delle formazioni "Garibaldi" (pur machiavellico recupero della tradizione nazionale risorgimentale, così ferocemente criticata da Marx e marxisti vari come 'borghese'), per abbattere la dittatura fascista e restituire all'Italia la democrazia, il voto comunista per l'avvento della Repubblica del 1946, il contributo per la stesura della Costituzione, pur nel tradimento dei principi liberali col voto positivo sull'art. 7 con la Democrazia Cristiana, che ha permesso l'inserzione dei fascisti Patti Lateranensi, del Concordato, con la Chiesa Cattolica nel cuore della nostra carta costituzionale, il contributo per portare alla partecipazione politica milioni di contadini e di operai nel cinquantennio repubblicano, il buongoverno in migliaia di situazioni locali, la promozione cooperativistica e sindacale per l'emancipazione dalla miseria e dalla subalternità storica delle classi lavoratrici, i venti milioni di morti tra militari e civili che l'Unione Sovietica di Stalin machiavellico, oltre che tiranno, alleato con gli Stati Uniti e con l'Inghilterra (dopo essere stato alleato di Hitler e Mussolini dal 1939 agli inizi del 1941) dalla metà del 1941 al 1945, per liberare l'Europa dai mostri disumani, demoniaci del nazismo e del fascismo, meritano rispetto. Le truppe che liberarono Auschwitz erano sovietiche. Questo spiega anche la collaborazione durante la Resistenza e nei primi governi del dopoguerra fino al 1947 col Partito Comunista Italiano della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista Italiano, del Partito d'Azione, dello stesso Partito Liberale.
Ma effetti perversi ha prodotto la presenza di forti partiti comunisti nei sistemi politici pluralisti e democratici, drammatizzando ogni elezione non in termini di serena scelta tra classi dirigenti nelle loro virtù e nei loro limiti di governo, ma di quasi - referendum ogni volta tra sistema liberaldemocratico e sistema monopartitico-totalitario, incancrenendo sempre di più, in una spirale perversa, fino alla quasi impunità, il governo cattolico, ad es. in Italia, con le appendici subalterne di liberali conservatori e repubblicani sempre più nel tempo coinvolti dalla corruzione, non essendovi altro sbocco democratico, dato il congelamento comunista di milioni di voti.
Gli effetti nella storia della sinistra italiana dei comportamenti politici del PCI sono stati negativi nel vedere i compagni diversi come sostanziali nemici da combattere in modo subdolo e machiavellico, senza pietà e spirito di autocritica, fino alla distruzione morale, psicologica, a volte peggiore di quella fisica (così coraggiosamente descritta ad es. dal grande scrittore Ignazio Silone, uno dei fondatori del PCI, poi espulso nel 1930), da stalinisti ed eredi dello stalinismo, di quello Stalin, che viveva nell'ossessione non soltanto del capitalismo, ma dei compagni del suo stesso partito da distruggere fisicamente, come Bucharin o peggio Trotskij.
In questo contesto il Partito Socialista e Nenni si allearono con Togliatti e con lo stalinismo, ponendosi fuori anche dell'Internazionale Socialista fino al 1956, quando coi fatti d'Ungheria, coi comunisti stalinisti che sparavano sugli operai che chiedevano libertà e democrazia, oltre che più umane condizioni di lavoro, si aprirono gli occhi anche ai ciechi. Si giunse al punto di ricevere nel PSI finanziamenti dall'Est sovietico.
Tragici effetti di quella scelta sciagurata stalinista del PSI furono la giusta scissione socialdemocratica di Saragat del 1947, l'emarginazione delle correnti e figure autonomiste e liberalsocialiste di Silone, Garosci, Codignola, del Partito Socialista Unitario citato, di Unità Popolare, al tempo della lotta contro la legge-truffa del 1953, la fine dell'unità sindacale con la nascita prima della CISL e poi della UIL.
Ma non bisogna dimenticare, per onestà storica doverosa, che il PSI di Nenni e Pertini, insieme alla componente socialdemocratica, ha saputo dal 1956 recuperare una sua autonomia e scrivere, nella collaborazione con le più serie forze progressiste italiane (dai cattolici democratici ai repubblicani, ai liberali, ai radicali) le più alte pagine nella storia repubblicana, dai diritti civili ai diritti sociali (ad es. la scuola materna statale, la scuola media unica, il divorzio, l'aborto, lo statuto dei lavoratori, il buongoverno in tantissimi enti locali, l'impegno sindacale diviso tra CGIL e UIL).
Ma l'effetto più nefasto della tradizione marxista nella storia sia riformista (con l'eccezione del PSU di Turati-Matteotti) e massimalista, che comunista del socialismo italiano è stata la rescissione del legame/osmosi del socialismo con i valori e le istanze liberali.
Il socialismo senza la libertà è la peggiore forma di tirannia. Lo avevano profetizzato già i socialisti liberali e libertari tra Ottocento e i primi del Novecento. La profezia si è avverata al di là dell'immaginazione con le tragedie disumane e i morti provocati a milioni, a milioni, a milioni.
Ancora oggi stati sedicenti 'socialisti' in Cina, a Cuba, nel Vietnam, in Corea del Nord esemplificano tragicamente gli effetti della tragica scissione tra l'istanza socialista e l'istanza liberale. Per non richiamare paradossalmente Hitler e il suo 'nazionalsocialismo', anche Saddam Hussein si chiamava 'socialista'.
Il socialismo ha senso e futuro, può riprendere il suo posto e il suo cammino in campo politico e nel cuore della gente solo se è liberale, se è 'liberalsocialista', se sa tenere insieme, specialmente nell'Italia delle confusioni e degli sbandamenti, congiunte, nello spirito e nella lettera, giustizia sociale e libertà, socialismo e libertà.
Ecco perché è preliminare, fondamentale che LETTERALMENTE i termini 'socialismo', 'socialista' non possono stare da soli, per i motivi storici e logici sopra ampiamente argomentati, e vanno integrati con quello 'liberale' e le espressioni 'liberalsocialismo', 'liberalsocialista' stanno proprio ad indicare proprio questo nesso e la consapevolezza definitiva dell'indissolubilità tra l'istanza socialiste e quella liberale.
Tra i tanti effetti nefasti della confusa tradizione marxista italiana, nelle sue varie innumerevoli versioni, c'è stato quello della collocazione politica. Scissa l'istanza socialista da quella liberale, l'istanza etica da quella politica, in nome di un preteso socialismo ‘scientifico' contrapposto a pretesi socialismi 'utopistici', è divenuto il realismo machiavellico il metodo di fondo dell'agire politico, sono stati inevitabili quindi la spregiudicatezza, i funambolismi, i trasformismi, le acrobatiche posizioni e alleanze. Anticattolici e alleati coi cattolici, antisocialisti e alleati dei socialisti, anticomunisti ed alleati coi comunisti, antidemocratici ed alleati coi democratici. Comportamenti politici sconcertanti, guidati quasi sempre dall'ago della bussola del potere amministrativo, sindacale, parlamentare da impadronirsi o da spartire. Si è giunti finanche ad allearsi con la destra, con i post-fascisti, coi dichiarati fascisti, coi secessionisti.
Allo sbandamento ideologico ed organizzativo hanno contribuito anche l'egemone individualismo presuntuoso e distruttivo. Ambiziosi di carriera politica senza merito, esistenze mancate, gente senza arte né parte, gente che non ha mai lavorato e non aveva voglia di lavorare, incapaci di vivere anzitutto da sé, onestamente, si sono buttati negli apparati, governandoli per la loro sistemazione, per quella degli amici e clan, riducendo l'ideale socialista e la sua storia a parole scritte sui manifesti.
Questo è un abbozzo della nostra laica interpretazione della storia del socialismo italiano, discutibile, ma per noi preliminare punto di partenza, altrimenti si cadrà, secondo noi, in un ennesimo tentativo sterile.
Per noi è preliminare andare alle radici con coraggio, per vedere le cose come sono andate, con autocritica accettazione del tribunale della storia e delle sue obiettive sentenze.
Quando una struttura di partito muore, non è colpa di un solo uomo, spesso ridotto a ingiusto capro espiatorio, o di pochi, ma di comportamenti diffusi di sbandamento ideologico-politico e di costumi.
Un partito, una formazione politica vecchi o nuovi senza memoria e con un passato rimosso non hanno futuro.
Da dove ripartire dunque ?
Anzitutto dal coraggio della verità, dal coraggio di fare i conti fino in fondo con la propria storia, senza nascondere nulla di ciò che nel bene e nel male la propria tradizione ha commesso, accettando con umiltà e onestà le sentenze del tribunale della storia e ripartendo da esse, con la disponibilità e l'impegno a non cadere negli stessi errori e nelle stesse tragedie.
Come si è detto, dopo tante tragedie e tante confusioni, ancora permanenti, occorre
preliminarmente partire da una più chiara, precisa identità, dallo stesso nome. Non più solo 'socialista, ma 'liberalsocialista.
Poi forza dichiaratamente di 'sinistra', per impianto ideale e naturale posizione storica, con qualificazione necessaria, giacchè nel panorama politico nazionale e locale si sono visti e si vedono cosiddetti 'socialisti' collocati a destra o annebbiati in posizioni centriste.
Poi riferimento al nuovo, ineludibile orizzonte europeo, con il collegamento anzitutto con le tradizioni laburiste del mondo anglo-sassone, per le loro storie così profondamente e sostanzialmente liberalsocialiste, che possono quindi aiutare a precisare e consolidare una definitiva e solida posizione liberalsocialista.
La collocazione di una posizione di sinistra liberalsocialista è, non può non essere, pertanto, assolutamente autonoma dalle confusioni permanenti dell'Ulivo, dallo SDI, che si è annegato in esso, dalle posizioni dei Comunisti Italiani nell'Ulivo, dal Partito della Rifondazione Comunista, che sta abbandonando (vedi le elezioni Europee), la stessa non sostenibile denominazione 'comunista' per un un generico 'Partito della Sinistra Europea', esplicitazione a livello delle competizioni nazionali del gruppo nel quale sono collocati nel Parlamento Europeo i rappresentanti dei partiti comunisti europei, da quello italiano a quello francese a quello tedesco, a quello spagnolo, a quello austriaco, a quello ceco, a quello slovacco, a quello greco, a quello estone, ancora poco chiaro nella ispirazione di fondo, come dice la sua stessa denominazione, ancora incapace di fare i conti con la storia (e che conti le tradizioni comuniste europee devono ancora fare!), ma comunque in cammino, anche nella direzione del riferimento alla nonviolenza.
E' naturalmente in contrapposizione storico-ideale, democratica, ma non demagogica, alla Casa delle Libertà, alla Lega Nord, con le sue sciagurate tendenze secessioniste, che offendono le conquiste fondamentali del Risorgimento e dell'Antifascismo repubblicani liberaldemocratici, liberalsocialisti, con le sue argomentate ispirazioni anche federaliste, da Cattaneo al Partito Sardo d'Azione di Bellieni e Lussu del 1921, al Manifesto di Ventotene.
Gli uomini e le donne di sinistra liberalsocialista hanno l'ambizione di radicarsi a partire dalla gente, dai problemi concreti, specialmente dei più umili, dei più deboli socialmente, per dimostrare nei fatti, sperimentalmente, lo stile di governo di una sinistra liberalsocialista. Essi si alleeranno solo con quelle forze e con quegli uomini di sinistra-centro, che siano stati e siano di altrettanto rigore autocritico e lo dimostrino nei fatti, e non solo a parole.
Gli uomini e le donne di sinistra liberalsocialista non hanno fretta.
La fretta è cattiva consigliera.
Occorre, come diceva Salvemini, il maestro di concretezza e di rigore ideale socialista liberale, un lavoro di anni a pane e acqua su alcuni punti concreti fondamentali, che condizionano in modo negativo la vita della gente, del paese, battendoli e ribattendoli, articolandoli a livello locale soprattutto, per aprire spazi di liberazione reale nell'ansimante vita quotidiana della gente umile ed onesta ed evitare il declino, in cui la nostra cara Italia si sta incanalando.
Solo alle condizioni sopra indicate possiamo rialzare, a testa alta e con orgoglio, la bandiera antica e nobile del socialismo, che non può che essere, per chiarezza e verità, 'liberalsocialismo', con una formazione federale e federativa, rispettosa ed esaltatrice delle varietà regionali e locali, senza centralismi e burocrazia professionistica, che, nel nome e negli intenti, vuole essere erede e riattualizzare nel presente e per il futuro il meglio che ha espresso la complessa, complicata, a volte tragica, storia del socialismo italiano. Diretta democraticamente dai suoi promotori e responsabili legali, che si impegnano a non allontanarsi mai dalle sue linee ideali, politiche e programmatiche, liberamente accettate, a farlo vivere organizzativamente, ad uniformarsi alle sue deliberazioni.
PUNTI FONDAMENTALI DELL'ORIENTAMENTO POLITICO LIBERALSOCIALISTA
1. Le istituzioni repubblicane, liberali e democratiche vanno difese contro i fanatici di ogni colore, ogni giorno, vanno rispettate e fatte funzionare al massimo delle loro potenzialità nel riferimento alla Costituzione scritta, limitando, eliminando la costituzione materiale che si è stratificata nel tempo.
Le istituzioni liberali e democratiche non sono né borghesi, né proletarie, ma sono conquiste di civiltà, che riguardano tutti gli uomini, prima di ogni fede e distinzione politica. Come dice Carlo Rosselli esse sono "una sorta di patto di civiltà che gli uomini di tutte le fedi stringono fra loro per salvare nella lotta gli attributi della loro umanità. "
Senza la libertà e senza la democrazia c'è solo la tirannia.
Questa dura lezione, mai da dimenticare, è stata appresa ad esempio a duro prezzo dall'Italia sotto il fascismo, dalla Russia sotto lo zarismo e sotto il comunismo.
L'Italia repubblicana liberaldemocratica con il lavoro e il sacrificio quotidiano degli operai, dei contadini, degli artigiani, dei tecnici, degli intellettuali, dei servitori dello stato, degli operatori della scuola, degli imprenditori e commercianti onesti e seri, di diversi settori responsabili del mondo sindacale, politico, culturale, con il contributo di milioni di emigrati dal Sud al Nord e fuori d'Italia è diventata la settima potenza al mondo ed ha una ricchezza ed un peso politico, quali mai ha avuto nella storia.
Ma molte questioni importanti restano aperte: dalla disoccupazione giovanile, specialmente meridionale, alla criminalità organizzata, alla confusa immigrazione, fatto nuovo nella storia d'Italia, al disordine urbanistico ed ambientale, alla mancanza di una diffusa moralità pubblica e civile, alla crisi della scuola, alla diseducazione dei mezzi di comunicazione di massa, alla perdita di competività nel mondo vorticosamente globalizzato..
2. Per la nostra fede nella dignità di ogni uomo, di ogni donna, per far vivere, far amare poi concretamente il bene della libertà, non possiamo, non dobbiamo, non sappiamo accettare che lo stato di libertà si accompagni alla miseria, all'ignoranza, alla disoccupazione, alla prepotenza. Noi vogliamo incarnare una libertà sempre disperatamente mobilitata, che ogni giorno crea nuovi spazi di liberazione, una ‘incessante libertà creatrice e liberatrice', una libertà che rispetta il libero lavoro, la libera impresa e i suoi frutti, ma che sappia intaccare decisamente e senza violenza gratuita i privilegi, le ricchezze, le sopraffazioni, raddrizzando secolari ingiustizie.
3. Un fondamentale obiettivo, accanto alla difesa ed alla promozione delle libertà civili e politiche, è la libertà dal bisogno.
Chi ha fame o è senza lavoro non può godere e apprezzare nessuna libertà, non può essere cittadino democratico libero e responsabile.
Quindi il primo fronte della battaglia politica liberalsocialista è il diritto al lavoro, da garantire a tutti i cittadini, a tutte le cittadine, al compimento del 18° anno di età, usando tutti i mezzi a disposizione, elaborando tutti i tipi di leggi possibili per garantirlo, sottraendo ad ogni corporazione l'attuale monopolio dei concorsi e degli avviamenti al lavoro, pubblici e privati.
Si ripete: non si può essere cittadini liberi e democratici, se non si ha una autonomia economica.
Il diritto al lavoro è possibile: occorre solo un'energica volontà politica di garantirlo, imponendo i sacrifici giusti a tutti e colpendo chi lo ostacola.
E' uno scandalo che una democrazia repubblicana liberale e democratica abbia generazioni che vedono trascorrere gli anni e i decenni in attesa di un lavoro, costringendo giovani e meno giovani all'umiliazione dell'aiuto dei genitori, dei parenti, dell'assistenza privata o pubblica, alla clientela politica, sindacale, privata.
Si appoggerà anche ogni iniziativa di sperimentalismo economico-sociale libertario non capitalistico, come in uno degli orientamenti socialisti di fine Ottocento, che vada nella direzione di offrire alternative quotidiane di vita e di lavoro a chi è liberamente interessato, aggiungendo così ulteriori scelte ai cittadini maggiorenni.
Accanto al diritto al lavoro, si collocano altri punti fondamentali ricorrenti nella nostra tradizione.
4) Anzitutto la religione dei doveri, accanto alla giusta rivendicazione dei diritti (nessun dovere senza diritti, nessun diritto senza doveri), che dovrebbe essere diffusa e praticata specialmente in ambito sindacale, come avveniva agli inizi del movimento operaio e socialista, per non diventare delle corporazioni cieche o peggio strutture clientelari, con fenomeni di professionismo burocratico-professionistico paralleli a quelli dei partiti, di cui si è spesso l'altra faccia nascosta.
5. La laicità dello stato che garantisce la libertà di tutte le fedi, ma non è condizionato da alcuna. Eliminazione del riferimento ai fascisti Patti Lateranensi nell'art. 7 della Costituzione e degli aspetti illiberali nei rapporti tra Repubblica Italiana, Stato del Vaticano, Chiesa Cattolica.
6. Gli Stati Uniti d'Europa e la riforma dell'ONU, per renderlo in grado di governare veramente il destino della nostra cara, piccola Terra, unica nostra casa, così in pericolo di inquinamento e sviluppo irrazionali e pericolosi, di conflitti, di fanatismi spesso di origine religiosa, oltre che ideologica, di terrorismi.
7. L'economia del benessere, da accrescere nel rispetto dell'ambiente e dei diritti delle persone, perché nessuno giustamente vuole tornare alla vecchia miseria e povertà.
8. L'autogoverno locale, onde creare un costume di partecipazione democratica e di controllo del pubblico denaro a livello dei luoghi dove si vive con le proprie piccole storie e le identità culturali, economiche e sociali da difendere e da esaltare nei suoi aspetti positivi.
Ma i Comuni, le Province, le Città Metropolitane, le Regioni che l'attuale art. 114 della Costituzione, riscritto da recenti classi politiche nazionali sbandate o machiavelliche, ambiguamente mette sullo stesso piano dello Stato Liberale e Democratico (che invece dovrebbe contenerle e regolarle), devono rendere conto in modo stringente sul piano istituzionale della spesa pubblica, mentre oggi i controlli si sono allentati e la modifica Titolo V della Costituzione ha creato una confusione di ruoli e di poteri, col rischio di disgregare i delicati equilibri di uno stato liberale e democratico federale.
9. I problemi del Nord e in particolare del Mezzogiorno, mai da dimenticare, coi suoi problemi strutturali di modernizzazione, e soprattutto della criminalità, da combattere in modo radicale, altrimenti non c'è sviluppo e le imprese vanno ad investire altrove, anche fuori d'Italia, accrescendo così la disoccupazione meridionale, abbandonando il Sud all'assistenzialismo e alle clientele.
10. La lotta alle clientele, che rendono servi e non liberi cittadini, e contro la corruzione, sempre così diffusa in mille forme sottili, di affaristi, speculatori, parassiti, e la promozione di valori di legalità da praticare da parte degli organi dello stato e dei cittadini.
Gli 8.101 uffici tecnici, quanti sono i Comuni italiani, coi poteri sui piani regolatori, le opere pubbliche, gli appalti, i cimiteri, la raccolta dei rifiuti, l'acqua sono delicati centri di potere, strettamente collegati con il ceto dei dirigenti e funzionari locali, gli assessori, i sindaci, le classi dirigenti provinciali e regionali, che si riservano poteri di autorizzazioni e di erogazioni, e stendono tutti insieme e collegati una ragnatele possente di condizionamenti sui territori e sulle persone.
Su di essi va promossa una campagna nazionale di trasparenza e di controllo democratici, così come sugli altri uffici (es. quello degli affari generali, quelli finanziari, quelli sui servizi sociali, culturali), dove avvengono sprechi e si consolidano possenti catene clientelari, basi di appoggio poi di tanti partiti e di tante carriere professionistiche politiche a livello comunale, provinciale, regionale, nazionale, europeo.
11. Il superamento dell'estraneità tra la politica e la cultura, per portare gli uomini di scienza e delle professioni a dare il loro contributo, attraverso i partiti e la dialettica democratica, allo sviluppo economico e sociale del paese e dei governi a livello locale, nazionale, europeo.
12. La difesa della scuola pubblica, luogo di educazione civile, di dialogo e di rispetto tra gli alunni di tutte le fedi, per imparare a stare insieme e vivere il diritto/dovere della verità e della obiettività.
13. La rivoluzione sanitaria ed urbanistica, onde avere la garanzia, anzitutto in strutture pubbliche, fatte funzionare al massimo livello possibile, della fondamentale salute, di abitazioni e città a misura d'uomo, onde vivere la vita già così breve in modo dignitoso e felice, per quanto è possibile. Occorre un democratico regime dei suoli edificatori, che li sottragga all'ingorda e disordinata speculazione privata, che ha devastato il Belpaese e che è stata tollerata dal permissivismo e da assurdi condoni (offensivi dei cittadini onesti) delle forze politiche di ogni colore.
14. Il più ampio riconoscimento alla partecipazione politica, civile e democratiche delle donne, che sono la metà dell'umanità e senza il cui contributo nessun vero problema potrà mai essere risolto.
15. Contro i pericoli dei totalitarismi e i processi di massificazione, occorre potenziare in tutti gli uomini, specialmente nei lavoratori, sentimenti di dignità, di autonomia, di moralità, di cultura, di responsabilità.
Il potenziamento dell'individualità è la barriera più efficace contro le tragedie totalitarie, contro l'emergere di tendenze deresponsabilizzanti, gregarie, disumane. Dice Carlo Rosselli "I regimi di massa, i fascismi, si combattono ridando all'uomo, alla ragione, alla libertà il loro valore; creando in ciascun uomo, nel massimo numero di uomini, e per ora in una minoranza di intellettuali e di lavoratori, una coscienza forte della propria personalità ed autonomia. Rompere la massa e la vita di massa con nuclei pensanti ed agenti."
16. E' giusto rivendicare il rispetto degli aspetti nobili della propria storia e della propria identità linguistica e culturale, ma senza chiudersi in un pericoloso isolamento o in un orgoglio nazionale, che sarebbero la rovina per i popoli, come hanno dimostrato tragicamente gli ultimi secoli.
La tradizione repubblicana liberaldemocratica e liberalsocialista ha indicato, da Cattaneo a Carlo Rosselli, al Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi, Colorni, al Presidente della Repubblica Ciampi, come fondamentale via di salvezza gli Stati Uniti d'Europa.
Noi crediamo in questa prospettiva, abbiamo dato e diamo ogni giorno il nostro contributo, affinché l'Europa viva e si affermi sempre di più, non solo sul terreno monetario, dove ormai già si è costituita e vive in modo irreversibile, ma sul piano politico, giuridico, sociale, culturale, coinvolgendo sempre più i cittadini, le cittadine, i popoli, specialmente quelli dei 10 paesi che stanno per entrare a maggio 2004, portando a 25 i membri dell'Unione Europea.
Vogliamo un Parlamento europeo investito di maggiori responsabilità legislative e con un governo che, pienamente rappresentativo, decida e controlli per tutti i membri almeno la politica estera, la difesa militare e la sicurezza interna.
17. L'umanità attende ancora l'era della fraternità dei popoli, il terzo grande immortale principio della Rivoluzione Francese del 1789. Occorre costruirla con fede e pazienza, essendo un'opera gigantesca, che richiederà il contributo di generazioni.
18. Alla luce delle argomentazioni sopra addotte, occorrono nuovi orizzonti di dignità e di educazione civile, di liberazione culturale e sociale, di partecipazione democratica, di nuovi governi e di nuove classi dirigenti, non provinciali, perché il mondo si è fatto sempre più interconnesso, complesso e anche tragico, specialmente dopo gli attentati dell'integralismo islamico dell'11 settembre 2001, onde evitare di tornare indietro in termini di benessere e civiltà, come potrebbe avvenire ed è avvenuto nella storia umana.
Il progresso civile, economico, culturale non è garantito, dipende dalla volontà e dalla responsabilità delle generazioni, degli uomini e delle donne tutte, coinvolgendo soprattutto i giovani nella consapevolezza delle sfide difficili e complesse che li attendono.
NICOLA TERRACCIANO
Recensioni: Disputa su Dio e dintorni - Corrado Augias e Vito Mancuso
I contenuti
Un libro che scuote le coscienze e apre nuovi orizzonti sulla più grande disputa della storia dell'uomo: credere o non credere. Dio, la sua esistenza, la sua importanza per la vita, passando attraverso l'evoluzione, il rapporto fede-scienza, l'eutanasia, l'accanimento terapeutico, lo scandalo del male, l'illuminismo, il Gesù storico, la Madonna e i suoi dogmi, la Trinità, le ingerenze politiche della Chiesa. C'è chi parteggerà per l'uno, chi per l'altro, e chi probabilmente per nessuno dei due, ma cercherà di fare proprio ogni volta il punto di vista di chi parla, ora il credente, ora il non credente, sapendo che esistono entrambe le voci in ogni uomo pensante. Questo libro si rivolge a tutti coloro che vogliono pensare. Pensare o, forse meglio, ripensare al senso complessivo del trovarsi al mondo: se cioè esista un senso, un Dio, oppure solo una variopinta e mutevole sfilata di sensi, ognuno diverso dall'altro.
Un libro che scuote le coscienze e apre nuovi orizzonti sulla più grande disputa della storia dell'uomo: credere o non credere. Dio, la sua esistenza, la sua importanza per la vita, passando attraverso l'evoluzione, il rapporto fede-scienza, l'eutanasia, l'accanimento terapeutico, lo scandalo del male, l'illuminismo, il Gesù storico, la Madonna e i suoi dogmi, la Trinità, le ingerenze politiche della Chiesa. C'è chi parteggerà per l'uno, chi per l'altro, e chi probabilmente per nessuno dei due, ma cercherà di fare proprio ogni volta il punto di vista di chi parla, ora il credente, ora il non credente, sapendo che esistono entrambe le voci in ogni uomo pensante. Questo libro si rivolge a tutti coloro che vogliono pensare. Pensare o, forse meglio, ripensare al senso complessivo del trovarsi al mondo: se cioè esista un senso, un Dio, oppure solo una variopinta e mutevole sfilata di sensi, ognuno diverso dall'altro.
Aborto: l'emergenza che non c'è. Riflessioni sulla relazione annuale al Parlamento.
di Simone Luciani
E’ passato poco più di un anno, eppure sembra poco più di un secolo. Era appena il 2008, quando l’aborto, stando alle manifestazioni (ben poco frequentate) e alla visibilità mediatica (accecante), sembrava diventato un allarme sociale di proporzioni inaudite. Intellettuali, imbonitori, giornalisti, scienziati che imperversavano per le strade e lamentavano una serie di enormità, dall’eugenetica alla strage degli innocenti.
Ebbene, oggi è stata presentata dal Ministero del Welfare la relazione annuale al parlamento sull’applicazione della legge 194, in cui possono leggersi i primi dati sull’aborto riguardanti proprio il 2008. Come ampiamente prevedibile da parte di chi, anche in quel periodo, abbia conservato un minimo di lucidità mentale, i numeri parlano chiaro: l’Italia ha uno dei tassi di abortività più bassi d’Europa, e il numero assoluto di interruzioni di gravidanza continua a calare, toccando il minimo storico di 121 mila interventi (6 mila in meno rispetto al 2007 e poco più della metà rispetto al 1982). Addirittura, le donne italiane che sono ricorse all’aborto 3 o più volte rappresentano l’1,7%. Dunque, come la relazione dell’anno scorso, come quella di due anni fa, di tre e via dicendo, i dati parlano di un fenomeno estremamente contenuto e in calo. Merito, ovviamente, delle donne italiane, e non certo dei movimenti, dei gruppi e dei politici pro-life, che accompagnano le crociate antiabortiste con condanne del tutto insensate e irrazionali dell’educazione sessuale e della contraccezione, che restano le due strade (culturale e tecnica) per limitare il ricorso all’aborto.
Se volessimo volare basso, sarebbe bello notare come su questo rapporto, nella giornata di oggi, ci sia stato un clamoroso vuoto di dichiarazioni e invettive dei pro-life, che in genere seguono la presentazione di questo tipo di relazioni. Soltanto l’ineffabile Carlo Casini, storico leader del Movimento per la Vita, è riuscito a superare se stesso: “…ci domandiamo se la diminuzione di aborti sia vera”. Non c’è rimedio. Invece, volendo puntare un tantino più in alto, sarebbe più utile riflettere sui due nodi problematici posti da questa relazione e dalle precedenti.
Il primo è il tema dell’aborto fra le donne straniere. Al 2007, una donna su tre che ha fatto ricorso all’interruzione di gravidanza è straniera, e anche il dato assoluto è in continua crescita. Un approccio serio e non ideologico al problema, anziché impegnarsi a dimostrare improbabili teoremi sull’eugenetica, dovrebbe pensare a dei processi di informazione, di educazione, di avvicinamento delle donne immigrate con campagne mirate che sappiano e possano, senza anatemi, spiegare tutti gli aspetti di una procreazione libera e responsabile. Compreso il tema dell’interruzione di gravidanza: non è una novità che queste donne mettano a repentaglio la propria vita con tentativi di aborto artigianale.
Il secondo nodo è quello dell’obiezione di coscienza. A livello nazionale 7 ginecologi su 10 sono obiettori, e in alcune regioni il dato supera l’80%. La sottosegretaria Roccella, con semplicità, ha spiegato che tutto ciò non compromette l’efficienza del servizio. Meno semplice è sperare che qualcuno ci creda. Anche qui, un governo e un parlamento seri dovrebbero chiedersi se è il caso di tenere in piedi un istituto, quello dell’obiezione di coscienza, che nacque per quei ginecologi che, nel 1978, entrata in vigore la legge, si sarebbero trovati da un giorno all’altro a fare un lavoro nuovo che potevano anche non approvare. Oggi non crediamo ci siano particolari ragioni perché un ginecologo possa scegliere di non fare aborti, se da domani la legge prevedesse questo. Più nell’immediato, invece, sarebbe il caso di capire quali siano le strutture in cui le interruzioni di gravidanza non vengono eseguite, o vengono eseguite con discontinuità, o vengono eseguite da uno o due “superstiti”. E studiare provvedimenti seri, che non costringano le donne a umilianti viaggi della speranza.
Entrambi questi punti, comunque, non intaccano la realtà di fondo: in Italia non c’è alcun allarme sociale legato all’aborto. C’è, semmai, il problema di come sostenere la donna di fronte a una scelta così drammatica e difficile, evitando indebite (e indegne) pressioni. Ma per fare ciò si dovrebbe accettare come base comune un presupposto che, nel nostro paese, disturba ancora i sonni di parecchie persone: la libertà della donna.
E’ passato poco più di un anno, eppure sembra poco più di un secolo. Era appena il 2008, quando l’aborto, stando alle manifestazioni (ben poco frequentate) e alla visibilità mediatica (accecante), sembrava diventato un allarme sociale di proporzioni inaudite. Intellettuali, imbonitori, giornalisti, scienziati che imperversavano per le strade e lamentavano una serie di enormità, dall’eugenetica alla strage degli innocenti.
Ebbene, oggi è stata presentata dal Ministero del Welfare la relazione annuale al parlamento sull’applicazione della legge 194, in cui possono leggersi i primi dati sull’aborto riguardanti proprio il 2008. Come ampiamente prevedibile da parte di chi, anche in quel periodo, abbia conservato un minimo di lucidità mentale, i numeri parlano chiaro: l’Italia ha uno dei tassi di abortività più bassi d’Europa, e il numero assoluto di interruzioni di gravidanza continua a calare, toccando il minimo storico di 121 mila interventi (6 mila in meno rispetto al 2007 e poco più della metà rispetto al 1982). Addirittura, le donne italiane che sono ricorse all’aborto 3 o più volte rappresentano l’1,7%. Dunque, come la relazione dell’anno scorso, come quella di due anni fa, di tre e via dicendo, i dati parlano di un fenomeno estremamente contenuto e in calo. Merito, ovviamente, delle donne italiane, e non certo dei movimenti, dei gruppi e dei politici pro-life, che accompagnano le crociate antiabortiste con condanne del tutto insensate e irrazionali dell’educazione sessuale e della contraccezione, che restano le due strade (culturale e tecnica) per limitare il ricorso all’aborto.
Se volessimo volare basso, sarebbe bello notare come su questo rapporto, nella giornata di oggi, ci sia stato un clamoroso vuoto di dichiarazioni e invettive dei pro-life, che in genere seguono la presentazione di questo tipo di relazioni. Soltanto l’ineffabile Carlo Casini, storico leader del Movimento per la Vita, è riuscito a superare se stesso: “…ci domandiamo se la diminuzione di aborti sia vera”. Non c’è rimedio. Invece, volendo puntare un tantino più in alto, sarebbe più utile riflettere sui due nodi problematici posti da questa relazione e dalle precedenti.
Il primo è il tema dell’aborto fra le donne straniere. Al 2007, una donna su tre che ha fatto ricorso all’interruzione di gravidanza è straniera, e anche il dato assoluto è in continua crescita. Un approccio serio e non ideologico al problema, anziché impegnarsi a dimostrare improbabili teoremi sull’eugenetica, dovrebbe pensare a dei processi di informazione, di educazione, di avvicinamento delle donne immigrate con campagne mirate che sappiano e possano, senza anatemi, spiegare tutti gli aspetti di una procreazione libera e responsabile. Compreso il tema dell’interruzione di gravidanza: non è una novità che queste donne mettano a repentaglio la propria vita con tentativi di aborto artigianale.
Il secondo nodo è quello dell’obiezione di coscienza. A livello nazionale 7 ginecologi su 10 sono obiettori, e in alcune regioni il dato supera l’80%. La sottosegretaria Roccella, con semplicità, ha spiegato che tutto ciò non compromette l’efficienza del servizio. Meno semplice è sperare che qualcuno ci creda. Anche qui, un governo e un parlamento seri dovrebbero chiedersi se è il caso di tenere in piedi un istituto, quello dell’obiezione di coscienza, che nacque per quei ginecologi che, nel 1978, entrata in vigore la legge, si sarebbero trovati da un giorno all’altro a fare un lavoro nuovo che potevano anche non approvare. Oggi non crediamo ci siano particolari ragioni perché un ginecologo possa scegliere di non fare aborti, se da domani la legge prevedesse questo. Più nell’immediato, invece, sarebbe il caso di capire quali siano le strutture in cui le interruzioni di gravidanza non vengono eseguite, o vengono eseguite con discontinuità, o vengono eseguite da uno o due “superstiti”. E studiare provvedimenti seri, che non costringano le donne a umilianti viaggi della speranza.
Entrambi questi punti, comunque, non intaccano la realtà di fondo: in Italia non c’è alcun allarme sociale legato all’aborto. C’è, semmai, il problema di come sostenere la donna di fronte a una scelta così drammatica e difficile, evitando indebite (e indegne) pressioni. Ma per fare ciò si dovrebbe accettare come base comune un presupposto che, nel nostro paese, disturba ancora i sonni di parecchie persone: la libertà della donna.
Le origini reali della crisi globale
Scritto da Flavio Pressacco* e Gilberto Seravalli**
Per gentile concessione degli autori pubblichiamo la versione italiana di un “paper”che apparirà su “Transition Studies Review”
1. Introduzione
In questo contributo presentiamo un’interpretazione della crisi economico-finanziaria che considera cruciale l’argomento della distribuzione del reddito, un argomento invece tralasciato dalle interpretazioni più diffuse. In effetti, se ci si chiede che cosa ci sia dietro il disastro dei mutui “subprime” e se non si resta alla superficie delle cose, apparirà ben chiaro che le cause vere della crisi risalgono alla distribuzione del reddito, ossia al fortissimo aumento della diseguaglianza tra ricchi e poveri. Questa considerazione è fondamentale. Se la crisi fosse solo di natura finanziaria, allora potrebbero bastare (forse) le politiche di aggiustamento finanziario che sono già in atto. Se invece la crisi dipende da cause più profonde, e nulla è più profondo delle disuguaglianze distributive, allora la cura dovrà essere anch’essa ben più profonda (e difficile). La crisi, cioè, sarà lunga e pesante fino a che non verranno ridotte tali disuguaglianze, un compito molto più impegnativo rispetto all’intervento pubblico di soccorso alle istituzioni finanziarie.
2. I mutui “subprime”
Partiamo quindi dalla domanda: da dove nasce la crisi? La risposta più frequente “dai mutui subprime” è corretta ma incompleta.
Occorre intanto chiarire che cosa sono i mutui subprime. Sono prestiti a lunga scadenza concessi per acquistare immobili e garantiti da ipoteca. Sono subprime (di ultima categoria) perché le banche hanno concesso i mutui anche a famiglie “non sicure” sapendo che probabilmente non sarebbero state in grado di ripagare il prestito per intero; lo hanno fatto perché vi era l’immobile a garanzia in tempi di continuo aumento del prezzo delle case. Se i prezzi delle case fossero sempre saliti le banche avrebbero potuto guadagnarci, anche quando i mutuatari avessero smesso di pagare le rate, vendendo la casa dopo il pignoramento ad un prezzo maggiore del valore del mutuo concesso. Inoltre le banche si sono tutelate trasferendo, almeno una parte del rischio di insolvenza ad altre banche, istituzioni e fondi attraverso operazioni di cartolarizzazione usando i “derivati”. La cartolarizzazione consiste nell’impacchettare questi crediti rischiosissimi (i mutui per le banche sono crediti) mescolandoli ad altri di normale rischiosità e vendendoli (in una confezione unica) ad altri intermediari. Questi a loro volta vengono ancora impacchettati con altri e così via, anche fino a tre o quattro passaggi. Fin qui niente di grave, in teoria. Il meccanismo consente di suddividere a cascata, tra tante banche e tanti soggetti, i rischi che altrimenti, gravando su una banca sola, impedirebbero a questa di concedere mutui a chi non ha i soldi per comprare la casa. In sé, quindi, il meccanismo avrebbe potuto dare un buon risultato. Ma che cosa è successo a un certo punto? E’ successo che sono fallite le istituzioni finanziarie che avevano concesso una gran quantità di mutui di questo tipo [1], ed il fallimento si è esteso ad altre istituzioni finanziarie per contagio o per coinvolgimento indiretto, dal momento che, innescata la crisi, le banche hanno smesso di prestarsi soldi tra loro [2]. Ovviamente per determinare una crisi di queste proporzioni non si è trattato solo di qualche isolato errore ma di una strategia sistematica e perversa perseguita da alcuni dei maggiori intermediari finanziari degli Stati Uniti e, in parte, imitata anche da istituzioni europee.
Ma quali errori sono stati fatti e perché è stata una strategia perversa? Anzitutto si è trattato di “avidità” per sete di arricchimento da parte dei dirigenti delle banche e delle istituzioni finanziarie e, anche, da parte dei clienti che hanno comprato i derivati. Infatti la cartolarizzazione, specie quando è di secondo, terzo, quarto livello, nasconde il reale contenuto di rischio dei titoli che si comprano mentre promette un alto rendimento “garantito” da certificazioni (che sono state molto disinvolte, per usare un termine blando) degli istituti di rating. I dirigenti delle banche quindi vedevano aumentare i loro compensi (che dipendevano in parte rilevante dalla massa di titoli che riuscivano a vendere) e chi comprava questi titoli godeva di alti rendimenti. Tutti scordavano o volevano scordare che si trattava di titoli ad alto rischio basati su mutui ad esigibilità non sicura.
Le agenzie di rating e tutti i soggetti coinvolti in questo processo, in realtà, potevano sostenere, come hanno a lungo sostenuto, che l’alto rischio non c’era perché, come abbiamo detto, il prezzo delle case continuava ad aumentare. Negli Usa, l’indice del prezzo delle case, che si era sempre mantenuto intorno al medesimo livello [3], verso il 2001 aveva cominciato a crescere ad un ritmo mai visto dalla fine della guerra. Non solo, ma la crescita non si era affatto arrestata dopo 4 o 5 anni, come avveniva sempre. Il ragionamento, quindi, è stato questo: dopo vent’anni di grande crescita economica (che in effetti si è registrata negli USA) si è accumulato un grande bisogno di nuove case: il prezzo sale perché la domanda supera l’offerta. Se con i mutui si continua a sostenere la domanda, il prezzo delle case continuerà a salire. In realtà, proprio nel 2007 il prezzo delle case non solo non sale più ma comincia a scendere molto in fretta. Succede ciò che, prima o poi, doveva accadere ma accade molto prima di quanto si pensasse. Quasi nessuno aveva voluto tener conto del fatto che, mentre il prezzo delle case saliva, non saliva affatto il costo di costruzione [4]: era un affare con straordinari guadagni e nessuno aveva interesse che si divulgassero timori (che pure da più parti e ripetutamente furono segnalati). Ma la crescita dell’offerta di case, spinta da queste eccezionali opportunità di profitto, supera ad un certo punto la domanda anche se questa, sostenuta dai mutui, cresce in fretta. Quindi, abbastanza presto, i prezzi delle case non crescono più ed iniziano a scendere. Un caso esemplare di scoppio di una bolla!
3. Alto rischio
Quale è stato dunque il perverso meccanismo? I mutui subprime davano luogo ad attivi finanziari ad alto rischio e questa realtà era facilmente nascosta da chi aveva un interesse egoistico di guadagni enormi. All’obiezione della rischiosità dei mutui potevano rispondere che, poiché i prezzi delle case aumentavano, questi erano garantiti. Se si obiettava invece che i prezzi delle case prima o poi sarebbero scesi, come era sempre avvenuto, potevano sostenere che il rischio era stato suddiviso mediante i derivati. Questo intreccio di due argomenti che sembravano in grado di rispondere a tutti i dubbi, era dunque un’arma efficace per nascondere la verità fino a quando, nel 2007, i pignoramenti delle case per mutui non pagati raddoppiano e, nello stesso tempo, il prezzo delle case comincia a scendere. A quel punto avviene quello che pochi erano stati così onesti da prevedere: tutti e due gli argomenti cadevano insieme (tecnicamente si direbbe che erano fortemente anzi quasi perfettamente correlati). A quel punto diventa chiaro a tutti che il meccanismo dei mutui subprime si basava su un’operazione di “rimescolamento” come quella dei rifiuti tossici che vengono mescolati con rifiuti normali per evitare di pagare i maggiori oneri dello smaltimento. La somiglianza fra le due operazioni è tale che i pacchetti di crediti cartolarizzati contenenti quantità non decifrabili di crediti rischiosissimi sono detti in gergo toxic assets, ossia titoli tossici.
Quanto grave è stata l’intossicazione? Il centro studi sulle case dell’Università di Harvard (Joint Center for Housing Studies of Harvard University, The State of the Nation’s Housing 2008) ha stimato che la percentuale di mutui subprime sul totale mutui immobiliari è cresciuta dall’8%, il suo livello normale, ad un patologico 22%, raggiunto in soli quattro anni, dal 2003 alla fine del 2006. Dagli ultimi mesi del 2006, e poi a valanga, anticipando e quindi accompagnando la crisi, questa quota del 22% è poi scesa riducendosi a quasi zero. Inoltre, se si analizzano i dati riportati da Realty Trac Presse Releases of “U.S. Foreclosure Market Report”, si osserva che, negli USA nel primo trimestre del 2007, il numero di abitazioni colpite da pignoramento per mutui non pagati sono più di 200 mila e crescono continuamente fino a 800 mila a trimestre alla fine del 2008 [5]. Adesso a posteriori, ma c’è stato chi come Stiglitz l’aveva detto anche prima della crisi, mettendo insieme tutti questi dati possiamo concludere che il sistema finanziario americano poteva sostenere 200 miliardi di dollari di mutui subprime, l’8% del totale mutui, e circa 200 mila pignoramenti a trimestre. Il valore dei mutui subprime che ha scatenato la valanga, quindi, è intorno 400 miliardi di dollari e un numero medio di pignoramenti di 600 mila a trimestre. Il punto è che queste cifre indicano l’entità solo dell’avvio della valanga, mentre nessuno ancora adesso è in grado di dire quanto grande è stata e sarà la valanga alla fine. Il meccanismo perverso che si è innescato si può capire facendo attenzione proprio alla logica della suddivisione del rischio attuata con i derivati e considerando quale è il suo aspetto critico. Se, poniamo, un pacchetto finanziario del valore di 100 contiene il 20% di mutui di bassa qualità, ed è a sua volta impachettato con altri attivi finanziari della stessa natura, questo derivato di “secondo livello” conterrà solo il 4% di attivi molto rischiosi. Per questa ragione, guardando solo al rischio subprime, tutti avevano motivo di dire che i rischi effettivamente assunti erano bassi. Si trascurava, colpevolmente, di vedere che questo meccanismo aveva incoraggiato le istituzioni finanziarie ad aumentare di molto il loro grado di indebitamento in rapporto al capitale proprio. Supponiamo che una banca o istituzione finanziaria, per restare al nostro semplice esempio, con un capitale proprio pari al 3% del suo indebitamento, si sia indebitata avendo venduto il derivato che contiene “solo” il 4% di attivi molto rischiosi. Se questa quota per quanto piccola non viene onorata, ciò è sufficiente per far fallire questa banca perché tale perdita supererà il suo capitale. In tal modo, ciò che guardando solo al contenuto del derivato appare poco rischioso, in realtà comporta che tutto il derivato (100 e non solo 4) è in realtà rischioso.
4. Non solo crisi finanziaria
Poniamoci allora un’altra domanda: per quale motivo qualcuno dovrebbe concedere e ha in effetti concesso su larga scala prestiti di questo tipo? Apparentemente infatti nessuno avrebbe interesse a prestare il proprio denaro a chi quasi certamente non sarà in grado di restituirlo. Nei film di fantascienza in voga negli anni Cinquanta, comportamenti palesemente irrazionali di persone che ricoprivano importanti ruoli istituzionali e considerate pienamente affidabili si spiegavano con l’intrusione nei loro cervelli di misteriosi alieni, al fine di ridurre in schiavitù il genere umano. Nel nostro caso non c’é bisogno di una spiegazione fantascientifica: si è trattato dell’operato fraudolento e truffaldino di una finanza degenerata, che ha a sua volta approfittato di lacune, incapacità o addirittura complicità delle autorità di controllo sulle attività finanziarie. Insomma una ben orchestrata attività di persone tese al proprio egoistico tornaconto facilitata dalla moderna tecnologia informatica e favorita dall’inadeguatezza di chi doveva valutare e sorvegliare.
Questo è vero, ma non è tutta la storia, né la parte decisiva.
Consideriamo il seguente ipotetico scenario, per un aspetto cruciale diverso da quello che si è realmente avuto. Dopo vent’anni di forte crescita economica, negli USA si era accumulato un grande bisogno di nuove case, per cui - mentre il prezzo delle case cresceva - non cresceva altrettanto il costo di fabbricazione. Costruire e vendere case cominciava così a diventare un grande affare, che d’altra parte incrociava un bisogno sociale effettivo. Poiché il tasso di interesse stava calando [6], le famiglie, specie quelle del ceto medio e medio-basso che avevano il maggiore bisogno di case, cominciavano a vedere conveniente spostare le spese dai consumi correnti e dall’investimento in buoni del tesoro verso l’acquisto della casa, aiutati da mutui “normali” a tassi di interesse calanti. La domanda di case poteva crescere e trainare l’offerta di case e tutto poteva andar bene, senza aumento di mutui subprime sopra la soglia sostenibile dal sistema finanziario. Chiediamoci così adesso in che cosa questo scenario differisce da quello che si è effettivamente avuto. La differenza è nella capacità delle famiglie del ceto medio e medio-basso di avere soldi a sufficienza per comprare case. Questa é quindi la causa più profonda e vera della crisi: le famiglie del ceto medio e medio-basso, ad un certo punto, non avevano più abbastanza denaro.
Fonte: U.S. Department of Commerce, Bureau of Economic Analysis: National Economic Accounts – National Income and Product Accounts, Board of Governors of the Federal Reserve System, Flow of Funds Accounts
Che cosa si è fatto allora? Per consentire di cogliere lo storico affare delle case e per sostenere la domanda e quindi la crescita del reddito di tutto il sistema economico USA, si è permesso e spinto in tutti i modi il complesso meccanismo dei mutui subprime. Si è verificato, insomma, quello che succede inevitabilmente nel capitalismo qualora esso assuma la versione che, con sbrigativa ma efficace connotazione etica, si dice “avida”.
5. Il capitalismo di mercato ed i suoi difficili equilibri
Cerchiamo di comprendere meglio; e a questo scopo consideriamo una premessa. Per evitare vuoti di domanda aggregata che conducono ad effetti negativi e indesiderati di disoccupazione e rottura della coesione sociale, il sistema economico deve provvedere un volume di consumi, di investimenti e di spesa pubblica ad un livello complessivo sufficientemente elevato. Queste tre componenti (consumi, investimenti, spesa pubblica) non sono però indipendenti. La spesa pubblica deve essere equilibrata da entrate fiscali per non compromettere gli investimenti, ma la tasse non devono essere troppo alte per non compromettere i consumi. Gli investimenti privati infatti presuppongono attese di consumi sufficienti ad esaurire il prodotto ottenuto dalla produttività degli investimenti stessi. Possiamo sintetizzare dicendo che il capitalismo, coniugato con un sistema di democrazia politica che garantisca libertà economiche, ma anche libertà civili e politiche, è un sistema molto sofisticato in cui i sentieri di evoluzione delle quantità fondamentali che ne garantiscono l’equilibrio sono stretti. Insomma il capitalismo è permanentemente sull’orlo del disequilibrio e il ruolo della politica economica sarebbe quello di garantire che, al verificarsi di disequilibri indesiderati, si apprestassero immediati ed opportuni rimedi. Una componente fondamentale di tali equilibri è l’armoniosa distribuzione dei redditi disponibili per i cittadini. Per poter consumare i cittadini debbono godere di redditi sufficientemente elevati. I salari quindi non possono restare troppo indietro rispetto ai profitti. Profitti molto alti per un verso rendono “potenzialmente” conveniente investire, perché gli investimenti renderebbero bene, ma per un altro verso impediscono effettivamente gli investimenti perché la capacità produttiva che si creerebbe darebbe luogo ad un aumento della quantità di prodotti che non potrebbero essere venduti. Gli alti profitti, quindi, resterebbero solo virtuali e non potrebbero essere realizzati. Questa difficoltà viene fortemente aggravata quando aumentano, insieme ai profitti, anche i redditi dei più ricchi a scapito dei redditi medi e medio bassi. La propensione alla spesa (anche per beni durevoli, come le case), ovvero la percentuale del reddito destinato al consumo e all’investimento in abitazioni, è infatti decrescente al crescere del reddito. Ne consegue che la spesa sarà tanto più alta quanto più egualitaria è la distribuzione della ricchezza e viceversa. A sua volta alti consumi spingono verso alti investimenti e, ove questi siano efficientemente destinati all’ampliamento della capacità produttiva del sistema, rendono a loro volta possibile sostenere con la produzione il futuro livello della spesa. Tanto maggiore invece è la disuguaglianza, tanto minori le spese, tanto minori gli investimenti e tanto minori i redditi ed il benessere futuri.
6. La distribuzione del reddito
Premesso questo, osserviamo che, per un lungo periodo, dal dopoguerra (1945) fino all’inizio degli anni Ottanta, l’equilibrio economico del sistema capitalistico occidentale e del suo centro negli USA si resse su una distribuzione dei redditi relativamente equilibrata (capitalismo New Deal o Roosevelt-Keynes). Come fa vedere Emmanuel Saez (Striking it Richer: The Evolution of Top Incomes in the United States, Working Paper University of California, Department of Economics, 549 Evans Hall #3880, Berkeley, CA, 94720, 2008), negli USA dalla fine della Guerra al 1983 la quota del reddito nazionale appartenente al 10% più ricco della popolazione era rimasta sempre intorno al 34% (con piccole oscillazioni di un punto, un punto e mezzo in più o in meno). Dall’avvento di Reagan (1981) la situazione dei redditi cambiò bruscamente: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma anche sia pure in minor misura in Europa, crebbe la disuguaglianza. E’ qui utile tenere presente la successione delle date e dei Presidenti USA: Ronald Reagan (vice George Bush) 1981-1989, George Bush (vice Dan Quayle) 1989-1993, Bill Clinton (vice Al Gore) 1993-2001, George W. Bush (vice Dick Cheney) 2001-2009. In questi quasi trent’anni, la quota del reddito del 10% dei più ricchi è cresciuta enormemente. Con Reagan tale quota passa dal 34% (1981) al 41% (1989); con Bush padre arriva al 45% (1993), con Clinton giunge al 47% ma poi torna al 44% (fine 2001), infine con Bush figlio torna a crescere rapidamente per giungere al 50% già nel 2007. Il fatto assai importante è che questo livello della ricchezza relativa dei più ricchi non trova precedenti se non nel 1929, alla vigilia della “grande crisi”. In altre parole, negli ultimi trent’anni vi è stato negli USA un continuo processo di aumento delle disuguaglianze, che ha avuto una sola pausa con Clinton, e che ha riprodotto le condizioni di disuguaglianza di reddito e ricchezza vigenti agli inizi del XX secolo. Ciò si é ottenuto attraverso una politica fiscale a vantaggio degli alti redditi, con abbassamento delle aliquote marginali ed altri vantaggi fiscali sui percettori di rendite finanziarie e, più in generale, con una organizzazione sociale, di pensiero e dei rapporti di forza tendente a privilegiare il ruolo dell’imprenditore, delle imprese e del lavoro autonomo ed a sminuire quello dei lavoratori dipendenti pubblici e privati.
Fonte: Emmanuel Saez, Striking it Richer: The Evolution of Top Incomes in the United States, Working Paper University of California, Department of Economics, 549 Evans Hall, #3880, Berkeley, CA, 94720,2008.
Tale aumento delle disuguaglianze, poi, ha colpito soprattutto il ceto medio. Il 40% della popolazione con redditi medi e medio bassi poteva contare sul 30% del reddito nazionale negli anni Sessanta, una cifra che si riduce sempre e giunge al 23% nel 2007. Nello stesso tempo i ricchi più ricchi (il 5% delle popolazione in testa alla graduatoria) raggiunge il medesimo 23% del reddito nazionale, partendo dal 16% degli anni Sessanta (U.S. Bureau of Census). E l’1% a più alto reddito raggiunge addirittura il 17,4% della quota del reddito totale, esclusi i redditi da capitale, esattamente come nella media degli anni 20 dello scorso secolo.(T.Piketty ed E.Saez, Income inequality in the United States, 1913-1998 Quarterly Journal of Economics CXVIII,2003 pp.1-39 aggiornato dal sito http://elsa.berkeley.edu/saez/). Per contro sono state sensibilmente rimodellate a favore dei più ricchi le aliquote fiscali. Dal 1979 al 2006 l’aliquota più alta sui redditi da lavoro è passata dal 70 al 35%, quella più alta sui profitti aziendali dal 48 al 35% e quella più alta sui redditi di capitale di lungo periodo dal 28 al 15%. (Urban Brookings Tax Policy Center, http://taxpolicycenter.org/taxfacts /tfdb/tftemplate.cfm. citati da P.Krugman: The conscience of a liberal. Norton e Co, New York-London 2007).
Inevitabile conseguenza di questa radicale trasformazione sarebbe stata la caduta del livello dei consumi e di conseguenza degli investimenti privati non speculativi, da cui carenza di domanda effettiva, disoccupazione, perdita della coesione sociale e verosimilmente anche della pace sociale. E’ qui che si inserisce il ruolo di supporto che fu affidato (inevitabilmente) alla finanza. Il suo compito fu quello di sostenere in modo artificiale la capacità di spesa dei ceti medio-bassi, per consentire loro di sostituire la spesa basata sul reddito corrente con spesa basata sul debito (dunque uso di carte di credito a rischio di insolvenza e mutui subprime[7]). Parallelamente, questo assetto consente alle classi più agiate, proprio grazie alla finanza, di sostenere i propri alti redditi connessi alle speculazioni edilizie e finanziarie, che sarebbe più opportuno chiamare col loro vero nome: prelievo anticipato di presunti (forse inesistenti) redditi futuri. Possiamo chiamarlo un equilibrio artificiale di economia reale sostenuto da finanza creativa ovvero fraudolenta, perfettamente funzionale al sistema. Tale equilibrio ha retto per qualche tempo ma era destinato inevitabilmente a terminare con una rovinosa rottura.
Il giudizio sul passato, dunque, deve considerare la finanza non corpo deviato del capitalismo Reagan-Bush, ma come esecutore necessario e coerente, per quanto magari troppo zelante e/o troppo avido, di questa versione del capitalismo. Per quanto riguarda i giudizi sul presente, ne deriva che la crisi, apparentemente di tipo finanziario, é destinata in tempi rapidi a propagarsi all’economia reale, come sta già avvenendo. Ciò, tuttavia, non succede solo per effetto del restringimento della capacità e volontà delle banche di mantenere il credito alle imprese. La crisi dell’economia reale sarà profonda e lunga perché essa nasce, in ultima analisi, dalla stessa economia reale, come aumento insostenibile degli squilibri distributivi. Ne consegue ancora che la crisi non potrà essere contrastata esclusivamente da provvedimenti di politica monetaria e di governo della finanza. Tali provvedimenti per la gran parte sono stati già presi, ma purtroppo si dimostrano inefficaci. Ancora nascosta dall’aspetto finanziario è la vera faccia della crisi, cioè quella dell’economia reale, quella legata alla carenza di domanda aggregata. E non si tratta di una carenza congiunturale. E’ una carenza strutturale nelle condizioni date di grave disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Pertanto, fino a che non si torni ad una distribuzione del reddito più equilibrata, la crisi non potrà essere efficacemente battuta. Vanno urgentemente ripristinate, mediante provvedimenti di politica fiscale, le condizioni di riequilibrio nella distribuzione dei redditi che consentono uno sviluppo non finanziariamente drogato dell’economia. Va dunque ripristinato il capitalismo nella sua versione new deal.
7. La nuova amministrazione USA
Su questo punto Barak Obama sembra avere le idee chiare: abbassare le tasse al 95% degli americani con reddito annuo sotto i 250 mila dollari e, sottinteso, alzarle agli altri; estendere a tutti l’assistenza sanitaria gratuita oggi garantita solo agli over 65 (gli altri si pagano un’assicurazione oppure gliela paga l’azienda come benefit contrattuale); investire nell’energia delle fonti alternative al petrolio e nella scuola.
In Europa invece (con la parziale eccezione di Gordon Brown) si é in forte ritardo, prima di tutto politico e culturale, per quanto si vada finalmente nella giusta direzione con il varo del piano di rilancio della domanda nell’Unione Europea (per quanto timido), oggetto dell’accordo Sarkozy-Merkel. Non è vero infatti che il ragionamento sulla distribuzione dei redditi riguardi solo gli USA. Secondo dati Oecd (Dataset: Income distribution – Inequality, november 2008), in Germania, dal 1996 al 2006 la differenza della crescita tra i redditi del 20% più ricco della popolazione e i redditi medi è stata ancora più forte che negli USA, e l’Italia è terza in questa graduatoria (dopo Germania e USA) e davanti a Francia, Giappone e Regno Unito. D’altra parte, già nel 2006, la percentuale di famiglie povere, che avevano meno del 60% del reddito mediano, molto alta negli USA (quasi alla pari con il Messico!, un quarto di tutta la popolazione) era del 20% in Italia (alla pari di Grecia, Portogallo, Spagna, Polonia), mentre era del 14% in Francia e solo del 10% in Danimarca e Svezia.
Tornando agli USA, le prime mosse di Obama appaiono di difficile interpretazione. Da una parte, come si è appena detto, il programma economico contiene aspetti positivi adeguati alla natura della crisi, sia per volume di risorse impiegate che per gli aspetti qualitativi orientati a proporre uno sviluppo sostenibile mediante sostegno alle energie pulite, alle produzioni non inquinanti (in una parola a quello che viene chiamato green new deal). Dall’altra, però, lo staff economico che ha nominato comprende persone compromesse con il liberismo fondamentalista. Timothy Franz Geithner, nominato Ministro del Tesoro, è stato dal 1998 al 2001 sottosegretario al Tesoro per gli Affari Internazionali. Lì rispondeva a Robert Rubin, allora Ministro del Tesoro, e a Lawrence Summers. Geithner fu poi da 2001 al 2003 al Fondo Monetario Internazionale come Direttore del (famigerato, nel senso del fondamentalismo liberista) Policy Development and Review Department. Lawrence Henry Summers, nominato Capo del Consiglio Economico Nazionale, fu dal 1991 al 1993 Chief Economist alla Banca Mondiale. Tra il 1999 ed il 2001 succede a Rubin come Ministro del Tesoro. Si nota inoltre una grande e clamorosa assenza, quella del Nobel Joseph Stiglitz. In un articolo-lettera a Obama sul News Week, Hirsch osserva: “Incredibilmente, non hai voluto assumere il maggiore tra i pochi economisti che avevano previsto la crisi finanziaria e le cui idee [sulla inefficienza del “libero mercato”] – che gli hanno valso il Nobel per l’economia – sono probabilmente le più importanti per aggiustare l’economia globale.” Egli è assente nelle recenti nomine – nonostante abbia sostenuto Obama ben prima del trio Rubin-Summers-Geithner – forse perché il trio è da sempre suo nemico: Summers ha tramato per (o almeno non ha fatto nulla per evitare) il licenziamento-dimissioni di Stiglitz a capo degli economisti della Banca Mondiale (aprile 2000) in polemica con il fondamentalismo liberista della Banca Mondiale stessa.
Tuttavia, negli USA (a differenza che nella nostra provinciale Italia), le cose cambiano in fretta. Il padre del neoliberismo, Milton Friedman, prima di morire, nel 2002 dichiarò in un’intervista a proposito della transizione in Russia: “Appena dopo il crollo dell’Unione Sovietica, cominciarono a chiedermi che cosa la Russia dovesse fare, e io dicevo: privatizzare, privatizzare, privatizzare. Avevo torto. Joe (Joseph Stigltiz) aveva ragione. Occorre prima di tutto lo Stato di diritto.” La stessa Banca Mondiale, in due rapporti uno del 2005 e uno del 2007, ha fatto autocritica e sostiene ora che non ci sono ricette semplici e valide dappertutto per lo sviluppo: il più solenne addio al “Washington Consensus” [8], di fronte ai suoi fallimenti ormai evidenti anche ai più convinti sostenitori.
*Professore Ordinario di Matematica Finanziaria, Università di Udine e Presidente Associazione Matematica Applicata alle Scienze Economiche e Sociali
**Professore Ordinario di Economia dello Sviluppo, Università di Parma
[1]Dal 2002 al 2005 negli Usa, in soli tre anni, i mutui subprime erano cresciuti di tre volte, passando da un valore complessivo di 200 miliardi di dollari a oltre 600 (US 2006 Mortgage Market Statistical Annual, vol. 1)
[2] Le date della crisi finanziaria USA sono contrassegnate da alcuni grandi fallimenti e acute difficoltà delle banche e istituzioni finanziarie. Fino a metà agosto 2007 tutto andava bene. Verso la fine del mese e poi da settembre iniziano a giungere notizie di un crescente numero di pignoramenti di case per mutui non pagati. Il 14 settembre 2007 la crisi fa la sua prima vittima, ma non negli USA bensì in Gran Bretagna, dove il Governo deve nazionalizzare la Northern Rock, il quinto istituto inglese specializzato nei mutui immobiliari, molto esposto nel mercato americano. In dicembre, con la pubblicazioni dei conti dell’ultimo trimestre, si vede che diverse banche hanno svalutato il valore di titoli posseduti in misura eccezionale, prima tra tutte Bank of America e Citygroup. Intanto cresce l’indice della rischiosità globale del sistema finanziario americano e di diversi paesi occidentali, così che le banche cominciano a restringere il credito. Il 17 marzo c’è il tracollo di Bear Stearns, la più grande banca d’affari americana, che viene venduta con l’intervento pubblico a JP Morgan Chase ad un prezzo di 10 dollari ad azione (contro il valore di borsa di 133 dollari di pochi mesi prima), dopo che JP Morgan aveva fatto una prima offerta di due dollari ad azione! Il 10 ottobre 2008, a circa un anno dall’inizio, si può considerare scoppiata la crisi finanziaria globale, con un indice di rischiosità (Libor-Ois) giunto a venti volte quello di agosto 2007. (Federal Reserve Bank of St. Louis, Economic Synopses, n. 25, 2008)
[3] Era cresciuto alla fine degli anni Settanta con la crisi petrolifera, poi era tornato in basso per quasi tutti gli anni Ottanta tornando quindi a crescere all’inizio del decennio Novanta, ma era andato ancora giù intorno al 1997-1998.
[4] L’affare delle case con l’aprirsi di un divario crescente tra prezzi di vendita e costi di fabbricazione era iniziato già negli anni Ottanta, ma vede un fortissima accelerazione dal 2000.
[5] In un anno i pignoramenti (numero di abitazioni colpite) sono stati 1 milione e trecentomila nel corso del 2007 (l’1% di tutte le abitazioni americane), e un milione di più, ossia 2 milioni e trecentomila nel corso del 2008 (1,8% del totale del patrimonio abitativo). Facendo le proporzioni, sarebbe come se in un paese di 15 mila abitanti ci fossero 80-100 abitazioni pignorate e messe in vendita dalle banche.
[6] Il tasso di rendimento dei buoni del tesoro a dieci anni, che aveva raggiunto le due cifre all’inizio degli anni Ottanta, era poi sempre sceso andando al 4% nel 2005.
[7] Infatti il grado di indebitamento delle famiglie americane, che era stato intorno al 12% grosso modo costante negli anni Sessanta e Settanta, comincia crescere nel 1983, in perfetta sintonia con l’avvio della crescita degli squilibri distributivi, e arriva quasi al 24% (quindi il doppio) nel 2008 (U.S. Department of Commerce, Bureau of Economic Analysis: National Economic Accounts - National Income and Product Accounts; Board of Governors of the Federal Reserve System, Flow of Funds Accounts.)
[8] Ossia alla dottrina del fondamentalismo liberista sostenuta e praticata per anni.
Per gentile concessione degli autori pubblichiamo la versione italiana di un “paper”che apparirà su “Transition Studies Review”
1. Introduzione
In questo contributo presentiamo un’interpretazione della crisi economico-finanziaria che considera cruciale l’argomento della distribuzione del reddito, un argomento invece tralasciato dalle interpretazioni più diffuse. In effetti, se ci si chiede che cosa ci sia dietro il disastro dei mutui “subprime” e se non si resta alla superficie delle cose, apparirà ben chiaro che le cause vere della crisi risalgono alla distribuzione del reddito, ossia al fortissimo aumento della diseguaglianza tra ricchi e poveri. Questa considerazione è fondamentale. Se la crisi fosse solo di natura finanziaria, allora potrebbero bastare (forse) le politiche di aggiustamento finanziario che sono già in atto. Se invece la crisi dipende da cause più profonde, e nulla è più profondo delle disuguaglianze distributive, allora la cura dovrà essere anch’essa ben più profonda (e difficile). La crisi, cioè, sarà lunga e pesante fino a che non verranno ridotte tali disuguaglianze, un compito molto più impegnativo rispetto all’intervento pubblico di soccorso alle istituzioni finanziarie.
2. I mutui “subprime”
Partiamo quindi dalla domanda: da dove nasce la crisi? La risposta più frequente “dai mutui subprime” è corretta ma incompleta.
Occorre intanto chiarire che cosa sono i mutui subprime. Sono prestiti a lunga scadenza concessi per acquistare immobili e garantiti da ipoteca. Sono subprime (di ultima categoria) perché le banche hanno concesso i mutui anche a famiglie “non sicure” sapendo che probabilmente non sarebbero state in grado di ripagare il prestito per intero; lo hanno fatto perché vi era l’immobile a garanzia in tempi di continuo aumento del prezzo delle case. Se i prezzi delle case fossero sempre saliti le banche avrebbero potuto guadagnarci, anche quando i mutuatari avessero smesso di pagare le rate, vendendo la casa dopo il pignoramento ad un prezzo maggiore del valore del mutuo concesso. Inoltre le banche si sono tutelate trasferendo, almeno una parte del rischio di insolvenza ad altre banche, istituzioni e fondi attraverso operazioni di cartolarizzazione usando i “derivati”. La cartolarizzazione consiste nell’impacchettare questi crediti rischiosissimi (i mutui per le banche sono crediti) mescolandoli ad altri di normale rischiosità e vendendoli (in una confezione unica) ad altri intermediari. Questi a loro volta vengono ancora impacchettati con altri e così via, anche fino a tre o quattro passaggi. Fin qui niente di grave, in teoria. Il meccanismo consente di suddividere a cascata, tra tante banche e tanti soggetti, i rischi che altrimenti, gravando su una banca sola, impedirebbero a questa di concedere mutui a chi non ha i soldi per comprare la casa. In sé, quindi, il meccanismo avrebbe potuto dare un buon risultato. Ma che cosa è successo a un certo punto? E’ successo che sono fallite le istituzioni finanziarie che avevano concesso una gran quantità di mutui di questo tipo [1], ed il fallimento si è esteso ad altre istituzioni finanziarie per contagio o per coinvolgimento indiretto, dal momento che, innescata la crisi, le banche hanno smesso di prestarsi soldi tra loro [2]. Ovviamente per determinare una crisi di queste proporzioni non si è trattato solo di qualche isolato errore ma di una strategia sistematica e perversa perseguita da alcuni dei maggiori intermediari finanziari degli Stati Uniti e, in parte, imitata anche da istituzioni europee.
Ma quali errori sono stati fatti e perché è stata una strategia perversa? Anzitutto si è trattato di “avidità” per sete di arricchimento da parte dei dirigenti delle banche e delle istituzioni finanziarie e, anche, da parte dei clienti che hanno comprato i derivati. Infatti la cartolarizzazione, specie quando è di secondo, terzo, quarto livello, nasconde il reale contenuto di rischio dei titoli che si comprano mentre promette un alto rendimento “garantito” da certificazioni (che sono state molto disinvolte, per usare un termine blando) degli istituti di rating. I dirigenti delle banche quindi vedevano aumentare i loro compensi (che dipendevano in parte rilevante dalla massa di titoli che riuscivano a vendere) e chi comprava questi titoli godeva di alti rendimenti. Tutti scordavano o volevano scordare che si trattava di titoli ad alto rischio basati su mutui ad esigibilità non sicura.
Le agenzie di rating e tutti i soggetti coinvolti in questo processo, in realtà, potevano sostenere, come hanno a lungo sostenuto, che l’alto rischio non c’era perché, come abbiamo detto, il prezzo delle case continuava ad aumentare. Negli Usa, l’indice del prezzo delle case, che si era sempre mantenuto intorno al medesimo livello [3], verso il 2001 aveva cominciato a crescere ad un ritmo mai visto dalla fine della guerra. Non solo, ma la crescita non si era affatto arrestata dopo 4 o 5 anni, come avveniva sempre. Il ragionamento, quindi, è stato questo: dopo vent’anni di grande crescita economica (che in effetti si è registrata negli USA) si è accumulato un grande bisogno di nuove case: il prezzo sale perché la domanda supera l’offerta. Se con i mutui si continua a sostenere la domanda, il prezzo delle case continuerà a salire. In realtà, proprio nel 2007 il prezzo delle case non solo non sale più ma comincia a scendere molto in fretta. Succede ciò che, prima o poi, doveva accadere ma accade molto prima di quanto si pensasse. Quasi nessuno aveva voluto tener conto del fatto che, mentre il prezzo delle case saliva, non saliva affatto il costo di costruzione [4]: era un affare con straordinari guadagni e nessuno aveva interesse che si divulgassero timori (che pure da più parti e ripetutamente furono segnalati). Ma la crescita dell’offerta di case, spinta da queste eccezionali opportunità di profitto, supera ad un certo punto la domanda anche se questa, sostenuta dai mutui, cresce in fretta. Quindi, abbastanza presto, i prezzi delle case non crescono più ed iniziano a scendere. Un caso esemplare di scoppio di una bolla!
3. Alto rischio
Quale è stato dunque il perverso meccanismo? I mutui subprime davano luogo ad attivi finanziari ad alto rischio e questa realtà era facilmente nascosta da chi aveva un interesse egoistico di guadagni enormi. All’obiezione della rischiosità dei mutui potevano rispondere che, poiché i prezzi delle case aumentavano, questi erano garantiti. Se si obiettava invece che i prezzi delle case prima o poi sarebbero scesi, come era sempre avvenuto, potevano sostenere che il rischio era stato suddiviso mediante i derivati. Questo intreccio di due argomenti che sembravano in grado di rispondere a tutti i dubbi, era dunque un’arma efficace per nascondere la verità fino a quando, nel 2007, i pignoramenti delle case per mutui non pagati raddoppiano e, nello stesso tempo, il prezzo delle case comincia a scendere. A quel punto avviene quello che pochi erano stati così onesti da prevedere: tutti e due gli argomenti cadevano insieme (tecnicamente si direbbe che erano fortemente anzi quasi perfettamente correlati). A quel punto diventa chiaro a tutti che il meccanismo dei mutui subprime si basava su un’operazione di “rimescolamento” come quella dei rifiuti tossici che vengono mescolati con rifiuti normali per evitare di pagare i maggiori oneri dello smaltimento. La somiglianza fra le due operazioni è tale che i pacchetti di crediti cartolarizzati contenenti quantità non decifrabili di crediti rischiosissimi sono detti in gergo toxic assets, ossia titoli tossici.
Quanto grave è stata l’intossicazione? Il centro studi sulle case dell’Università di Harvard (Joint Center for Housing Studies of Harvard University, The State of the Nation’s Housing 2008) ha stimato che la percentuale di mutui subprime sul totale mutui immobiliari è cresciuta dall’8%, il suo livello normale, ad un patologico 22%, raggiunto in soli quattro anni, dal 2003 alla fine del 2006. Dagli ultimi mesi del 2006, e poi a valanga, anticipando e quindi accompagnando la crisi, questa quota del 22% è poi scesa riducendosi a quasi zero. Inoltre, se si analizzano i dati riportati da Realty Trac Presse Releases of “U.S. Foreclosure Market Report”, si osserva che, negli USA nel primo trimestre del 2007, il numero di abitazioni colpite da pignoramento per mutui non pagati sono più di 200 mila e crescono continuamente fino a 800 mila a trimestre alla fine del 2008 [5]. Adesso a posteriori, ma c’è stato chi come Stiglitz l’aveva detto anche prima della crisi, mettendo insieme tutti questi dati possiamo concludere che il sistema finanziario americano poteva sostenere 200 miliardi di dollari di mutui subprime, l’8% del totale mutui, e circa 200 mila pignoramenti a trimestre. Il valore dei mutui subprime che ha scatenato la valanga, quindi, è intorno 400 miliardi di dollari e un numero medio di pignoramenti di 600 mila a trimestre. Il punto è che queste cifre indicano l’entità solo dell’avvio della valanga, mentre nessuno ancora adesso è in grado di dire quanto grande è stata e sarà la valanga alla fine. Il meccanismo perverso che si è innescato si può capire facendo attenzione proprio alla logica della suddivisione del rischio attuata con i derivati e considerando quale è il suo aspetto critico. Se, poniamo, un pacchetto finanziario del valore di 100 contiene il 20% di mutui di bassa qualità, ed è a sua volta impachettato con altri attivi finanziari della stessa natura, questo derivato di “secondo livello” conterrà solo il 4% di attivi molto rischiosi. Per questa ragione, guardando solo al rischio subprime, tutti avevano motivo di dire che i rischi effettivamente assunti erano bassi. Si trascurava, colpevolmente, di vedere che questo meccanismo aveva incoraggiato le istituzioni finanziarie ad aumentare di molto il loro grado di indebitamento in rapporto al capitale proprio. Supponiamo che una banca o istituzione finanziaria, per restare al nostro semplice esempio, con un capitale proprio pari al 3% del suo indebitamento, si sia indebitata avendo venduto il derivato che contiene “solo” il 4% di attivi molto rischiosi. Se questa quota per quanto piccola non viene onorata, ciò è sufficiente per far fallire questa banca perché tale perdita supererà il suo capitale. In tal modo, ciò che guardando solo al contenuto del derivato appare poco rischioso, in realtà comporta che tutto il derivato (100 e non solo 4) è in realtà rischioso.
4. Non solo crisi finanziaria
Poniamoci allora un’altra domanda: per quale motivo qualcuno dovrebbe concedere e ha in effetti concesso su larga scala prestiti di questo tipo? Apparentemente infatti nessuno avrebbe interesse a prestare il proprio denaro a chi quasi certamente non sarà in grado di restituirlo. Nei film di fantascienza in voga negli anni Cinquanta, comportamenti palesemente irrazionali di persone che ricoprivano importanti ruoli istituzionali e considerate pienamente affidabili si spiegavano con l’intrusione nei loro cervelli di misteriosi alieni, al fine di ridurre in schiavitù il genere umano. Nel nostro caso non c’é bisogno di una spiegazione fantascientifica: si è trattato dell’operato fraudolento e truffaldino di una finanza degenerata, che ha a sua volta approfittato di lacune, incapacità o addirittura complicità delle autorità di controllo sulle attività finanziarie. Insomma una ben orchestrata attività di persone tese al proprio egoistico tornaconto facilitata dalla moderna tecnologia informatica e favorita dall’inadeguatezza di chi doveva valutare e sorvegliare.
Questo è vero, ma non è tutta la storia, né la parte decisiva.
Consideriamo il seguente ipotetico scenario, per un aspetto cruciale diverso da quello che si è realmente avuto. Dopo vent’anni di forte crescita economica, negli USA si era accumulato un grande bisogno di nuove case, per cui - mentre il prezzo delle case cresceva - non cresceva altrettanto il costo di fabbricazione. Costruire e vendere case cominciava così a diventare un grande affare, che d’altra parte incrociava un bisogno sociale effettivo. Poiché il tasso di interesse stava calando [6], le famiglie, specie quelle del ceto medio e medio-basso che avevano il maggiore bisogno di case, cominciavano a vedere conveniente spostare le spese dai consumi correnti e dall’investimento in buoni del tesoro verso l’acquisto della casa, aiutati da mutui “normali” a tassi di interesse calanti. La domanda di case poteva crescere e trainare l’offerta di case e tutto poteva andar bene, senza aumento di mutui subprime sopra la soglia sostenibile dal sistema finanziario. Chiediamoci così adesso in che cosa questo scenario differisce da quello che si è effettivamente avuto. La differenza è nella capacità delle famiglie del ceto medio e medio-basso di avere soldi a sufficienza per comprare case. Questa é quindi la causa più profonda e vera della crisi: le famiglie del ceto medio e medio-basso, ad un certo punto, non avevano più abbastanza denaro.
Fonte: U.S. Department of Commerce, Bureau of Economic Analysis: National Economic Accounts – National Income and Product Accounts, Board of Governors of the Federal Reserve System, Flow of Funds Accounts
Che cosa si è fatto allora? Per consentire di cogliere lo storico affare delle case e per sostenere la domanda e quindi la crescita del reddito di tutto il sistema economico USA, si è permesso e spinto in tutti i modi il complesso meccanismo dei mutui subprime. Si è verificato, insomma, quello che succede inevitabilmente nel capitalismo qualora esso assuma la versione che, con sbrigativa ma efficace connotazione etica, si dice “avida”.
5. Il capitalismo di mercato ed i suoi difficili equilibri
Cerchiamo di comprendere meglio; e a questo scopo consideriamo una premessa. Per evitare vuoti di domanda aggregata che conducono ad effetti negativi e indesiderati di disoccupazione e rottura della coesione sociale, il sistema economico deve provvedere un volume di consumi, di investimenti e di spesa pubblica ad un livello complessivo sufficientemente elevato. Queste tre componenti (consumi, investimenti, spesa pubblica) non sono però indipendenti. La spesa pubblica deve essere equilibrata da entrate fiscali per non compromettere gli investimenti, ma la tasse non devono essere troppo alte per non compromettere i consumi. Gli investimenti privati infatti presuppongono attese di consumi sufficienti ad esaurire il prodotto ottenuto dalla produttività degli investimenti stessi. Possiamo sintetizzare dicendo che il capitalismo, coniugato con un sistema di democrazia politica che garantisca libertà economiche, ma anche libertà civili e politiche, è un sistema molto sofisticato in cui i sentieri di evoluzione delle quantità fondamentali che ne garantiscono l’equilibrio sono stretti. Insomma il capitalismo è permanentemente sull’orlo del disequilibrio e il ruolo della politica economica sarebbe quello di garantire che, al verificarsi di disequilibri indesiderati, si apprestassero immediati ed opportuni rimedi. Una componente fondamentale di tali equilibri è l’armoniosa distribuzione dei redditi disponibili per i cittadini. Per poter consumare i cittadini debbono godere di redditi sufficientemente elevati. I salari quindi non possono restare troppo indietro rispetto ai profitti. Profitti molto alti per un verso rendono “potenzialmente” conveniente investire, perché gli investimenti renderebbero bene, ma per un altro verso impediscono effettivamente gli investimenti perché la capacità produttiva che si creerebbe darebbe luogo ad un aumento della quantità di prodotti che non potrebbero essere venduti. Gli alti profitti, quindi, resterebbero solo virtuali e non potrebbero essere realizzati. Questa difficoltà viene fortemente aggravata quando aumentano, insieme ai profitti, anche i redditi dei più ricchi a scapito dei redditi medi e medio bassi. La propensione alla spesa (anche per beni durevoli, come le case), ovvero la percentuale del reddito destinato al consumo e all’investimento in abitazioni, è infatti decrescente al crescere del reddito. Ne consegue che la spesa sarà tanto più alta quanto più egualitaria è la distribuzione della ricchezza e viceversa. A sua volta alti consumi spingono verso alti investimenti e, ove questi siano efficientemente destinati all’ampliamento della capacità produttiva del sistema, rendono a loro volta possibile sostenere con la produzione il futuro livello della spesa. Tanto maggiore invece è la disuguaglianza, tanto minori le spese, tanto minori gli investimenti e tanto minori i redditi ed il benessere futuri.
6. La distribuzione del reddito
Premesso questo, osserviamo che, per un lungo periodo, dal dopoguerra (1945) fino all’inizio degli anni Ottanta, l’equilibrio economico del sistema capitalistico occidentale e del suo centro negli USA si resse su una distribuzione dei redditi relativamente equilibrata (capitalismo New Deal o Roosevelt-Keynes). Come fa vedere Emmanuel Saez (Striking it Richer: The Evolution of Top Incomes in the United States, Working Paper University of California, Department of Economics, 549 Evans Hall #3880, Berkeley, CA, 94720, 2008), negli USA dalla fine della Guerra al 1983 la quota del reddito nazionale appartenente al 10% più ricco della popolazione era rimasta sempre intorno al 34% (con piccole oscillazioni di un punto, un punto e mezzo in più o in meno). Dall’avvento di Reagan (1981) la situazione dei redditi cambiò bruscamente: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma anche sia pure in minor misura in Europa, crebbe la disuguaglianza. E’ qui utile tenere presente la successione delle date e dei Presidenti USA: Ronald Reagan (vice George Bush) 1981-1989, George Bush (vice Dan Quayle) 1989-1993, Bill Clinton (vice Al Gore) 1993-2001, George W. Bush (vice Dick Cheney) 2001-2009. In questi quasi trent’anni, la quota del reddito del 10% dei più ricchi è cresciuta enormemente. Con Reagan tale quota passa dal 34% (1981) al 41% (1989); con Bush padre arriva al 45% (1993), con Clinton giunge al 47% ma poi torna al 44% (fine 2001), infine con Bush figlio torna a crescere rapidamente per giungere al 50% già nel 2007. Il fatto assai importante è che questo livello della ricchezza relativa dei più ricchi non trova precedenti se non nel 1929, alla vigilia della “grande crisi”. In altre parole, negli ultimi trent’anni vi è stato negli USA un continuo processo di aumento delle disuguaglianze, che ha avuto una sola pausa con Clinton, e che ha riprodotto le condizioni di disuguaglianza di reddito e ricchezza vigenti agli inizi del XX secolo. Ciò si é ottenuto attraverso una politica fiscale a vantaggio degli alti redditi, con abbassamento delle aliquote marginali ed altri vantaggi fiscali sui percettori di rendite finanziarie e, più in generale, con una organizzazione sociale, di pensiero e dei rapporti di forza tendente a privilegiare il ruolo dell’imprenditore, delle imprese e del lavoro autonomo ed a sminuire quello dei lavoratori dipendenti pubblici e privati.
Fonte: Emmanuel Saez, Striking it Richer: The Evolution of Top Incomes in the United States, Working Paper University of California, Department of Economics, 549 Evans Hall, #3880, Berkeley, CA, 94720,2008.
Tale aumento delle disuguaglianze, poi, ha colpito soprattutto il ceto medio. Il 40% della popolazione con redditi medi e medio bassi poteva contare sul 30% del reddito nazionale negli anni Sessanta, una cifra che si riduce sempre e giunge al 23% nel 2007. Nello stesso tempo i ricchi più ricchi (il 5% delle popolazione in testa alla graduatoria) raggiunge il medesimo 23% del reddito nazionale, partendo dal 16% degli anni Sessanta (U.S. Bureau of Census). E l’1% a più alto reddito raggiunge addirittura il 17,4% della quota del reddito totale, esclusi i redditi da capitale, esattamente come nella media degli anni 20 dello scorso secolo.(T.Piketty ed E.Saez, Income inequality in the United States, 1913-1998 Quarterly Journal of Economics CXVIII,2003 pp.1-39 aggiornato dal sito http://elsa.berkeley.edu/saez/). Per contro sono state sensibilmente rimodellate a favore dei più ricchi le aliquote fiscali. Dal 1979 al 2006 l’aliquota più alta sui redditi da lavoro è passata dal 70 al 35%, quella più alta sui profitti aziendali dal 48 al 35% e quella più alta sui redditi di capitale di lungo periodo dal 28 al 15%. (Urban Brookings Tax Policy Center, http://taxpolicycenter.org/taxfacts /tfdb/tftemplate.cfm. citati da P.Krugman: The conscience of a liberal. Norton e Co, New York-London 2007).
Inevitabile conseguenza di questa radicale trasformazione sarebbe stata la caduta del livello dei consumi e di conseguenza degli investimenti privati non speculativi, da cui carenza di domanda effettiva, disoccupazione, perdita della coesione sociale e verosimilmente anche della pace sociale. E’ qui che si inserisce il ruolo di supporto che fu affidato (inevitabilmente) alla finanza. Il suo compito fu quello di sostenere in modo artificiale la capacità di spesa dei ceti medio-bassi, per consentire loro di sostituire la spesa basata sul reddito corrente con spesa basata sul debito (dunque uso di carte di credito a rischio di insolvenza e mutui subprime[7]). Parallelamente, questo assetto consente alle classi più agiate, proprio grazie alla finanza, di sostenere i propri alti redditi connessi alle speculazioni edilizie e finanziarie, che sarebbe più opportuno chiamare col loro vero nome: prelievo anticipato di presunti (forse inesistenti) redditi futuri. Possiamo chiamarlo un equilibrio artificiale di economia reale sostenuto da finanza creativa ovvero fraudolenta, perfettamente funzionale al sistema. Tale equilibrio ha retto per qualche tempo ma era destinato inevitabilmente a terminare con una rovinosa rottura.
Il giudizio sul passato, dunque, deve considerare la finanza non corpo deviato del capitalismo Reagan-Bush, ma come esecutore necessario e coerente, per quanto magari troppo zelante e/o troppo avido, di questa versione del capitalismo. Per quanto riguarda i giudizi sul presente, ne deriva che la crisi, apparentemente di tipo finanziario, é destinata in tempi rapidi a propagarsi all’economia reale, come sta già avvenendo. Ciò, tuttavia, non succede solo per effetto del restringimento della capacità e volontà delle banche di mantenere il credito alle imprese. La crisi dell’economia reale sarà profonda e lunga perché essa nasce, in ultima analisi, dalla stessa economia reale, come aumento insostenibile degli squilibri distributivi. Ne consegue ancora che la crisi non potrà essere contrastata esclusivamente da provvedimenti di politica monetaria e di governo della finanza. Tali provvedimenti per la gran parte sono stati già presi, ma purtroppo si dimostrano inefficaci. Ancora nascosta dall’aspetto finanziario è la vera faccia della crisi, cioè quella dell’economia reale, quella legata alla carenza di domanda aggregata. E non si tratta di una carenza congiunturale. E’ una carenza strutturale nelle condizioni date di grave disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Pertanto, fino a che non si torni ad una distribuzione del reddito più equilibrata, la crisi non potrà essere efficacemente battuta. Vanno urgentemente ripristinate, mediante provvedimenti di politica fiscale, le condizioni di riequilibrio nella distribuzione dei redditi che consentono uno sviluppo non finanziariamente drogato dell’economia. Va dunque ripristinato il capitalismo nella sua versione new deal.
7. La nuova amministrazione USA
Su questo punto Barak Obama sembra avere le idee chiare: abbassare le tasse al 95% degli americani con reddito annuo sotto i 250 mila dollari e, sottinteso, alzarle agli altri; estendere a tutti l’assistenza sanitaria gratuita oggi garantita solo agli over 65 (gli altri si pagano un’assicurazione oppure gliela paga l’azienda come benefit contrattuale); investire nell’energia delle fonti alternative al petrolio e nella scuola.
In Europa invece (con la parziale eccezione di Gordon Brown) si é in forte ritardo, prima di tutto politico e culturale, per quanto si vada finalmente nella giusta direzione con il varo del piano di rilancio della domanda nell’Unione Europea (per quanto timido), oggetto dell’accordo Sarkozy-Merkel. Non è vero infatti che il ragionamento sulla distribuzione dei redditi riguardi solo gli USA. Secondo dati Oecd (Dataset: Income distribution – Inequality, november 2008), in Germania, dal 1996 al 2006 la differenza della crescita tra i redditi del 20% più ricco della popolazione e i redditi medi è stata ancora più forte che negli USA, e l’Italia è terza in questa graduatoria (dopo Germania e USA) e davanti a Francia, Giappone e Regno Unito. D’altra parte, già nel 2006, la percentuale di famiglie povere, che avevano meno del 60% del reddito mediano, molto alta negli USA (quasi alla pari con il Messico!, un quarto di tutta la popolazione) era del 20% in Italia (alla pari di Grecia, Portogallo, Spagna, Polonia), mentre era del 14% in Francia e solo del 10% in Danimarca e Svezia.
Tornando agli USA, le prime mosse di Obama appaiono di difficile interpretazione. Da una parte, come si è appena detto, il programma economico contiene aspetti positivi adeguati alla natura della crisi, sia per volume di risorse impiegate che per gli aspetti qualitativi orientati a proporre uno sviluppo sostenibile mediante sostegno alle energie pulite, alle produzioni non inquinanti (in una parola a quello che viene chiamato green new deal). Dall’altra, però, lo staff economico che ha nominato comprende persone compromesse con il liberismo fondamentalista. Timothy Franz Geithner, nominato Ministro del Tesoro, è stato dal 1998 al 2001 sottosegretario al Tesoro per gli Affari Internazionali. Lì rispondeva a Robert Rubin, allora Ministro del Tesoro, e a Lawrence Summers. Geithner fu poi da 2001 al 2003 al Fondo Monetario Internazionale come Direttore del (famigerato, nel senso del fondamentalismo liberista) Policy Development and Review Department. Lawrence Henry Summers, nominato Capo del Consiglio Economico Nazionale, fu dal 1991 al 1993 Chief Economist alla Banca Mondiale. Tra il 1999 ed il 2001 succede a Rubin come Ministro del Tesoro. Si nota inoltre una grande e clamorosa assenza, quella del Nobel Joseph Stiglitz. In un articolo-lettera a Obama sul News Week, Hirsch osserva: “Incredibilmente, non hai voluto assumere il maggiore tra i pochi economisti che avevano previsto la crisi finanziaria e le cui idee [sulla inefficienza del “libero mercato”] – che gli hanno valso il Nobel per l’economia – sono probabilmente le più importanti per aggiustare l’economia globale.” Egli è assente nelle recenti nomine – nonostante abbia sostenuto Obama ben prima del trio Rubin-Summers-Geithner – forse perché il trio è da sempre suo nemico: Summers ha tramato per (o almeno non ha fatto nulla per evitare) il licenziamento-dimissioni di Stiglitz a capo degli economisti della Banca Mondiale (aprile 2000) in polemica con il fondamentalismo liberista della Banca Mondiale stessa.
Tuttavia, negli USA (a differenza che nella nostra provinciale Italia), le cose cambiano in fretta. Il padre del neoliberismo, Milton Friedman, prima di morire, nel 2002 dichiarò in un’intervista a proposito della transizione in Russia: “Appena dopo il crollo dell’Unione Sovietica, cominciarono a chiedermi che cosa la Russia dovesse fare, e io dicevo: privatizzare, privatizzare, privatizzare. Avevo torto. Joe (Joseph Stigltiz) aveva ragione. Occorre prima di tutto lo Stato di diritto.” La stessa Banca Mondiale, in due rapporti uno del 2005 e uno del 2007, ha fatto autocritica e sostiene ora che non ci sono ricette semplici e valide dappertutto per lo sviluppo: il più solenne addio al “Washington Consensus” [8], di fronte ai suoi fallimenti ormai evidenti anche ai più convinti sostenitori.
*Professore Ordinario di Matematica Finanziaria, Università di Udine e Presidente Associazione Matematica Applicata alle Scienze Economiche e Sociali
**Professore Ordinario di Economia dello Sviluppo, Università di Parma
[1]Dal 2002 al 2005 negli Usa, in soli tre anni, i mutui subprime erano cresciuti di tre volte, passando da un valore complessivo di 200 miliardi di dollari a oltre 600 (US 2006 Mortgage Market Statistical Annual, vol. 1)
[2] Le date della crisi finanziaria USA sono contrassegnate da alcuni grandi fallimenti e acute difficoltà delle banche e istituzioni finanziarie. Fino a metà agosto 2007 tutto andava bene. Verso la fine del mese e poi da settembre iniziano a giungere notizie di un crescente numero di pignoramenti di case per mutui non pagati. Il 14 settembre 2007 la crisi fa la sua prima vittima, ma non negli USA bensì in Gran Bretagna, dove il Governo deve nazionalizzare la Northern Rock, il quinto istituto inglese specializzato nei mutui immobiliari, molto esposto nel mercato americano. In dicembre, con la pubblicazioni dei conti dell’ultimo trimestre, si vede che diverse banche hanno svalutato il valore di titoli posseduti in misura eccezionale, prima tra tutte Bank of America e Citygroup. Intanto cresce l’indice della rischiosità globale del sistema finanziario americano e di diversi paesi occidentali, così che le banche cominciano a restringere il credito. Il 17 marzo c’è il tracollo di Bear Stearns, la più grande banca d’affari americana, che viene venduta con l’intervento pubblico a JP Morgan Chase ad un prezzo di 10 dollari ad azione (contro il valore di borsa di 133 dollari di pochi mesi prima), dopo che JP Morgan aveva fatto una prima offerta di due dollari ad azione! Il 10 ottobre 2008, a circa un anno dall’inizio, si può considerare scoppiata la crisi finanziaria globale, con un indice di rischiosità (Libor-Ois) giunto a venti volte quello di agosto 2007. (Federal Reserve Bank of St. Louis, Economic Synopses, n. 25, 2008)
[3] Era cresciuto alla fine degli anni Settanta con la crisi petrolifera, poi era tornato in basso per quasi tutti gli anni Ottanta tornando quindi a crescere all’inizio del decennio Novanta, ma era andato ancora giù intorno al 1997-1998.
[4] L’affare delle case con l’aprirsi di un divario crescente tra prezzi di vendita e costi di fabbricazione era iniziato già negli anni Ottanta, ma vede un fortissima accelerazione dal 2000.
[5] In un anno i pignoramenti (numero di abitazioni colpite) sono stati 1 milione e trecentomila nel corso del 2007 (l’1% di tutte le abitazioni americane), e un milione di più, ossia 2 milioni e trecentomila nel corso del 2008 (1,8% del totale del patrimonio abitativo). Facendo le proporzioni, sarebbe come se in un paese di 15 mila abitanti ci fossero 80-100 abitazioni pignorate e messe in vendita dalle banche.
[6] Il tasso di rendimento dei buoni del tesoro a dieci anni, che aveva raggiunto le due cifre all’inizio degli anni Ottanta, era poi sempre sceso andando al 4% nel 2005.
[7] Infatti il grado di indebitamento delle famiglie americane, che era stato intorno al 12% grosso modo costante negli anni Sessanta e Settanta, comincia crescere nel 1983, in perfetta sintonia con l’avvio della crescita degli squilibri distributivi, e arriva quasi al 24% (quindi il doppio) nel 2008 (U.S. Department of Commerce, Bureau of Economic Analysis: National Economic Accounts - National Income and Product Accounts; Board of Governors of the Federal Reserve System, Flow of Funds Accounts.)
[8] Ossia alla dottrina del fondamentalismo liberista sostenuta e praticata per anni.
mercoledì 29 luglio 2009
I soldi sono finiti! Guida alla politica del Governo Berlusconi.
Postato il 28 luglio 2009 da jack critico
Piuttosto che affannarci a discutere il singolo provvedimento del Governo, farei uno sforzo per capire le linee guida alla base della politica di Berlusconi, Tremonti & C.
A me appare alla base dei provvedimenti sempre l’obiettivo di OTTENERE CONSENSI, NEL BREVE PERIODO, AL MINOR COSTO POSSIBILE! Non noto quasi mai una analisi più ampia su cosa serva per dare al Paese sviluppo e un futuro migliore!
“Al minor costo possibile” perche’ i soldi sono pochi o sono finiti!
Qualche esempio?
Prendiamo il tema della cosidetta “SICUREZZA”:
- Comperare la benzina alle volanti o assumere agenti costa! E poi passerebbe sotto silenzio (che notiza sarebbe “La polizia fa il pieno alle macchine?”). Piu’ strano invece che non faccia notizia il fatto che manca la benzina o che si riducono le assunzioni.
- Le Ronde o i Militari invece costano poco o nulla! Per di piu’ se ne parla per mesi! Non servono a nulla, certo, ma che importa? Mediaticamente si ottiene il massimo risultato a costo zero!
Se ci pensate sono tanti i provvedimenti a costo nullo (se non addirittura dei tagli), fatti passare per GRANDI RIFORME senza esserlo: la riforma della scuola (che tenerezza, pero’, il maestro unico di De Amicis), i provvedimenti sui mutui dello scorso autunno, la social card,…
Inoltre e’ studiato il cercare il maggior impatto mediatico possibile (cosi’ la gente pensa: “… questo si che e’ un governo che si impegna, fa!” e per mesi interi poi non si parla d’altro).
E allora via con durissime multe a chi getta la carta per terra (non sarete mica per la sporcizia, vero?), per chi mangia il panino, per chi va in bici sul marciapiede, ecc…
Eppure il nostro Paese avrebbe bisogno si di parlare d’altro, di risanare i conti, di investire nel futuro. Le riforme che servono veramente al Paese sono quelle che magari danno effetti negli anni a venire, garantendo sviluppo, un futuro migliore, migliori aspettative di lavoro e fiducia. Ma non generano subito consenso, anzi, nel breve spesso costano soldi o costano consenso!
Vediamo allora, quando si tratta di trovare i soldi, qual’è l’orientamento del Governo:
1) Aumentare le tasse? No, non si puo’, i pochi che le pagano, le pagano gia’ altissime.
2) Lotta all’evasione? Non se ne parla! L’evasione e’ la grossa base del consenso del Governo. Lo ha dimostrato Tremonti col suo primo provvedimento “d’urgenza” (l’eliminazione della Tracciabilita’ dei Pagamenti). Piuttosto si raccolgono briciole facendo il solito vergognoso, diseducativo, ingiusto, “anonimo” condono (vedi il nuovo Scudo Fiscale, se interessa leggete qui: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001212.html ).
3) Ridurre le spese? Talvolta. Pero’ magari su servizi come la scuola o altro, mentre abbiamo i politici piu’ pagati al mondo! Hanno forse dato l’esempio riducendosi lo stipedio o parte dell’immenso costo della Politica in Italia? No! Non se ne parla. E le provincie? E tutte le assunzioni elettorali in Sicilia? E i comuni come Catania che falliscono e vanno risanati? Quelli non sono costi, sono investimenti elettorali!!
4) Combattere la corruzione? No! Scherziamo? Non e’ in agenda! Eppure tutte le statistiche dicono che siamo un Paese MOLTO CORROTTO e che tutto da noi (dai farmaci alle opere pubbliche) ha un costo ben maggiore (se non doppio o triplo) che negli altri Paesi Europei e quindi eliminare la corruzione sarebbe un modo per trovare soldi e per dare sviluppo. Invece tutti i provvedimenti dei governi Berlusconi hanno diminuto l’efficacia nella lotta alla corruzione e reso piu’ leggere e meno probabili le pene (in piena controtendenza con gli USA, per esempio). Il nostro Ministro della Giustizia poi sembra molto piu’ impegnato a difendere il “diritto alla privacy”!
5) Tassare maggiormente le rendite? Rimodulando il sistema fiscale, insomma. E’ infatti dificile che si possa sviluppare un Paese in cui il lavoro o l’innovazione sono sempre molto piu’ tassate delle rendite. No, non si puo! Costa consensi! Evidentetemente in Italia tanti vivono di rendite! Anzi, piuttosto presto si tornera’ all’antico con le Farmacie, i Notai, le assicurazioni, ecc.. annullando gli effetti delle seppur timide riforme di Bersani.
6) Fare crescere il debito, svendere il patrimonio, le spiagge, l’acqua? CERTO! Questa e’ di solito la soluzione preferita di Tremonti il quale starà gia’ ampiamente provvedendo. E’ dimostrato che in Italia si puo’ raddoppiare il debito pubblico, svendere il patrimonio dello Stato, far fallire un comune e mantenere il massimo consenso! La gente se ne frega. Magari qualcosa gli viene in tasca e tanto pagera’ qualcun’altro, i figli degli altri. Chi se ne frega dello Stato! Certo, pagheremo ogni anno miliardi di interessi (soldi in meno per servizi e investimenti, non certo per i politici, si badi bene), pazienza. Infatti se ci fate caso in Italia oramai assistiamo ad un curioso fenomeno: la destra (quella che dovrebbe essere per il “rigore” in economia) puntualmente aumenta il deficit, il disavanzo, sfascia i conti, e alla sinistra (o meglio a Prodi, Visco, Ciampi) è gia toccato un paio di volte metterli a posto (diventando così assai impopolare). Se solo non ci fossero quei noiosi dell’Europa che non ci lasciano indebitare come vorremmo e che stanno li sempre a misurarci il deficit limitando, ahime’, le possibilità di manovra di Tremonti.
In conclusione, queste sono secondo me le linee guida del Governo del Centro Destra!
NB: Va osservato pero’ che siamo in una democrazia. Possiamo noi davvero biasimare un politico che fa tutto quanto serve a generare consenso? Senza consenso un Politico va a casa! Una Politica magari più seria ma senza consenso (Prodi docet) fallisce!
Possiamo al limite chiederci come mai in Italia, al contrario di altre Nazioni, il consenso va spesso a politiche miopi e di breve periodo? In noi italiani io scorgo una combinazione di ignoranza, disinformazione, disillusione, individualismo e complicità.
Non penso pero’ si possa concludere semplicemente che abbiamo quello che ci meritiamo! Credo che i nostri atteggiamenti siano anche condizionati (se non coltivati ad arte) dal nostro pessimo sistema d’informazione.
Piuttosto che affannarci a discutere il singolo provvedimento del Governo, farei uno sforzo per capire le linee guida alla base della politica di Berlusconi, Tremonti & C.
A me appare alla base dei provvedimenti sempre l’obiettivo di OTTENERE CONSENSI, NEL BREVE PERIODO, AL MINOR COSTO POSSIBILE! Non noto quasi mai una analisi più ampia su cosa serva per dare al Paese sviluppo e un futuro migliore!
“Al minor costo possibile” perche’ i soldi sono pochi o sono finiti!
Qualche esempio?
Prendiamo il tema della cosidetta “SICUREZZA”:
- Comperare la benzina alle volanti o assumere agenti costa! E poi passerebbe sotto silenzio (che notiza sarebbe “La polizia fa il pieno alle macchine?”). Piu’ strano invece che non faccia notizia il fatto che manca la benzina o che si riducono le assunzioni.
- Le Ronde o i Militari invece costano poco o nulla! Per di piu’ se ne parla per mesi! Non servono a nulla, certo, ma che importa? Mediaticamente si ottiene il massimo risultato a costo zero!
Se ci pensate sono tanti i provvedimenti a costo nullo (se non addirittura dei tagli), fatti passare per GRANDI RIFORME senza esserlo: la riforma della scuola (che tenerezza, pero’, il maestro unico di De Amicis), i provvedimenti sui mutui dello scorso autunno, la social card,…
Inoltre e’ studiato il cercare il maggior impatto mediatico possibile (cosi’ la gente pensa: “… questo si che e’ un governo che si impegna, fa!” e per mesi interi poi non si parla d’altro).
E allora via con durissime multe a chi getta la carta per terra (non sarete mica per la sporcizia, vero?), per chi mangia il panino, per chi va in bici sul marciapiede, ecc…
Eppure il nostro Paese avrebbe bisogno si di parlare d’altro, di risanare i conti, di investire nel futuro. Le riforme che servono veramente al Paese sono quelle che magari danno effetti negli anni a venire, garantendo sviluppo, un futuro migliore, migliori aspettative di lavoro e fiducia. Ma non generano subito consenso, anzi, nel breve spesso costano soldi o costano consenso!
Vediamo allora, quando si tratta di trovare i soldi, qual’è l’orientamento del Governo:
1) Aumentare le tasse? No, non si puo’, i pochi che le pagano, le pagano gia’ altissime.
2) Lotta all’evasione? Non se ne parla! L’evasione e’ la grossa base del consenso del Governo. Lo ha dimostrato Tremonti col suo primo provvedimento “d’urgenza” (l’eliminazione della Tracciabilita’ dei Pagamenti). Piuttosto si raccolgono briciole facendo il solito vergognoso, diseducativo, ingiusto, “anonimo” condono (vedi il nuovo Scudo Fiscale, se interessa leggete qui: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001212.html ).
3) Ridurre le spese? Talvolta. Pero’ magari su servizi come la scuola o altro, mentre abbiamo i politici piu’ pagati al mondo! Hanno forse dato l’esempio riducendosi lo stipedio o parte dell’immenso costo della Politica in Italia? No! Non se ne parla. E le provincie? E tutte le assunzioni elettorali in Sicilia? E i comuni come Catania che falliscono e vanno risanati? Quelli non sono costi, sono investimenti elettorali!!
4) Combattere la corruzione? No! Scherziamo? Non e’ in agenda! Eppure tutte le statistiche dicono che siamo un Paese MOLTO CORROTTO e che tutto da noi (dai farmaci alle opere pubbliche) ha un costo ben maggiore (se non doppio o triplo) che negli altri Paesi Europei e quindi eliminare la corruzione sarebbe un modo per trovare soldi e per dare sviluppo. Invece tutti i provvedimenti dei governi Berlusconi hanno diminuto l’efficacia nella lotta alla corruzione e reso piu’ leggere e meno probabili le pene (in piena controtendenza con gli USA, per esempio). Il nostro Ministro della Giustizia poi sembra molto piu’ impegnato a difendere il “diritto alla privacy”!
5) Tassare maggiormente le rendite? Rimodulando il sistema fiscale, insomma. E’ infatti dificile che si possa sviluppare un Paese in cui il lavoro o l’innovazione sono sempre molto piu’ tassate delle rendite. No, non si puo! Costa consensi! Evidentetemente in Italia tanti vivono di rendite! Anzi, piuttosto presto si tornera’ all’antico con le Farmacie, i Notai, le assicurazioni, ecc.. annullando gli effetti delle seppur timide riforme di Bersani.
6) Fare crescere il debito, svendere il patrimonio, le spiagge, l’acqua? CERTO! Questa e’ di solito la soluzione preferita di Tremonti il quale starà gia’ ampiamente provvedendo. E’ dimostrato che in Italia si puo’ raddoppiare il debito pubblico, svendere il patrimonio dello Stato, far fallire un comune e mantenere il massimo consenso! La gente se ne frega. Magari qualcosa gli viene in tasca e tanto pagera’ qualcun’altro, i figli degli altri. Chi se ne frega dello Stato! Certo, pagheremo ogni anno miliardi di interessi (soldi in meno per servizi e investimenti, non certo per i politici, si badi bene), pazienza. Infatti se ci fate caso in Italia oramai assistiamo ad un curioso fenomeno: la destra (quella che dovrebbe essere per il “rigore” in economia) puntualmente aumenta il deficit, il disavanzo, sfascia i conti, e alla sinistra (o meglio a Prodi, Visco, Ciampi) è gia toccato un paio di volte metterli a posto (diventando così assai impopolare). Se solo non ci fossero quei noiosi dell’Europa che non ci lasciano indebitare come vorremmo e che stanno li sempre a misurarci il deficit limitando, ahime’, le possibilità di manovra di Tremonti.
In conclusione, queste sono secondo me le linee guida del Governo del Centro Destra!
NB: Va osservato pero’ che siamo in una democrazia. Possiamo noi davvero biasimare un politico che fa tutto quanto serve a generare consenso? Senza consenso un Politico va a casa! Una Politica magari più seria ma senza consenso (Prodi docet) fallisce!
Possiamo al limite chiederci come mai in Italia, al contrario di altre Nazioni, il consenso va spesso a politiche miopi e di breve periodo? In noi italiani io scorgo una combinazione di ignoranza, disinformazione, disillusione, individualismo e complicità.
Non penso pero’ si possa concludere semplicemente che abbiamo quello che ci meritiamo! Credo che i nostri atteggiamenti siano anche condizionati (se non coltivati ad arte) dal nostro pessimo sistema d’informazione.
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