martedì 28 luglio 2009

Sedna e la gravità

Fin dalla formazione dei primi atomi, sulla spinta primordiale del Big Bang, la grande nube di idrogeno ed elio primordiali aveva cominciato ad espandersi, come fa tuttora, con il risultato di una rarefazione della materia. Tuttavia, una forza immane si è opposta a questo processo: l’attrazione gravitazionale l'attrazione gravitazionale che la materia esercita su se stessa. La gravità, se pure non era in grado di arrestare l’espansione generale, è riuscita a prevalere localmente là dove la materia era più densa e quindi la forza di attrazione maggiore. Attorno alle regioni di gas più denso, altro gas veniva richiamato dall’attrazione gravitazionale col risultato di accrescere la densità locale, intensificando così la forza di gravità ed infine condensando la materia dell’universo in enormi nubi: le protogalassie. Queste erano destinate a concentrarsi ulteriormente fino a diventare Galassie, cioè fino al momento in cui la concentrazione locale di materia al loro interno aveva generato tanti nuclei, sempre più densi e più caldi, fino al punto in cui in qualcuno di essi si erano verificate le condizioni per innesco della più semplice delle fusioni termonucleari: la fusione dell’idrogeno che si trasforma in elio. Erano nate le prime stelle.
Cinque miliardi di anni fa, l’universo aveva già una decina di miliardi di anni di vita. Era già strutturato in miliardi di Galassie e la sua composizione era cambiata rispetto a quella primordiale, i cui soli elementi erano l’idrogeno e l’elio . Questo perché all’interno delle Galassie le gigantesche stelle di prima generazione avevano rapidamente concluso il loro ciclo vitale ed erano esplose dopo aver formato elementi più pesanti. Con l’esplosione esse avevano completato la nucleosintesi fino agli elementi transuranici e, proiettando buona parte della propria materia nello spazio circostante, avevano arricchito la composizione chimica del gas interstellare.

Questo processo non si era arrestato alla prima generazione di stelle. Quelle di grande massa continuavano a vivere e a morire in spettacolari esplosioni di supernova e l’universo si arricchiva di elementi pesanti. La nostra Via Lattea, come pure le altre Galassie, aveva già assunto, grazie alla concentrazione gravitazionale, l’aspetto lenticolare simile a quello attuale. La maggior parte della sua materia era concentrata su un disco, o meglio, su una spirale appiattita. In particolare, come le altre galassie a spirale, aveva il bulbo centrale rigonfio, splendente di stelle antiche, mentre i bracci di spirale, densi di stelle vecchie e giovani, erano ricchi di “materia prima” ancora utilizzabile per la nucleosintesi: gas interstellare, già arricchito con gli elementi forniti da antiche e recenti esplosioni stellari, opaco o splendente a seconda della sua densità e temperatura.

Lungo queste spirali, il gas continuava a concentrarsi grazie alla gravità, e ciò permetteva la formazione di nuove stelle, per collasso gravitazionale locale di qualche nube più densa. Così, in quell’epoca, in una regione del disco situata nel cosiddetto Braccio Spirale Locale (che oggi comprende le Pleiadi e la Nebulosa di Orione) a 25000 anni-luce dal Nucleo Galattico (più o meno a metà della distanza tra il centro e la periferia della Galassia) c’era una nube di gas dal diametro di qualche anno-luce. La nube era un pò più densa del gas circostante, e probabilmente aveva cominciato da tempo il lento processo di concentrazione gravitazionale. È molto probabile che anche non lontano da qui, come in tanti altri punti della Galassia, ci sia stata una supergigante rossa (ultimo stadio evolutivo di una stella massiccia) che è esplosa col duplice risultato: di aggiungere altri elementi pesanti allo spazio circostante e di comprimere con la spinta dell’esplosione la nube di gas, accelerandone il collasso gravitazionale.

Come tutti gli oggetti celesti, questa nube non era immobile rispetto al resto dell’universo. Le sue varie parti presentavano moti più o meno vorticosi governati essenzialmente dalla gravità locale e dalla pressione interna, legata alla temperatura, che dai valori iniziali pressoché nulli era cresciuta con l’aumentare della densità. Nel suo insieme, la nube presentava un certo moto rotatorio rispetto ai corpi esterni. Cadendo su se stessa attorno al suo centro di gravità e riducendo il proprio volume, questo movimento rotatorio dominante diveniva sempre più percettibile rispetto ai singoli moti locali e sempre più rapido, fino a causare l’appiattimento della nube su un disco rotante, con un corpo centrale sempre più pesante per l’afflusso continuo di materia.
Non tutta la materia del disco però era destinata a cadere su quel corpo centrale che sarebbe presto diventato il nostro Sole. Per un corpo che ruota attorno ad un centro di gravità ad una data distanza, esiste una velocità in cui l’attrazione è compensata dalla forza centrifuga. A questa velocità il corpo segue un’orbita stabile intorno all’attrattore (velocità orbitale), mentre i corpi più lenti cadono verso di esso, e quelli più veloci se ne allontanano. Così, mentre il corpo centrale cresceva e cominciava a scaldarsi fino al punto di diventare una stella, nel grande disco intorno ad esso avveniva una selezione che privilegiava i corpi che avevano la velocità “giusta” rispetto alla loro distanza dal corpo centrale. Non solo, ma l’attrazione gravitazionale reciproca dei corpi che componevano il disco facilitava l’accrescimento dei corpi maggiori che inglobavano quelli minori: aveva luogo la formazione dei pianeti.

Oggi, a distanza di quasi cinque miliardi di anni, i pianeti che sono ancora in orbita sono stabili. Lo spazio dell’odierno sistema solare è molto più pulito rispetto a quando il sistema era giovane e il cielo era pieno di detriti, massi, meteoriti, planetoidi, pianetini.
L’appiattimento del disco protoplanetario e le collisioni che hanno operato la selezione il cui risultato oggi permette l’esistenza della Terra e della vita, è stato particolarmente efficace per la regione molto prossima al Sole e cioè la regione in cui era densa la materia collassata e il moto di rivoluzione intorno alla protostella era più rapido. Secondo la nota legge di Keplero , la velocità orbitale diminuisce all’aumentare della distanza dal centro: vale a dire, il moto orbitale è tanto più lento quanto più ci si allontana dal Sole.

A distanze relativamente più grandi, oltre l’orbita di Nettuno , i moti sono più lenti, la densità dei corpi è minore, anche se forse c’è ancora, dispersa in uno spazio enorme, una grande quantità di materia sotto forma non solo di gas interstellare, ma anche di corpi solidi, rocciosi. Ci sono indizi che suggeriscono l’ipotesi dell’esistenza della nube di Oort , cioè di un enorme guscio sferico di detriti, gas e polveri, resto remoto della nostra nube-madre primordiale, che circonda il Sistema Solare.

A grandi distanze non c’è stato un forte processo di accrescimento per collisioni come vicino al Sole. Se vi sono pianeti, essi sono mediamente più piccoli e più difficili da vedere, anche perché scarsamente illuminati da un Sole molto lontano: oltre cinquanta volte di più della distanza Sole-Terra. Lo stesso Plutone è più piccolo della Luna, e il corpo appena scoperto, Sedna ( n. 39) , è ancora più piccolo e tre volte più lontano. Perché chiamarlo Sedna, col nome di una dea del mare? Forse perché la dea è esquimese, e il mare artico richiama l’immagine di spazi freddi e desolati, con un sole fioco. Mai così fioco come deve apparire il Sole dalla superficie scura di quel nostro compagno lontano.

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