giovedì 30 luglio 2009

Le origini reali della crisi globale

Scritto da Flavio Pressacco* e Gilberto Seravalli**
Per gentile concessione degli autori pubblichiamo la versione italiana di un “paper”che apparirà su “Transition Studies Review”

1. Introduzione

In questo contributo presentiamo un’interpretazione della crisi economico-finanziaria che considera cruciale l’argomento della distribuzione del reddito, un argomento invece tralasciato dalle interpretazioni più diffuse. In effetti, se ci si chiede che cosa ci sia dietro il disastro dei mutui “subprime” e se non si resta alla superficie delle cose, apparirà ben chiaro che le cause vere della crisi risalgono alla distribuzione del reddito, ossia al fortissimo aumento della diseguaglianza tra ricchi e poveri. Questa considerazione è fondamentale. Se la crisi fosse solo di natura finanziaria, allora potrebbero bastare (forse) le politiche di aggiustamento finanziario che sono già in atto. Se invece la crisi dipende da cause più profonde, e nulla è più profondo delle disuguaglianze distributive, allora la cura dovrà essere anch’essa ben più profonda (e difficile). La crisi, cioè, sarà lunga e pesante fino a che non verranno ridotte tali disuguaglianze, un compito molto più impegnativo rispetto all’intervento pubblico di soccorso alle istituzioni finanziarie.

2. I mutui “subprime”

Partiamo quindi dalla domanda: da dove nasce la crisi? La risposta più frequente “dai mutui subprime” è corretta ma incompleta.
Occorre intanto chiarire che cosa sono i mutui subprime. Sono prestiti a lunga scadenza concessi per acquistare immobili e garantiti da ipoteca. Sono subprime (di ultima categoria) perché le banche hanno concesso i mutui anche a famiglie “non sicure” sapendo che probabilmente non sarebbero state in grado di ripagare il prestito per intero; lo hanno fatto perché vi era l’immobile a garanzia in tempi di continuo aumento del prezzo delle case. Se i prezzi delle case fossero sempre saliti le banche avrebbero potuto guadagnarci, anche quando i mutuatari avessero smesso di pagare le rate, vendendo la casa dopo il pignoramento ad un prezzo maggiore del valore del mutuo concesso. Inoltre le banche si sono tutelate trasferendo, almeno una parte del rischio di insolvenza ad altre banche, istituzioni e fondi attraverso operazioni di cartolarizzazione usando i “derivati”. La cartolarizzazione consiste nell’impacchettare questi crediti rischiosissimi (i mutui per le banche sono crediti) mescolandoli ad altri di normale rischiosità e vendendoli (in una confezione unica) ad altri intermediari. Questi a loro volta vengono ancora impacchettati con altri e così via, anche fino a tre o quattro passaggi. Fin qui niente di grave, in teoria. Il meccanismo consente di suddividere a cascata, tra tante banche e tanti soggetti, i rischi che altrimenti, gravando su una banca sola, impedirebbero a questa di concedere mutui a chi non ha i soldi per comprare la casa. In sé, quindi, il meccanismo avrebbe potuto dare un buon risultato. Ma che cosa è successo a un certo punto? E’ successo che sono fallite le istituzioni finanziarie che avevano concesso una gran quantità di mutui di questo tipo [1], ed il fallimento si è esteso ad altre istituzioni finanziarie per contagio o per coinvolgimento indiretto, dal momento che, innescata la crisi, le banche hanno smesso di prestarsi soldi tra loro [2]. Ovviamente per determinare una crisi di queste proporzioni non si è trattato solo di qualche isolato errore ma di una strategia sistematica e perversa perseguita da alcuni dei maggiori intermediari finanziari degli Stati Uniti e, in parte, imitata anche da istituzioni europee.
Ma quali errori sono stati fatti e perché è stata una strategia perversa? Anzitutto si è trattato di “avidità” per sete di arricchimento da parte dei dirigenti delle banche e delle istituzioni finanziarie e, anche, da parte dei clienti che hanno comprato i derivati. Infatti la cartolarizzazione, specie quando è di secondo, terzo, quarto livello, nasconde il reale contenuto di rischio dei titoli che si comprano mentre promette un alto rendimento “garantito” da certificazioni (che sono state molto disinvolte, per usare un termine blando) degli istituti di rating. I dirigenti delle banche quindi vedevano aumentare i loro compensi (che dipendevano in parte rilevante dalla massa di titoli che riuscivano a vendere) e chi comprava questi titoli godeva di alti rendimenti. Tutti scordavano o volevano scordare che si trattava di titoli ad alto rischio basati su mutui ad esigibilità non sicura.
Le agenzie di rating e tutti i soggetti coinvolti in questo processo, in realtà, potevano sostenere, come hanno a lungo sostenuto, che l’alto rischio non c’era perché, come abbiamo detto, il prezzo delle case continuava ad aumentare. Negli Usa, l’indice del prezzo delle case, che si era sempre mantenuto intorno al medesimo livello [3], verso il 2001 aveva cominciato a crescere ad un ritmo mai visto dalla fine della guerra. Non solo, ma la crescita non si era affatto arrestata dopo 4 o 5 anni, come avveniva sempre. Il ragionamento, quindi, è stato questo: dopo vent’anni di grande crescita economica (che in effetti si è registrata negli USA) si è accumulato un grande bisogno di nuove case: il prezzo sale perché la domanda supera l’offerta. Se con i mutui si continua a sostenere la domanda, il prezzo delle case continuerà a salire. In realtà, proprio nel 2007 il prezzo delle case non solo non sale più ma comincia a scendere molto in fretta. Succede ciò che, prima o poi, doveva accadere ma accade molto prima di quanto si pensasse. Quasi nessuno aveva voluto tener conto del fatto che, mentre il prezzo delle case saliva, non saliva affatto il costo di costruzione [4]: era un affare con straordinari guadagni e nessuno aveva interesse che si divulgassero timori (che pure da più parti e ripetutamente furono segnalati). Ma la crescita dell’offerta di case, spinta da queste eccezionali opportunità di profitto, supera ad un certo punto la domanda anche se questa, sostenuta dai mutui, cresce in fretta. Quindi, abbastanza presto, i prezzi delle case non crescono più ed iniziano a scendere. Un caso esemplare di scoppio di una bolla!



3. Alto rischio

Quale è stato dunque il perverso meccanismo? I mutui subprime davano luogo ad attivi finanziari ad alto rischio e questa realtà era facilmente nascosta da chi aveva un interesse egoistico di guadagni enormi. All’obiezione della rischiosità dei mutui potevano rispondere che, poiché i prezzi delle case aumentavano, questi erano garantiti. Se si obiettava invece che i prezzi delle case prima o poi sarebbero scesi, come era sempre avvenuto, potevano sostenere che il rischio era stato suddiviso mediante i derivati. Questo intreccio di due argomenti che sembravano in grado di rispondere a tutti i dubbi, era dunque un’arma efficace per nascondere la verità fino a quando, nel 2007, i pignoramenti delle case per mutui non pagati raddoppiano e, nello stesso tempo, il prezzo delle case comincia a scendere. A quel punto avviene quello che pochi erano stati così onesti da prevedere: tutti e due gli argomenti cadevano insieme (tecnicamente si direbbe che erano fortemente anzi quasi perfettamente correlati). A quel punto diventa chiaro a tutti che il meccanismo dei mutui subprime si basava su un’operazione di “rimescolamento” come quella dei rifiuti tossici che vengono mescolati con rifiuti normali per evitare di pagare i maggiori oneri dello smaltimento. La somiglianza fra le due operazioni è tale che i pacchetti di crediti cartolarizzati contenenti quantità non decifrabili di crediti rischiosissimi sono detti in gergo toxic assets, ossia titoli tossici.
Quanto grave è stata l’intossicazione? Il centro studi sulle case dell’Università di Harvard (Joint Center for Housing Studies of Harvard University, The State of the Nation’s Housing 2008) ha stimato che la percentuale di mutui subprime sul totale mutui immobiliari è cresciuta dall’8%, il suo livello normale, ad un patologico 22%, raggiunto in soli quattro anni, dal 2003 alla fine del 2006. Dagli ultimi mesi del 2006, e poi a valanga, anticipando e quindi accompagnando la crisi, questa quota del 22% è poi scesa riducendosi a quasi zero. Inoltre, se si analizzano i dati riportati da Realty Trac Presse Releases of “U.S. Foreclosure Market Report”, si osserva che, negli USA nel primo trimestre del 2007, il numero di abitazioni colpite da pignoramento per mutui non pagati sono più di 200 mila e crescono continuamente fino a 800 mila a trimestre alla fine del 2008 [5]. Adesso a posteriori, ma c’è stato chi come Stiglitz l’aveva detto anche prima della crisi, mettendo insieme tutti questi dati possiamo concludere che il sistema finanziario americano poteva sostenere 200 miliardi di dollari di mutui subprime, l’8% del totale mutui, e circa 200 mila pignoramenti a trimestre. Il valore dei mutui subprime che ha scatenato la valanga, quindi, è intorno 400 miliardi di dollari e un numero medio di pignoramenti di 600 mila a trimestre. Il punto è che queste cifre indicano l’entità solo dell’avvio della valanga, mentre nessuno ancora adesso è in grado di dire quanto grande è stata e sarà la valanga alla fine. Il meccanismo perverso che si è innescato si può capire facendo attenzione proprio alla logica della suddivisione del rischio attuata con i derivati e considerando quale è il suo aspetto critico. Se, poniamo, un pacchetto finanziario del valore di 100 contiene il 20% di mutui di bassa qualità, ed è a sua volta impachettato con altri attivi finanziari della stessa natura, questo derivato di “secondo livello” conterrà solo il 4% di attivi molto rischiosi. Per questa ragione, guardando solo al rischio subprime, tutti avevano motivo di dire che i rischi effettivamente assunti erano bassi. Si trascurava, colpevolmente, di vedere che questo meccanismo aveva incoraggiato le istituzioni finanziarie ad aumentare di molto il loro grado di indebitamento in rapporto al capitale proprio. Supponiamo che una banca o istituzione finanziaria, per restare al nostro semplice esempio, con un capitale proprio pari al 3% del suo indebitamento, si sia indebitata avendo venduto il derivato che contiene “solo” il 4% di attivi molto rischiosi. Se questa quota per quanto piccola non viene onorata, ciò è sufficiente per far fallire questa banca perché tale perdita supererà il suo capitale. In tal modo, ciò che guardando solo al contenuto del derivato appare poco rischioso, in realtà comporta che tutto il derivato (100 e non solo 4) è in realtà rischioso.

4. Non solo crisi finanziaria

Poniamoci allora un’altra domanda: per quale motivo qualcuno dovrebbe concedere e ha in effetti concesso su larga scala prestiti di questo tipo? Apparentemente infatti nessuno avrebbe interesse a prestare il proprio denaro a chi quasi certamente non sarà in grado di restituirlo. Nei film di fantascienza in voga negli anni Cinquanta, comportamenti palesemente irrazionali di persone che ricoprivano importanti ruoli istituzionali e considerate pienamente affidabili si spiegavano con l’intrusione nei loro cervelli di misteriosi alieni, al fine di ridurre in schiavitù il genere umano. Nel nostro caso non c’é bisogno di una spiegazione fantascientifica: si è trattato dell’operato fraudolento e truffaldino di una finanza degenerata, che ha a sua volta approfittato di lacune, incapacità o addirittura complicità delle autorità di controllo sulle attività finanziarie. Insomma una ben orchestrata attività di persone tese al proprio egoistico tornaconto facilitata dalla moderna tecnologia informatica e favorita dall’inadeguatezza di chi doveva valutare e sorvegliare.
Questo è vero, ma non è tutta la storia, né la parte decisiva.

Consideriamo il seguente ipotetico scenario, per un aspetto cruciale diverso da quello che si è realmente avuto. Dopo vent’anni di forte crescita economica, negli USA si era accumulato un grande bisogno di nuove case, per cui - mentre il prezzo delle case cresceva - non cresceva altrettanto il costo di fabbricazione. Costruire e vendere case cominciava così a diventare un grande affare, che d’altra parte incrociava un bisogno sociale effettivo. Poiché il tasso di interesse stava calando [6], le famiglie, specie quelle del ceto medio e medio-basso che avevano il maggiore bisogno di case, cominciavano a vedere conveniente spostare le spese dai consumi correnti e dall’investimento in buoni del tesoro verso l’acquisto della casa, aiutati da mutui “normali” a tassi di interesse calanti. La domanda di case poteva crescere e trainare l’offerta di case e tutto poteva andar bene, senza aumento di mutui subprime sopra la soglia sostenibile dal sistema finanziario. Chiediamoci così adesso in che cosa questo scenario differisce da quello che si è effettivamente avuto. La differenza è nella capacità delle famiglie del ceto medio e medio-basso di avere soldi a sufficienza per comprare case. Questa é quindi la causa più profonda e vera della crisi: le famiglie del ceto medio e medio-basso, ad un certo punto, non avevano più abbastanza denaro.



Fonte: U.S. Department of Commerce, Bureau of Economic Analysis: National Economic Accounts – National Income and Product Accounts, Board of Governors of the Federal Reserve System, Flow of Funds Accounts

Che cosa si è fatto allora? Per consentire di cogliere lo storico affare delle case e per sostenere la domanda e quindi la crescita del reddito di tutto il sistema economico USA, si è permesso e spinto in tutti i modi il complesso meccanismo dei mutui subprime. Si è verificato, insomma, quello che succede inevitabilmente nel capitalismo qualora esso assuma la versione che, con sbrigativa ma efficace connotazione etica, si dice “avida”.

5. Il capitalismo di mercato ed i suoi difficili equilibri

Cerchiamo di comprendere meglio; e a questo scopo consideriamo una premessa. Per evitare vuoti di domanda aggregata che conducono ad effetti negativi e indesiderati di disoccupazione e rottura della coesione sociale, il sistema economico deve provvedere un volume di consumi, di investimenti e di spesa pubblica ad un livello complessivo sufficientemente elevato. Queste tre componenti (consumi, investimenti, spesa pubblica) non sono però indipendenti. La spesa pubblica deve essere equilibrata da entrate fiscali per non compromettere gli investimenti, ma la tasse non devono essere troppo alte per non compromettere i consumi. Gli investimenti privati infatti presuppongono attese di consumi sufficienti ad esaurire il prodotto ottenuto dalla produttività degli investimenti stessi. Possiamo sintetizzare dicendo che il capitalismo, coniugato con un sistema di democrazia politica che garantisca libertà economiche, ma anche libertà civili e politiche, è un sistema molto sofisticato in cui i sentieri di evoluzione delle quantità fondamentali che ne garantiscono l’equilibrio sono stretti. Insomma il capitalismo è permanentemente sull’orlo del disequilibrio e il ruolo della politica economica sarebbe quello di garantire che, al verificarsi di disequilibri indesiderati, si apprestassero immediati ed opportuni rimedi. Una componente fondamentale di tali equilibri è l’armoniosa distribuzione dei redditi disponibili per i cittadini. Per poter consumare i cittadini debbono godere di redditi sufficientemente elevati. I salari quindi non possono restare troppo indietro rispetto ai profitti. Profitti molto alti per un verso rendono “potenzialmente” conveniente investire, perché gli investimenti renderebbero bene, ma per un altro verso impediscono effettivamente gli investimenti perché la capacità produttiva che si creerebbe darebbe luogo ad un aumento della quantità di prodotti che non potrebbero essere venduti. Gli alti profitti, quindi, resterebbero solo virtuali e non potrebbero essere realizzati. Questa difficoltà viene fortemente aggravata quando aumentano, insieme ai profitti, anche i redditi dei più ricchi a scapito dei redditi medi e medio bassi. La propensione alla spesa (anche per beni durevoli, come le case), ovvero la percentuale del reddito destinato al consumo e all’investimento in abitazioni, è infatti decrescente al crescere del reddito. Ne consegue che la spesa sarà tanto più alta quanto più egualitaria è la distribuzione della ricchezza e viceversa. A sua volta alti consumi spingono verso alti investimenti e, ove questi siano efficientemente destinati all’ampliamento della capacità produttiva del sistema, rendono a loro volta possibile sostenere con la produzione il futuro livello della spesa. Tanto maggiore invece è la disuguaglianza, tanto minori le spese, tanto minori gli investimenti e tanto minori i redditi ed il benessere futuri.

6. La distribuzione del reddito

Premesso questo, osserviamo che, per un lungo periodo, dal dopoguerra (1945) fino all’inizio degli anni Ottanta, l’equilibrio economico del sistema capitalistico occidentale e del suo centro negli USA si resse su una distribuzione dei redditi relativamente equilibrata (capitalismo New Deal o Roosevelt-Keynes). Come fa vedere Emmanuel Saez (Striking it Richer: The Evolution of Top Incomes in the United States, Working Paper University of California, Department of Economics, 549 Evans Hall #3880, Berkeley, CA, 94720, 2008), negli USA dalla fine della Guerra al 1983 la quota del reddito nazionale appartenente al 10% più ricco della popolazione era rimasta sempre intorno al 34% (con piccole oscillazioni di un punto, un punto e mezzo in più o in meno). Dall’avvento di Reagan (1981) la situazione dei redditi cambiò bruscamente: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma anche sia pure in minor misura in Europa, crebbe la disuguaglianza. E’ qui utile tenere presente la successione delle date e dei Presidenti USA: Ronald Reagan (vice George Bush) 1981-1989, George Bush (vice Dan Quayle) 1989-1993, Bill Clinton (vice Al Gore) 1993-2001, George W. Bush (vice Dick Cheney) 2001-2009. In questi quasi trent’anni, la quota del reddito del 10% dei più ricchi è cresciuta enormemente. Con Reagan tale quota passa dal 34% (1981) al 41% (1989); con Bush padre arriva al 45% (1993), con Clinton giunge al 47% ma poi torna al 44% (fine 2001), infine con Bush figlio torna a crescere rapidamente per giungere al 50% già nel 2007. Il fatto assai importante è che questo livello della ricchezza relativa dei più ricchi non trova precedenti se non nel 1929, alla vigilia della “grande crisi”. In altre parole, negli ultimi trent’anni vi è stato negli USA un continuo processo di aumento delle disuguaglianze, che ha avuto una sola pausa con Clinton, e che ha riprodotto le condizioni di disuguaglianza di reddito e ricchezza vigenti agli inizi del XX secolo. Ciò si é ottenuto attraverso una politica fiscale a vantaggio degli alti redditi, con abbassamento delle aliquote marginali ed altri vantaggi fiscali sui percettori di rendite finanziarie e, più in generale, con una organizzazione sociale, di pensiero e dei rapporti di forza tendente a privilegiare il ruolo dell’imprenditore, delle imprese e del lavoro autonomo ed a sminuire quello dei lavoratori dipendenti pubblici e privati.



Fonte: Emmanuel Saez, Striking it Richer: The Evolution of Top Incomes in the United States, Working Paper University of California, Department of Economics, 549 Evans Hall, #3880, Berkeley, CA, 94720,2008.

Tale aumento delle disuguaglianze, poi, ha colpito soprattutto il ceto medio. Il 40% della popolazione con redditi medi e medio bassi poteva contare sul 30% del reddito nazionale negli anni Sessanta, una cifra che si riduce sempre e giunge al 23% nel 2007. Nello stesso tempo i ricchi più ricchi (il 5% delle popolazione in testa alla graduatoria) raggiunge il medesimo 23% del reddito nazionale, partendo dal 16% degli anni Sessanta (U.S. Bureau of Census). E l’1% a più alto reddito raggiunge addirittura il 17,4% della quota del reddito totale, esclusi i redditi da capitale, esattamente come nella media degli anni 20 dello scorso secolo.(T.Piketty ed E.Saez, Income inequality in the United States, 1913-1998 Quarterly Journal of Economics CXVIII,2003 pp.1-39 aggiornato dal sito http://elsa.berkeley.edu/saez/). Per contro sono state sensibilmente rimodellate a favore dei più ricchi le aliquote fiscali. Dal 1979 al 2006 l’aliquota più alta sui redditi da lavoro è passata dal 70 al 35%, quella più alta sui profitti aziendali dal 48 al 35% e quella più alta sui redditi di capitale di lungo periodo dal 28 al 15%. (Urban Brookings Tax Policy Center, http://taxpolicycenter.org/taxfacts /tfdb/tftemplate.cfm. citati da P.Krugman: The conscience of a liberal. Norton e Co, New York-London 2007).
Inevitabile conseguenza di questa radicale trasformazione sarebbe stata la caduta del livello dei consumi e di conseguenza degli investimenti privati non speculativi, da cui carenza di domanda effettiva, disoccupazione, perdita della coesione sociale e verosimilmente anche della pace sociale. E’ qui che si inserisce il ruolo di supporto che fu affidato (inevitabilmente) alla finanza. Il suo compito fu quello di sostenere in modo artificiale la capacità di spesa dei ceti medio-bassi, per consentire loro di sostituire la spesa basata sul reddito corrente con spesa basata sul debito (dunque uso di carte di credito a rischio di insolvenza e mutui subprime[7]). Parallelamente, questo assetto consente alle classi più agiate, proprio grazie alla finanza, di sostenere i propri alti redditi connessi alle speculazioni edilizie e finanziarie, che sarebbe più opportuno chiamare col loro vero nome: prelievo anticipato di presunti (forse inesistenti) redditi futuri. Possiamo chiamarlo un equilibrio artificiale di economia reale sostenuto da finanza creativa ovvero fraudolenta, perfettamente funzionale al sistema. Tale equilibrio ha retto per qualche tempo ma era destinato inevitabilmente a terminare con una rovinosa rottura.
Il giudizio sul passato, dunque, deve considerare la finanza non corpo deviato del capitalismo Reagan-Bush, ma come esecutore necessario e coerente, per quanto magari troppo zelante e/o troppo avido, di questa versione del capitalismo. Per quanto riguarda i giudizi sul presente, ne deriva che la crisi, apparentemente di tipo finanziario, é destinata in tempi rapidi a propagarsi all’economia reale, come sta già avvenendo. Ciò, tuttavia, non succede solo per effetto del restringimento della capacità e volontà delle banche di mantenere il credito alle imprese. La crisi dell’economia reale sarà profonda e lunga perché essa nasce, in ultima analisi, dalla stessa economia reale, come aumento insostenibile degli squilibri distributivi. Ne consegue ancora che la crisi non potrà essere contrastata esclusivamente da provvedimenti di politica monetaria e di governo della finanza. Tali provvedimenti per la gran parte sono stati già presi, ma purtroppo si dimostrano inefficaci. Ancora nascosta dall’aspetto finanziario è la vera faccia della crisi, cioè quella dell’economia reale, quella legata alla carenza di domanda aggregata. E non si tratta di una carenza congiunturale. E’ una carenza strutturale nelle condizioni date di grave disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Pertanto, fino a che non si torni ad una distribuzione del reddito più equilibrata, la crisi non potrà essere efficacemente battuta. Vanno urgentemente ripristinate, mediante provvedimenti di politica fiscale, le condizioni di riequilibrio nella distribuzione dei redditi che consentono uno sviluppo non finanziariamente drogato dell’economia. Va dunque ripristinato il capitalismo nella sua versione new deal.

7. La nuova amministrazione USA

Su questo punto Barak Obama sembra avere le idee chiare: abbassare le tasse al 95% degli americani con reddito annuo sotto i 250 mila dollari e, sottinteso, alzarle agli altri; estendere a tutti l’assistenza sanitaria gratuita oggi garantita solo agli over 65 (gli altri si pagano un’assicurazione oppure gliela paga l’azienda come benefit contrattuale); investire nell’energia delle fonti alternative al petrolio e nella scuola.
In Europa invece (con la parziale eccezione di Gordon Brown) si é in forte ritardo, prima di tutto politico e culturale, per quanto si vada finalmente nella giusta direzione con il varo del piano di rilancio della domanda nell’Unione Europea (per quanto timido), oggetto dell’accordo Sarkozy-Merkel. Non è vero infatti che il ragionamento sulla distribuzione dei redditi riguardi solo gli USA. Secondo dati Oecd (Dataset: Income distribution – Inequality, november 2008), in Germania, dal 1996 al 2006 la differenza della crescita tra i redditi del 20% più ricco della popolazione e i redditi medi è stata ancora più forte che negli USA, e l’Italia è terza in questa graduatoria (dopo Germania e USA) e davanti a Francia, Giappone e Regno Unito. D’altra parte, già nel 2006, la percentuale di famiglie povere, che avevano meno del 60% del reddito mediano, molto alta negli USA (quasi alla pari con il Messico!, un quarto di tutta la popolazione) era del 20% in Italia (alla pari di Grecia, Portogallo, Spagna, Polonia), mentre era del 14% in Francia e solo del 10% in Danimarca e Svezia.

Tornando agli USA, le prime mosse di Obama appaiono di difficile interpretazione. Da una parte, come si è appena detto, il programma economico contiene aspetti positivi adeguati alla natura della crisi, sia per volume di risorse impiegate che per gli aspetti qualitativi orientati a proporre uno sviluppo sostenibile mediante sostegno alle energie pulite, alle produzioni non inquinanti (in una parola a quello che viene chiamato green new deal). Dall’altra, però, lo staff economico che ha nominato comprende persone compromesse con il liberismo fondamentalista. Timothy Franz Geithner, nominato Ministro del Tesoro, è stato dal 1998 al 2001 sottosegretario al Tesoro per gli Affari Internazionali. Lì rispondeva a Robert Rubin, allora Ministro del Tesoro, e a Lawrence Summers. Geithner fu poi da 2001 al 2003 al Fondo Monetario Internazionale come Direttore del (famigerato, nel senso del fondamentalismo liberista) Policy Development and Review Department. Lawrence Henry Summers, nominato Capo del Consiglio Economico Nazionale, fu dal 1991 al 1993 Chief Economist alla Banca Mondiale. Tra il 1999 ed il 2001 succede a Rubin come Ministro del Tesoro. Si nota inoltre una grande e clamorosa assenza, quella del Nobel Joseph Stiglitz. In un articolo-lettera a Obama sul News Week, Hirsch osserva: “Incredibilmente, non hai voluto assumere il maggiore tra i pochi economisti che avevano previsto la crisi finanziaria e le cui idee [sulla inefficienza del “libero mercato”] – che gli hanno valso il Nobel per l’economia – sono probabilmente le più importanti per aggiustare l’economia globale.” Egli è assente nelle recenti nomine – nonostante abbia sostenuto Obama ben prima del trio Rubin-Summers-Geithner – forse perché il trio è da sempre suo nemico: Summers ha tramato per (o almeno non ha fatto nulla per evitare) il licenziamento-dimissioni di Stiglitz a capo degli economisti della Banca Mondiale (aprile 2000) in polemica con il fondamentalismo liberista della Banca Mondiale stessa.
Tuttavia, negli USA (a differenza che nella nostra provinciale Italia), le cose cambiano in fretta. Il padre del neoliberismo, Milton Friedman, prima di morire, nel 2002 dichiarò in un’intervista a proposito della transizione in Russia: “Appena dopo il crollo dell’Unione Sovietica, cominciarono a chiedermi che cosa la Russia dovesse fare, e io dicevo: privatizzare, privatizzare, privatizzare. Avevo torto. Joe (Joseph Stigltiz) aveva ragione. Occorre prima di tutto lo Stato di diritto.” La stessa Banca Mondiale, in due rapporti uno del 2005 e uno del 2007, ha fatto autocritica e sostiene ora che non ci sono ricette semplici e valide dappertutto per lo sviluppo: il più solenne addio al “Washington Consensus” [8], di fronte ai suoi fallimenti ormai evidenti anche ai più convinti sostenitori.

*Professore Ordinario di Matematica Finanziaria, Università di Udine e Presidente Associazione Matematica Applicata alle Scienze Economiche e Sociali

**Professore Ordinario di Economia dello Sviluppo, Università di Parma

[1]Dal 2002 al 2005 negli Usa, in soli tre anni, i mutui subprime erano cresciuti di tre volte, passando da un valore complessivo di 200 miliardi di dollari a oltre 600 (US 2006 Mortgage Market Statistical Annual, vol. 1)

[2] Le date della crisi finanziaria USA sono contrassegnate da alcuni grandi fallimenti e acute difficoltà delle banche e istituzioni finanziarie. Fino a metà agosto 2007 tutto andava bene. Verso la fine del mese e poi da settembre iniziano a giungere notizie di un crescente numero di pignoramenti di case per mutui non pagati. Il 14 settembre 2007 la crisi fa la sua prima vittima, ma non negli USA bensì in Gran Bretagna, dove il Governo deve nazionalizzare la Northern Rock, il quinto istituto inglese specializzato nei mutui immobiliari, molto esposto nel mercato americano. In dicembre, con la pubblicazioni dei conti dell’ultimo trimestre, si vede che diverse banche hanno svalutato il valore di titoli posseduti in misura eccezionale, prima tra tutte Bank of America e Citygroup. Intanto cresce l’indice della rischiosità globale del sistema finanziario americano e di diversi paesi occidentali, così che le banche cominciano a restringere il credito. Il 17 marzo c’è il tracollo di Bear Stearns, la più grande banca d’affari americana, che viene venduta con l’intervento pubblico a JP Morgan Chase ad un prezzo di 10 dollari ad azione (contro il valore di borsa di 133 dollari di pochi mesi prima), dopo che JP Morgan aveva fatto una prima offerta di due dollari ad azione! Il 10 ottobre 2008, a circa un anno dall’inizio, si può considerare scoppiata la crisi finanziaria globale, con un indice di rischiosità (Libor-Ois) giunto a venti volte quello di agosto 2007. (Federal Reserve Bank of St. Louis, Economic Synopses, n. 25, 2008)

[3] Era cresciuto alla fine degli anni Settanta con la crisi petrolifera, poi era tornato in basso per quasi tutti gli anni Ottanta tornando quindi a crescere all’inizio del decennio Novanta, ma era andato ancora giù intorno al 1997-1998.

[4] L’affare delle case con l’aprirsi di un divario crescente tra prezzi di vendita e costi di fabbricazione era iniziato già negli anni Ottanta, ma vede un fortissima accelerazione dal 2000.

[5] In un anno i pignoramenti (numero di abitazioni colpite) sono stati 1 milione e trecentomila nel corso del 2007 (l’1% di tutte le abitazioni americane), e un milione di più, ossia 2 milioni e trecentomila nel corso del 2008 (1,8% del totale del patrimonio abitativo). Facendo le proporzioni, sarebbe come se in un paese di 15 mila abitanti ci fossero 80-100 abitazioni pignorate e messe in vendita dalle banche.

[6] Il tasso di rendimento dei buoni del tesoro a dieci anni, che aveva raggiunto le due cifre all’inizio degli anni Ottanta, era poi sempre sceso andando al 4% nel 2005.

[7] Infatti il grado di indebitamento delle famiglie americane, che era stato intorno al 12% grosso modo costante negli anni Sessanta e Settanta, comincia crescere nel 1983, in perfetta sintonia con l’avvio della crescita degli squilibri distributivi, e arriva quasi al 24% (quindi il doppio) nel 2008 (U.S. Department of Commerce, Bureau of Economic Analysis: National Economic Accounts - National Income and Product Accounts; Board of Governors of the Federal Reserve System, Flow of Funds Accounts.)

[8] Ossia alla dottrina del fondamentalismo liberista sostenuta e praticata per anni.

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