Autore: Guido Calogero
Luogo e data e di redazione: Roma, 21 aprile 1940
Prima edizione a stampa: G. C., Difesa del liberalsocialismo, Ediz. Roma, 1945 (p. 64)
Fonte: Idem
Come ricorda Guido Calogero, il Manifesto del liberalsocialismo, qui riprodotto integralmente, riassumeva le discussioni e i dibattiti avvenuti fra il 1938 e il 1940 sulla libertà e la giustizia sociale. Quelle discussioni si erano svolte a Roma, a Pisa, a Firenze e vi avevano partecipato molti dei futuri protagonisti della vita politica e culturale italiana degli anni Cinquanta e Sessanta: Piero Calamandrei, Mario Delle Piane, Tristano Codignola, Carlo Ragghianti, Paolo Bufalini e molti altri. Incaricandosi di redigere un testo di sintesi, Calogero intendeva offrire uno strumento di divulgazione e mobilitazione, che peraltro, come illustrato più avanti, avrebbe potuto andare alle stampe soltanto nel ’45, all’interno di un volume, intitolato Difesa del liberalsocialismo e arricchito con altri saggi e interventi dell’autore.
Quando si affronta il tema del liberalsocialismo, è inevitabile il riferimento al socialismo liberale di Carlo Rosselli, ma parlare di continuità tra i due movimenti non è corretto. Mentre infatti il socialismo liberale, nella visione rosselliana, esercitò una profonda influenza sulla storia del socialismo italiano attraverso un programma ampio e complesso che si sviluppava su vari piani, dall’economia alla ristrutturazione dello stato, al ruolo delle masse, al problema dell’unificazione europea, per parte sua il liberalsocialismo fu «un movimento di opinione, una organizzazione per la propaganda ed il chiarimento delle idee», come affermava lo stesso Calogero nell’edizione del ‘45.
Peraltro, la definizione di Calogero era certamente riduttiva. In realtà, al di là della maggiore o minore capacità di influire sul movimento operaio italiano, la questione era più complessa. Partendo da una base prevalentemente filosofica e giuridica, il liberalsocialismo di Calogero si proponeva di rinnovare e radicare più diffusamente nella società il liberalismo italiano, tentando di conciliare l’esigenza crociana di libertà, intesa come valore etico-politico universale, e dunque apparentemente astratto, con il bisogno di giustizia sociale. Pertanto esso cercava di offrire una soluzione prima di tutto filosofica, politica e giuridico-istituzionale ai presunti di limiti di Croce. Viceversa il socialismo liberale di Carlo Rosselli, nel giudizio di Calogero, «nella più precisa determinazione della sua idea, prospettava la questione prevalentemente sul piano economico, facendo vedere i vantaggi della sintesi di un’economia socialista, o meglio, di un sistema produttivo basato sull’iniziativa individuale e di un sistema produttivo variamente collettivizzato». «A questo modo, però – proseguiva Calogero - il problema della sintesi della libertà politica e della giustizia sociale si trasferiva sul solo terreno dell’economia, trasformandosi nel più ristretto quesito della composizione di strutture liberistiche e di strutture socialistiche dell’organismo produttivo».
Non c’è dubbio dunque che per Calogero il liberalsocialismo intendesse rappresentare una sintesi ideale e teorica, prima ancora di una proposta concreta e operativa. Un’aspirazione, la sua, riassunta da Norberto Bobbio sulla Stampa del 21 dicembre 2001 nel modo seguente: «La ricerca di Calogero di coniugare le due universali aspirazioni di libertà ed eguaglianza fu continua e sostanziata da uno spirito che, in fondo in fondo, sembra richiamare - anche se in un contesto laico - la lezione evangelica. Una tendenza questa che si può rinvenire del resto anche in alcuni autori del laburismo inglese, esperienza politica alla quale, come accennato, Calogero guardava come fondamentale riferimento per le sorti della nostra democrazia e, in particolare, della sinistra».
Come accennato, Il Manifesto del liberalsocialismo era il risultato di una lunga fase di formazione durante la quale si svolsero discussioni, convegni e incontri, non solo fra uomini di cultura affine, ma anche con esponenti di altre correnti politiche e intellettuali dell’antifascismo. Tale contributo della cultura dell’epoca fu certamente di fondamentale importanza per la definizione dell’ideologia e del programma del movimento. Tuttavia la collaborazione più intensa di tutte quella tra Calogero e Aldo Capitini.
I rapporti con Capitini risalivano al comune impegno antifascista alla Normale di Pisa e «tra i due esisteva – come riassume Giovanni De Luna - una quasi perfetta complementarietà» . Calogero e Capitini fin dal 1937 avevano pensato di precisare programmaticamente il loro impegno educativo verso l’antifascismo, individuando nell’incontro tra liberali e socialisti il modo migliore per orientare le coscienze dei giovani.
Il Manifesto dunque rispondeva anche all’esigenza di definire ideologia e programma del movimento liberalsocialista.
La storia della redazione di tale documento programmatico ci è stata raccontata dallo stesso Calogero nell’edizione del ‘45. Come si evince da una nota a piè di pagina, una prima bozza del Manifesto fu redatta da Tommaso Fiore agli inizi del 1940. La stesura definitiva fu realizzata in quel di Roma, durante una riunione tenutasi in un piccolo centro della costa laziale, Pratica di Mare, precisamente il 21 aprile 1940. All’incontro erano presenti Wolf Giusti, Giacinto Cardona, Paolo Bufalini ed altri. Il Manifesto fu successivamente rielaborato durante l’estate e le trascrizioni del testo, che recava il titolo di Note sul concetto di stato, girarono clandestinamente per tutta l’Italia. Nel 1945 risultavano essere rimaste due sole copie, in quanto, in seguito agli arresti che seguirono subito dopo il 1940, le varie riproduzioni circolanti erano state distrutte dagli stessi aderenti al movimento perché non cadessero nelle mani della polizia, e per alcuni anni non se ne seppe più nulla . Un testimone di quei giorni, Giulio Butticci, avrebbe scritto molti anni dopo a proposito dell’arresto dello stesso Calogero: «fu mandato in Abruzzo, a Scanno, dove, nell’agosto, lo andai a trovare per comunicargli un’ultima redazione del Manifesto che, per precauzione, avevo mandata a memoria, nel caso che io potessi in qualche modo venire intercettato dalla polizia» . Solo nel 1945 il Manifesto del liberalsocialismo sarebbe stato definitivamente pubblicato, come “documento inedito”, nella già ricordata Difesa del Liberalsocialismo di Guido Calogero.
Il documento è suddiviso in dodici paragrafi e, pur non nominando mai la parola “fascismo” per ragioni di prudenza, delinea i principi e la struttura di un nuovo stato democratico totalmente opposto a quello fascista, uno stato non contaminato dal virus del nazionalismo e nel quale anche lo spirito europeo nasce da un necessario sincretismo tra liberalismo e socialismo.
I paragrafi undici e dodici sono dedicati alla politica estera del nuovo stato, con un approccio che è quello che a nostro avviso risente maggiormente di uno degli elementi più innovativi del socialismo liberale di Rosselli: la critica alla concezione nazionale e nazionalistica del mondo. Come aveva già fatto Rosselli nel 1935, Calogero supera la concezione politica legata allo stato nazionale in vista di un progetto di respiro internazionale: «[…] Il liberalsocialismo ispirerà di conseguenza la sua politica estera agli ideali della solidarietà internazionale, propugnando il rafforzamento e l’instaurazione di tutto ciò che possa contribuire a rinvigorirla (disarmo, federazione europea, organismi giurisdizionali e mezzi di coercizione per l’attuazione del diritto internazionale). […] il liberalsocialismo non si considera ristretto entro i confini del proprio stato. Esso auspica quindi la formazione di una comunità internazionale, composta di tutti coloro che, in qualsiasi nazione, ne condividano la teoria e gli ideali. Questa Internazionale, che, sulla pianta della libertà che non deve morire negli animi e nelle attuazioni, inserisce un rinnovamento morale ed un rinnovamento sociale, tende a realizzare una civiltà la quale, svolgendosi, dà origine nel suo ambito a varie correnti e a vari atteggiamenti, e prova così la propria complessità e fecondità storica».
Come si può notare, nel Manifesto non c’è ancora una elaborazione di ampio respiro sulla sovranità nazionale, ma appare evidente un bisogno di rinnovamento morale e di riorganizzazione internazionale su nuove basi. Nel ’40 la guerra era ormai una realtà e si imponeva una nuova visione degli equilibri mondiali, non più incentrati sui rapporti di forza, ma su alcuni organismi sovranazionali capaci di imporre regole uguali per tutti.
Non c’è in Calogero e Capitini, così come non c’era in Rosselli, l’idea forte, l’interpretazione rivoluzionaria dei federalisti di Ventotene, secondo la quale solo abbattendo lo stato nazionale a sovranità assoluta si potesse arrivare ad una federazione europea e che il fascismo non era altro che il prodotto della crisi del sistema europeo degli stati sovrani. Tuttavia era già presente l’idea che la ricostruzione europea si dovesse fondare su basi nuove nelle quali la sovranità statale avrebbe dovuto avere un peso minore rispetto al passato.
Nota sulla fonte: le prime pagine del Manifesto furono stampate nel 1944 sul n. 1, 1944 dell’edizione di Giustizia e Libertà di Palermo, con un commento di Giovanni Guaita. Nel ’45, il volume Difesa del liberalsocialismo, pubblicato a Roma, come si è detto, da Calogero, conteneva la versione integrale del Manifesto, insieme al Secondo Manifesto, scritto poco dopo il primo ( in pratica una sintesi molto breve per renderne più facile la diffusione) ed altri saggi. Infine, nel 1972, il Manifesto fu pubblicato nuovamente nella seconda edizione di Difesa del liberalsocialismo, edito a Milano con un’interessante introduzione di Michele Schiavone e Dino Cofrancesco. Il testo originale al momento risulta irreperibile. La fonte riprodotta è consultabile presso la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma.
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Primo manifesto del liberalsocialismo
1. A fondamento del liberalsocialismo sta il concetto della sostanziale unità e identità e della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia quanto il liberalismo. Questa ragione ideale coincide con quello stesso principio etico, col cui metro, in ogni passato e in ogni avvenire, si è sempre misurata e si misurerà sempre, l’umanità e la civiltà: il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio. Nell’ambito di questa universale aspirazione etica, liberalismo e socialismo si distinguono solo come specificazioni concomitanti e complementari, l’una delle quali mira alla giusta commisurazione di certe libertà. Il liberalismo vuole che fra tutti gli uomini sia equamente distribuito – in modo tale che il suo uso da parte di ogni altro – quel grande bene che è la possibilità di esprimere liberamente la personalità propria, in tutte le concepibili forme di tale espressione. Il socialismo vuole che fra tutti gli uomini sia equamente distribuito – in modo tale che il suo uso da parte di ognuno non leda e non soverchi il suo uso da parte di ogni altro – l’altro grande bene che è la possibilità di fruire della ricchezza del mondo, in tutte le legittime forme di tale fruizione.
Così il liberalismo vuole l’uguaglianza e la stabilità dei diritti e delle leggi, senza distinzioni dipendenti da religione, razza, casta, censo, partito; vuole la derivazione di ogni norma giuridica dalla volontà dei cittadini, espressa secondo il principio della maggioranza; vuole l’ordinata partecipazione dei cittadini al governo, comunque specificato, delle cosa pubblica; vuole la libertà di pensiero, di stampa, di associazione, di partito, quale fondamento dell’esercizio del reciproco controllo e dell’autogoverno, e quale premessa e manifestazione a un tempo di ogni perfezionamento del costume politico; vuole la libertà di religione, che permetta ad ognuno di adorare in pace il suo Dio.
Parallelamente, il socialismo vuole che nella coscienza morale degli uomini s’impianti energicamente il principio, che, anche sul piano della ricchezza, l’ideale è quello cristiano e mazziniano della giustizia e dell’uguaglianza, e che perciò bisogna tanto suscitare nel proprio animo il gusto di lavorare e del produrre, quanto reprimervi quello del guadagnare e del possedere in misura soverchiante la media comune. Vuole, di conseguenza, che ciascuno sia compensato con la ricchezza prodotta, in misura congrua al suo effettivo lavoro; vuole che non sia riconosciuta la legittimità del possesso ed uso privato del puro interesse del capitale, ma solo quella del compenso della reale attività e fatica dell’imprenditore e del dirigente; vuole che con la ricchezza appartenente alla società (sia nella forma statale che in quella provinciale, comunale e cooperativa) venga assicurato ad ognuno il diritto di partecipare al lavoro comune e di raggiungere la piena esplicazione delle proprie attitudini, e parimenti venga assicurato speciale soccorso per tutti coloro che si trovino comunque in condizioni di inferiorità; vuole che la società tenda con la massima intensità possibile (e con la sola avvertenza che la rapidità e l’ampiezza delle innovazioni non siano tali da pregiudicare l’opportunità e la durat6a delle innovazioni stesse) ad elaborare ed instaurare tutti quei progressivi assetti politici e giuridici, che appaiano atti a far procedere la civiltà in direzione di questo ideale, della sempre maggiore socialità della ricchezza.
D’altronde, in tali aspirazioni, tanto il liberalismo quanto il socialismo non possono non avvertire come ciascuno dei due grandi complessi di ideali etico-politici da loro propugnati sia, nelle sue specificazioni concrete, legato da infiniti vincoli all’altro, e presupponga l’altro nelle sue particolari possibilità di realizzazione. A chi combatte con la miseria, non si può offrire e garantire senza ipocrisia la semplice libertà di opinare e di votare, di svolgere ed approfondire la propria spiritualità. A chi soggiace alla dittatura, non si può concedere senza perfidia un innalzamento del livello economico della vita, a cui non vada congiunta la libertà dell’intervento critico e pratico nell’amministrazione della ricchezza comune. Non si può fare avanzare la libertà senza l’ausilio della ricchezza della ricchezza, né amministrare secondo giustizia senza l’ausilio della libertà. Non si può essere seriamente liberali senza essere socialisti, né essere seriamente socialisti senza essere liberali. Chi è pervenuto a questa convinzione e si è persuaso che la civiltà tanto meglio procede quanto più la coscienza e gli istituti del liberalismo lavorano per inventare e ad instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gli istituti del socialismo a rendere sempre più possibile e intensa e diffusa tale opera del la libertà, ha raggiunto il piano del liberalsocialismo.
2. Il liberalsocialismo intende in tal modo di riaffermare e di approfondire i principali valori etico-politici, che sono stati difesi e propugnati dalle due grandi tradizioni a cui si ricollega. Perciò esso respinge energicamente la tesi dell’intrinseca inconciliabilità del liberalismo e socialismo, pur non negando l’esistenza di un liberalismo che non si accorda con il socialismo, e di un socialismo che non si accorda col liberalismo.
Il primo è il liberalismo ingenuo: il liberalismo di coloro che pretendono la libertà per sé, e non si danno pensiero della libertà degli altri. A questi più elementari zelatori della libertà, già la migliore tradizione ricorda che amare la libertà significa amare la legge, la quale, limitando la libertà propria, concede eguale spazio alla libertà altrui. Oppure è il liberalismo antiquato e conservatore: il liberalismo di coloro che sono pronti a commisurare equamente la libertà propria con l’altrui finchè si tratta dei tradizionali diritti civili e politici, ma che nel campo dell’economia non tollerano legge, e lasciano al prossimo la possibilità di morire di fame. Sono i liberali per cui la libertà è concetto supremo, la giustizia concetto inferiore: laddove non c’è essenziale differenza tra ideale sociale della giustizia e ideale liberale della libertà, entrambi venendo a coincidere nell’unico ideale liberalsocialista della giusta norma della libertà. E la cura della giusta libertà altrui si manifesta non soltanto nel volere, poniamo, le norme che regolano la successione legittima o l’amministrazione delle società anonime o gli orari ed i salari dei lavoratori, sottraendoli al privato arbitrio economico del testante o dell’amministratore o del datore di lavoro: norme che nessun serio liberale potrebbe considerare senz’altro illiberali o indifferenti. I miglior liberalismo si è giù distinto dal liberismo: quello di cui ancora deve spogliarsi, è l’indifferenza per l’economia altrui.
Io secondo, cioè il socialismo che non si accorda col liberalismo, è il socialismo marxistico ed autoritario, che vede nella dittatura del proletariato la condizione della futura libertà. E’ il socialismo di chi ancora crede che l’ideale della giustizia sociale debba essere dedotto dalla scienza dell’economia, ed esser preveduto inevitabilmente vittorioso da chi intenda il razionale corso della storia.
Nella sua evoluzione interna, il migliore socialismo è sempre più venuto abbandonando questi vecchi motivi: e se ha opportunamente continuato ad irridere la libertà senza giustizia del liberalismo conservatore, ha nello stesso tempo cessato di credere nella giustizia senza libertà di ogni utopia totalitaria. Esso non s’illude più che la ricchezza comune possa essere amministrata onestamente da chi non si sia elevato al senso dell’interesse collettivo attraverso l’esercizio del controllo e l’esperienza della legale libertà, e non continui ad operare in un ambiente di critica, di legalità e di libertà.
Questo socialismo fondato sulla libertà e radicato nella più profonda aspirazione sociale dell’uomo, quel liberalismo assetato di giustizia e deciso a non contentarsi di libertà che possano essere irrise come vuote, convergono e coincidono con il liberalsocialismo.
3. Anche quando, del resto, si voglia considerare la questione del contrasto e dell’accordo tra liberalismo e socialismo non tanto dal più radicale punto di vista etico-politico quanto da quello storico-economico, al fine di trarre insegnamento da ciò che all’esperienza risulta dalla stessa evoluzione più moderna della tecnica e dell’economia, si trova riconfermato il principio che il miglior liberalismo è sostanzialmente concorde col miglior socialismo, e che quanto in essi non si concilia è solo il deteriore contenuto dell’uno e dell’altro.
Quanto sl socialismo, l’irrealizzabilità economica di un collettivismo totale è è risultata palese da tutte le esperienze che se ne sono scarpe e il fazzoletto. La loro collettivizzazione potrebbe significare in concreto soltanto questo, che le scarpe e il fazzoletto non si comprano né si vendono, perché li fornisce lo stato, il quale a sua volta non garantisce giurisdizionalmente alcun negozio giuridico privato di permuta o di compravendita. Ma per evitare che il singolo si disinteressi di aver cura e di far risparmio dei beni che lo stato collettivistico gli fornisce, bisogna almeno che tale stato gli fornisca questi beni non ininterrottamente, ma a intervalli determinati di tempo, e quindi con la minaccia di lasciarlo privo di essi se egli non li saprà saggiamente amministrare in quell’intervallo: il che è di nuovo una presupposizione e creazione dell’interesse privato e dell’economia privata. Niente, quindi, intanto, è più vago della tesi dell’abolizione totale ed integrale della proprietà privata, dell’universale conversione del diritto privato nel diritto pubblico.
A chi d’altronde replichi che si rimedia a tale assurdità restringendo l’ambito dell’auspicata collettivizzazione della proprietà privata a quella soltanto che sia “ mezzo di produzione”, bisogna osservare che anche questa discriminazione del tipo di proprietà dal punto di vista della funzione tecnico-economica, per quanto importante ed utile al fine di un primo orientamento, non può essere considerata come atta a risolvere senz’altro ogni difficoltà. “ Mezzo di produzione” per eccellenza è il capitale, e il capitale è, anche, il risparmio del proprio lavoro. Si vorrà perciò vietare ai lavoratori di possedere i loro risparmi, e togliere così ad essi quel grande movente di disciplina etica della vita, che è lo spirito della parsimonia e della previdenza? Quel che importa non è tanto l’appellarsi all’approssimativo concetto di “ mezzo di produzione”, quanto l’operare in base alla concreta idea che si deve combattere ogni forma di guadagno senza lavoro e di sfruttamento capitalistico del lavoro altrui, del tipo di quello che generalmente ha luogo nella grande proprietà agraria ed industriale: nel cui campo il liberalsocialismo è naturalmente favorevole, a instaurare tanto energicamente il sistema della proprietà e dell’amministrazione collettiva, quanto più ad esso si venga man mano elevando il ivello educativo e tecnico del lavoratori.
Quanto al liberalismo, la irrealizzabilità, in grado assoluto, del suo essenziale principio economico è parimenti risultata palese attraverso l’evoluzione della atecnica e dell’economia moderna. L’ipotesi di libera concorrenza di fronte a un libero mercato, che offra a tutti le stesse possibilità d’intervento e di gara, è notoriamente una ipotesi limite, che non si realizza mai pienamente nella realtà, e che tanto meno si realizza quanto più il naturale accentrarsi tecnico e finanziato della moderna produzione economica viene necessariamente a determinare situazioni di più o meno grave disparità della condizioni di gara di fronte al mercato. Il singolo concorrente e produttore viene sempre più assorbito nelle maggiori organizzazioni della tecnica capitalistica, in cui finisce per decadere alla situazione d’impiegato. Così, p. es., di fronte alle aziende fornitrici di servizi pubblici (comunicazioni, produzione di energia elettrica, gas, ec.) non ha più senso parlare oggi di liberalismo come il tipo optimum della produzione economica; e ogni buon liberale è ormai convinto che in tutti i casi del genere, in cui l’autocontrollo della concorrenza viene, per la necessità stessa delle cose, a realizzarsi sempre meno, è necessario che subentri il controllo della comunità, o nella nazionalizzazione o attraverso qualsiasi altro sistema di partecipazione amministrativa che assicuri i consumatori da un non equilibrato guadagno del produttore o dell’amministratore.
Ma ciò significa che, anche qui, l’unico problema è quello della sempre mutevole adeguazione degli strumenti tecnici e giuridici alla duplice esigenza di garantire ed eccitare l’individuo nella libera espansione del suo potere di produzione economica, e di procurargli il modo di correggere il meglio possibile le forme di meno equa distribuzione della ricchezza prodotta. Il regime della libera concorrenza va conservato e favorito in tutti quei casi in cui le condizioni necessarie per tale libera concorrenza sussistano in tal misura da promuovere il rigore dell’iniziativa individuale e da escludere insieme, col loro stesso gioco, una disuguaglianza eccessiva dei successi e dei premi; va ristretto ed abolito in tutti gli altri casi, in cui la minor funzionalità di un simile autoregolamento ponga l’esigenza di un regolamento diverso.
Né dunque ha senso l’ideale economico dell’assoluto ed esclusivi collettivismo, né quello dell’assoluto ed esclusivo individualismo. Non c’è da un lato collettività e dall’altro l’individuo, che deve essere educato tanto al personale gusto del suo lavoro, quanto al senso della divisione equa tra gli individui di tutto ciò che derivi da questo comune lavoro. Nell’esigenza di quel primo aspetto dell’educazione è la verità del liberalismo economico; nell’esigenza del secondo aspetto, la verità del collettivismo. L’uni educa l’uomo ad essere attivo nel produrre, l’altro ad essere equo nel distribuire; e come non si dà economia senza produzione e distribuzione, così non si dà economia senza individualismo e collettivismo.
4. Ispirandosi a questa premesse, la civiltà di domani dovrà quindi restaurare o innovare o creare tutti una serie di istituti, la cui più determinata fisionomia e il cui particolare succedersi non possono naturalmente esser previsti e preposti in ogni loro aspetto finchè non si abbia di fronte l’effettiva situazione storica in cui si tratti di recarli in atto. Bisogna, a questo proposito, guardarsi dal pericolo dell’utopismo, non meno che dallo spirito di inerte accettazione del fatto compiuto, incline ad attendere dal corso degli eventi storici non solo la soluzione di ogni problema, ma addirittura il criterio di ogni giudizio etico e politico.
Per evitare il duplice pericolo, dell’utopismo astratto che prevede tutto e dello storicismo inerte che non vuol prevedere nulla, bisogna anzitutto ben distinguere, anche nelle dottrine e nei programmi politici, tra quanto è assoluto valore e verità, che non trae norma dall’accadere perché è lo stesso criterio ultimo per giudicare l’accadere e reagire ad esso, e quanto è contingente escogitazione e proposta di strumenti atti ad agire sulla realtà per avvicinarla a quegli ideali e a quei valori: strumenti che devono essere studiati ed escogitati e previsti perché non ci si accosti più tardi alla realtà senza idee né programmi, ma la cui più specifica configurazione e adozione e successione deve poi naturalmente adattarsi alle determinate e sempre mutevoli esigenze della situazione storica. Quanto si è p. es. definito circa il contenuto essenziale del liberalsocialismo, in ordine ai supremi valori della giustizia e della libertà, non è cosa che possa comunque mutare con la storia, che la storia possa convalidare od infirmare con le vittorie o con le sconfitte. Quello che in linea di principio si è enunciato a questo proposito, è vero da sempre e sarà vero per sempre, finchè ci saranno uomini sulla terra; perché gli uomini possono bene essere giusti o ingiusti, possono anche sopprimere tutti gli uomini giusti, ma se pensano la giustizia non possono pensarla che in quel modo, non possono storcere il canone della moralità e della civiltà.
Chi quindi si sgomenta di certe sconfitte, e teme che la storia possa con esse insegnare che la giustizia e la libertà non sono quello che sono, e che non è vero che si deve continuare a creder in esse, a testimoniarne e a diffonderne la religione e il culto, anche quando si sia rimasti assolutamente soli a farlo, chi teme questo, ha smarrito l’orientamento, e non sa più distinguere i valori dai fatti. Quel che muta con la storia, e con essa patisce ritardi e sconfitte, è, certamente, tutto il resto: tutto il mondo delle esperienze, degli istituti, delle conquiste, degli istituti, delle conquiste educative e giuridiche, che possono di per sé corrompersi o rivelarsi fragili più di quanto sembrassero, o essere travolti da una soverchiante forza brutale. Su questo mondo passano i carri armati, che non hanno presa sulla Giustizia e sulla Libertà. E quando essi sono passati, occorre ricostruire quello che è stato distrutto, e la concreta opera di ricostruzione non può prescindere dalla precisa situazione storica del luogo del luogo e del momento, così come non può prescinderne ogni altro eventuale atto di innovazione e di avanzamento ulteriore. Ma, anche qui, non si può semplicemente aspettare l’avvenire, per improvvisare poi le decisioni in base ad esso. Bisogna studiare, escogitare, proporre, senza temere l’accusa di utopismo o di dottrinarismo; e bisogna escogitare e proporre quanto più possibile in concreto, come se si fosse già di fronte al bisogno di redigere articoli di legge, perché, per astratta che appaia, per altro verso, la considerazione giuridica, la traducibilità in ordinamenti positivi è pure una prova pratica, e molti sogni di riforma ab limis mostrano la loro inconsistenza proprio di fronte al tentativo di calarli in norme precise e capaci di funzionare. L’effettiva situazione storica servirà poi di correttivo, farà escludere certi strumenti e ne farà scegliere o modificare altri..
Di conseguenza, dopo che, in quanto precede, si sono enunciati quei principii generali del liberalsocialismo, che dalla storia non attendono conferme o smentite perché la loro convalida ultima è solo nella coscienza e nella intelligenza di chi li accoglie, si indicherà qui, a titolo di esemplificazione pratica, un certo complesso di riforme e di istituti, che il liberalsocialismo prospetta come di più plausibile ed opportuna instaurazione, e la cui delineazione serve ad orientare circa lo spirito ed il carattere dell’azione e dell’organizzazione politica, verso cui esso tende a indirizzare le volontà.
5. Anzitutto, in conformità con l’aspetto più propriamente liberale della concezione, lo stato di domani dovrà rinnovare in sé quanto di più efficace l’universale tradizione del liberalismo e della democrazia ha creato in fatto di istituti giuridici tandenti alla difesa ed alla promozione delle libertà civili e politiche.
Risorgerà, così, lo stato liberale: ma non senza l’esperienza delle ultime prove. Se non risorgerà come equivoco stato etico, non risorgerà neppure come vuoto stato agnostico, scevro di ideale e di fede religiosa. Chiunque ne sosterrà col suo volere le leggi e con le sue forze l’azione, dovrà avere una religione ben ferma: la religione della libertà. E di questa religione si costituirà custode.
Certo, egli non dimenticherà neppure allora che la più alta condizione civile è pur quella degli stati in cui il costume della ben regolata libertà sia ormai radicato per abitudine tanto secolare, da permetterne l’uso anche a quei pochi, che in un simile ambiente continuino a far propaganda contro la libertà. Ma terrà conto della delicata situazione storica a cui dovrà presumibilmente far fronte; e soprattutto ricorderà che, in quanto instauratore o difensore di norme costituzionali, egli sarà chiamato a porre e a tener fermi dei limiti alla libertà dei cittadini, che questi stessi non sarebbero capaci di imporsi senza quella coercizione legale. Posta dunque la necessità di fissare norme costituzionali, è chiara insieme anche l’esigenza massima a cui esse dovranno ispirarsi: quella di non contraddire intrinsecamente a se stesse. La futura costituzione garantirà a tutti la libertà, salvo a coloro che intendano valersene contro la stessa libertà.
6. Per compiere questa discriminazione, che non potrà naturalmente essere di competenza del potere esecutivo, espressione di un determinato partito, e che difficilmente potrebbe essere assegnata al legislativo o al giudiziario, dovrà operare nello stato un quarto potere, la cui istituzione in organo autonomo avrà per il nuovo ordinamento la stessa importanza reciproca dei tre poteri tradizionali.
Allo stesso modo, d’altronde, che tale autonomia ed indipendenza non ha mai significato supremazia dittatoriale di uno di tali poteri sugli altri, così anche per il quarto potere potrà essere previsto un sistema di controllo ( p. es. mercè il ricorso al legislativo, autorizzato a modificare le decisioni della Corte Costituzionale quando raggiunga la maggioranza dei tre quarti). Questa Corte dovrà controllare essenzialmente il giuoco dei partiti, in conformità del principio capitale che solo quei partiti potranno essere legalmente ammessi nel nuovo stato, i quali accettino la regola fondamentale del gioco, espressa da quanto si è in generale definito come contenuto essenziale del liberalismo. Ogni partito, che chieda il legale riconoscimento, dovrà presentare il suo preciso ed ufficiale programma, e questo avrà piena ed incondizionata libertà in tutta la sua formulazione, salvo che nel punto dell’accettazione obbligatoria dei canoni fondamentali del liberismo e della democrazia. Nessun partito potrà, in particolare, essere riconosciuto, il combatta il principio della libera formazione elettiva delle leggi e dei governi, e manifesti, o comunque tradisca, il suo intento di una futura eliminazione violenta degli altri partiti. Su questi punti non sarà ammesso neppure il silenzio: ciascun programma di partito, presentato per il riconoscimento, dovrà contenere in proposito un’esplicita professione di fede. Ogni propaganda di partito non conforme al programma riconosciuto sarà repressa severamente, del pari che ogni attività clandestina di partito non riconosciuto. Egualmente vietata e repressa sarà, in ogni partito, qualsiasi formazione o preparazione di carattere militare; ed insieme si curerà che all’interno stesso di ogni partito la disciplina dei suoi membri non abbia carattere di obbedienza militaresca, la quale coltivi nel loro ambito quello spirito e quella propaganda antiliberale, che si tende appunto a mettere fuori gioco col controllo dei programmi. Ciò potrà essere ottenuto stabilendo, p. es., l’obbligo di congressi annuali pubblici. Si potrà inoltre statuire, per evitare i pericoli del parlamentarismo, che l’adesione ad un partito sia condizione necessaria per la candidatura alle elezioni legislative, e che a queste stesse elezioni possano presentare candidati soltanto quei partiti che abbiano già conquistato un adeguato numero di aderenti in seno alla nazione.
7. Altra sfera a cui dovrà necessariamente estendersi la delicata opera di controllo del quarto potere, è quella della stampa. E’ chiaro che non potrà trattarsi, in questo caso, né di approvazioni preventive, né di eventuali divieti. Chi pone a fondamento del proprio ideale politico la difesa della migliore tradizione liberale e democratica, non può nello stesso tempo sognare indici di libri proibiti, o comunque repressioni della libertà di stampa. Per questo più generale aspetto, quindi, unica disciplina dovrà essere quella della legge comune, applicata dalla magistratura ordinaria, nei soli casi che possano essere considerati come atti, o come aperto incitamento ad atti, formalmente previsti come reati di diritto comune da un codice penale liberato da ogni motivo settario.
Ma per quanto concerne la stampa quotidiana ed il suo finanziamento, il liberalsocialismo non può ignorare che è ben vacua una libertà di stampa alla quale non si accompagni la possibilità economica di farne uso. Domani, proprio quei pochi che si sono arricchiti oggi per l’assenza di ogni controllo liberale della vita pubblica potranno essere in condizione di comprare e di fondare molti più giornali che non tutti gli intellettuali e i lavoratori della nazione presi insieme. Nell’attesa di uno sviluppo della situazione sociale che permetta di ovviare sempre più a questo gravissimo inconveniente, il quale falsa in larga misura il gioco delle opinioni dando maggior forza alla verità dei ricchi, bisognerà quindi, in primo luogo0, procurare almeno la massima pubblicità possibile in tale materia, in modo che ogni lettore sia direttamente informato, da accertamenti ufficiali obbligatoriamente ripetuti in ogni numero sotto il titolo del giornale, della proprietà e del fondamento finanziario del foglio che legge. Tali accertamenti saranno di competenza della Corte Costituzionale, che dovrà a questo scopo (così come a quello del controllo della costituzionalità dei partiti) disporre di tutti i necessari organi d’indagine e d’informazione. In secondo luogo, bisognerà agevolare al massimo la fondazione di giornali, in tutti quei casi in cui sia accertabile un minimo di interesse collettivo a tale fondazione (p. es. quando si abbia un certo numero di sottoscrizioni nominative per abbonamento annuo).
In simili casi, si potrà concedere agli organizzatori del nuovo giornale l’opera gratuita di grandi tipografie si stato. In terzo luogo, se non è concepibile una stampa del potere esecutivo diversa da quella del partito al potere, è ben concepibile, per il liberalismo, una stampa che, dipendendo direttamente dalla Corte Costituzionale, abbia per scopo d’informare il pubblico col più rigoroso rispetto dell’obbiettività e di rivolgere al massimo la sua attenzione verso i problemi dell’amministrazione pubblica e del suo controllo da parte dei cittadini, contribuendo in tal modo a sviluppare in essi il senso concreto della democrazia e dell’autogoverno.
Compiendo tale opera, la Corte Costituzionale servirà nel miglior modo non solo al compito dell’educazione nazionale, ma anche all’interesse dei partiti in lotta. Parimenti sotto il suo controllo, informato agli stessi principi per tutto quanto concerne l’educazione all’obbiettività storica ed allo spirito liberale, saranno la radio e la scuola.
8. Tutto questo aspetto, più universalmente liberale, dell’ordinamento dello Stato è, come si è visto, necessario momento comune di ogni partito e di ogni educazione e difesa non è quindi subordinata al principio della maggioranza. La legge del consenso non ha bisogno, per la sua validità, del consenso: chè qualsiasi consenso s’immaginasse per convalidarla, dovrebbe già presupporla per trarne tale virtù di convalida. Chiunque sia convinto, nella sua coscienza morale, del principio che gl’impone di non stringere l’altrui volontà della maggioranza, ha per ciò stesso acquistato il diritto di non tener conto del consenso, e di adoperare la forza, in tutti i casi in cui occorra instaurare a difendere il principio che solo dal consenso le leggi devono derivare la loro forza.
Ed ha, per ciò stesso, acquistato il diritto di usare la forza in tutti quei casi in cui, non solo la libera formazione delle leggi attraverso il consenso, ma la stessa libera formazione del consenso e del dissenso attraverso il gioco della pubblica opinione (in cui ciascuno deve contare solo per l’autorità della sua intelligenza, esperienza ed onestà individuale) appaia infirmata o gravemente ostacolata dal prepotere acquisito di certe posizioni finanziarie o politiche. Qui, nella fase di instaurazione costituzionale, ha luogo il diritto della forza, così come, a costituzione instaurata, deve aver luogo la ben regolata forza di un diritto che, attraverso il combinato intervento della Corte Costituzionale e della magistratura ordinaria, chiamate ad applicare un nuovo apposito capitolo del codice penale, colpisca severamente, soprattutto mediante l’espropriazione del mezzo finanziario, chi di tale mezzo si sia comunque valso per comprare le opinioni altrui.
E’ infatti evidente che il processo di instaurazione del nuovo stato non potrà non interferire con le colossali posizioni monopolistiche che si sono venute sviluppando sui privilegi di carattere politico. Esse, unite in naturale alleanza, costituiranno un complesso di forze tali da gravare in modo talvolta decisivo sull’opinione e sugli orientamenti politici del paese. D’altra parte, l’eliminazione di quei detersati privilegi di natura politica, che ne hanno provocato e favorito lo sviluppo, metterà in forse la loro stessa esistenza. Potrà quindi occorrere di prendere misure per fronteggiare la situazione eccezionale: misure di carattere egualmente eccezionale e non programmatico, e di cui quindi è impossibile prestabilire un piano dettagliato. In taluni casi potrà essere sufficiente l’assunzione del controllo da parte dello stato, in cui potrà occorrere l’esproprio. Quando non si tratti di istituti di vitale interesse sociale (grandi banche, società di assicurazioni, grandi imprese minerarie, ecc.) che sono già virtualmente statizzati, limitandosi in essi l’iniziativa privata al riscuotere le cedole azionarie o peggio al postulare l’appoggio dello stato, le imprese potranno di nuovo essere affidate alla responsabilità privata, e si favorirà e promuoverà in tutti i modi la costituzione, a tale scopo, di cooperative tra impiegati e gli operai di esse.
I provvedimenti di carattere economico, così prospettati come tali che la loro adozione s’imponga come necessità rivoluzionaria già nella fase di instaurazione del nuovo stato, resteranno in ogni modo, come si è detto, limitati essenzialmente a quella sfera in cui essi appaiono effettivamente richiesti per l’intrinseca possibilità di funzionamento della democrazia e della libertà. Tale funzionamento deve infatti essere la matrice di tutte le ulteriori riforme nel campo più specificamente sociale. A questo proposito, si è già detto che, se il liberalsocialismo respinge l’astratta tesi marxista secondo la quale l’uguaglianza giuridica del liberalismo è uguaglianza vuota e soltanto l’uguaglianza economica del socialismo è l’uguaglianza piena (non ritenendo “vuota”, p. es., l’eguaglianza che si è ottenuta con l’abolizioane della schiavitù e della servitù della gleba), esso non cade tuttavia nell’errore opposto, di considerare quella prima conquista egualitaria, di carattere giuridico, come sufficiente a sé stessa.Lavorando per l’ideale della maggior possibile eguaglianza delle fortune, il liberalsocialismo mira infatti a che gli uomini, nel più largo numero e nel modo più pprofondo e complesso, partecipino con il loro vario sviluppo alla civiltà comune.
>Ma appunto per ciò il liberalsocialismo vuole che le riforme sociali non piovano dall’alto, ma siano figlie della democrazia e delle libertà. Simili riforme costituiscono sempre, in maggiore o minor misura, una novità storica, rispetto alla quale la sussistenza di una maggioranza ad esse favorevole rappresenta da un lato la prima garanzia critica di plausibilità, e dall’altro un’assicurazione circa l’effettiva buona disposizione dei cittadini a recarle in atto e farle prosperare. Quanto perciò, al di là del contenuto più strettamente liberale dell’ordinamento, sarà nel nuovo Stato istituzione di ulteriori doveri e norme, nel senso di una sempre più profonda realizzazione degli ideali sociali, dovrà normalmente acquistare forza di legge solo attraverso il consenso della maggioranza. Il principio fondamentale di tutte le riforme sociali, che il liberalsocialismo sia per proporre nella sua più specifica attività di partito, sarà quindi quello stesso principio, la cui osservanza esso esige anche da ogni altro partito. Ogni legge dovrà essere votata da una libera maggioranza; ogni riforma sociale dovrà essere attuata attraverso l’esercizio legale della libertà, e rispondere allo spirito della libertà.
9. Tra queste riforme di carattere sociale, tendenti a una migliore realizzazione della giustizia economica, si prospettano qui (come già si è fatto per le riforme di carattere costituzionale, tendenti ad una più energica garanzia della libertà politica) quelle che, salvo ogni ulteriore suggerimento e specificazione derivante dalla concreta situazione storica, possono essere fin da ora plausibilmente attuabili.
La prima, e fondamentale, di tali riforme è quella della scuola. Non si intende con ciò una delle solite riforme di programmi o di istituzioni scolastiche. Riforma sociale della scuola significa organizzazione nazionale dell’insegnamento, tale da rispondere, al massimo, all’esigenza prima di ogni giustizia sociale: all’esigenza che ogni giovane possa sviluppare in pieno le sue attitudini, qualunque sia la sua posizione economica di partenza. Bisogna, anzitutto, creare insegnanti: attirerà alla scuola forze viventi della nazione, e non soltanto forze di scarto, come fatalmente deve avvenire, nonostante le nobilissime eccezioni, quando si trascura il lato economico della cosa. Bisogna, in secondo luogo, eliminare dappertutto la vergogna dell’analfabetismo, organizzando ed estendendo al massimo, anche nel numero degli anni, l’insegnamento obbligatorio, e dando ad ognuno la reale possibilità di adempiere a tale obbligo. Bisogna, ancora, concepire tale prima istruzione, necessaria ed uguale per tutti, non come educazione di tutto il popolo, compiuta nello spirito e sotto il controllo della Corte Costituzionale, ai più semplici e fondamentali principi della convivenza liberale, quale sua preparazione imprescindibile all’esercizio della vita politica. Bisogna, infine, combinando il sistema di una più adeguata e rigorosa selezione scolastica, resa possibile dal migliorato livello degli insegnanti, con quello di una larghissima distribuzione di borse di studio e dell’istituzione di convitti gratuiti per i meno abbienti che lo meritino, assicurare l’indipendenza della selezione dei valori umani da ogni iniziale di censo e di classe.
Solo in tal modo si potrà veramente avviare la fusione ed eliminazione delle classi, e preparare un’umanità capace di più avanzate conquiste sociali, sia perché proveniente dai più diversi ceti, sia perché costituita da masse meglio educate all’intelligenza dei problemi politici. Né a ciò sarà da opporre che, con una simile organizzazione, potrà determinarsi una fuga dalle occupazioni umili, ed una pletora di aspiranti alle professioni più elevate. Ciò sarà impedito tanto dalla migliorata forma della selezione, quanto dalla diminuzione del distacco economico tra le varie retribuzioni, verso cui progressivamente si tenderà. E d’altra parte i migliori tra gli operai ed i contadini avranno modo di far valere le proprie capacità anche in seno al loro stesso ambiente, nelle varie organizzazioni sociali ed amministrative, orientate anch’esse verso il sistema della libera elezione. Quel che soprattutto gioverà, in ogni caso, sarà la selezione e lo sviluppo delle competenze. Qualsiasi cosa si intenda creare in concreto in fatto di riforme degli istituti giuridici ed economici in senso socialista , bisogna insieme formare gli uomini (operai, tecnici, dirigenti) che siano all’altezza di tali nuovi ideali.
10. Sia questa organizzazione per il massimo potenziamento delle energie umane della nazione, sia ogni altro provvedimento di carattere sociale che nello stesso senso lo Stato sarà condotto a prendere, esigeranno, naturalmente, un cospicuo aumento delle disponibilità pubbliche di ricchezza. A ciò provvederanno, in certa misura, già le economie che saranno permesse da un’amministrazione più saggia e controllata del denaro dello Stato. La cessazione di ogni politica di avventure imperialistico-pubblicitarie permetterà di economizzare grandemente sui bilanci militari; l’esercizio costituzionale della vita politica interna ridurrà in larga misura le spese di polizia; il controllo della pubblica opinione e la stessa struttura interna dello stato liberale porranno un energico freno al flusso del denaro dei contribuenti nelle tasche dei funzionari e degli impresari; il decentramento amministrativo, che si cercherà di attuare nella massima misura compatibile con le esigenze tecniche ed economiche, renderà possibile, avvicinando sempre più l’amministrazione del denaro pubblico all’occhio dei cittadini, una sempre maggior misura di tale controllo e risparmio.
Ma bisognerà anche, in secondo luogo, adottare quelle energiche riforme del regime fiscale e del regime successorio, che d’altronde rispondono già di per sé stesse ad una stringente esigenza di giustizia sociale. Ad un regime di tassazione sostanzialmente proporzionale, andrà sostituito un regime sostanzialmente progressivo (cioè in cui aumenti proporzionalmente ai reddito anche l’aliquota dell’imposta).
E tale progressione dell’aliquota dovrà naturalmente essere più severa per quanto riguarda le tasse di successione; addirittura, a questo proposito, potrà essere stabilito un limite di valore, oltre il quale la successione dell’eccedenza spetti senz’altro alla comunità. In ambedue i campi, fiscale e successorio, la concreta commisurazione delle riforme dovrà, s’intende, essere compiuta tenendo presenti entrambe le opposte esigenze, di far tanto più contribuire alla ricchezza privata quanto più essa risulti esorbitante rispetto all’effettivo lavoro con cui è stata acquistata, e di non reprimere l’impulso al guadagno individuale e all’interessamento economico per la propria famiglia.
In terzo luogo, bisognerà passare gradualmente a tutte quelle riforme di carattere più radicale, che tendano ad escludere o a restringere al massimo il possesso e l’uso privato del capitale, per deferirlo all’uso e all’amministrazione comune. Canone essenziale, in questo campo, sarà quello che tanto più energicamente si dovrà espropriare, quanto meno il proprietario opererà come imprenditore o amministratore diretto, e quanto meno sussisteranno le condizioni di libera concorrenza, e quindi di autocontrollo dei profitti e dei redditi. Più immediatamente suscettibili di diventare oggetto di simili riforme appariranno quindi le aziende di assicurazione, di credito, di trasporti, di comunicazioni telefoniche, di produzione di energia, di estrazioni minerarie, di lavori pubblici, e le proprietà agrarie o immobiliari eccedenti un certo limite. Bisognerà, nello stesso tempo, creare pazientemente i quadri dei nuovi amministratori, sia per rendere possibili e vitali simili riforme, sia per aprire la via ad un loro ulteriore ampliamento. Bisognerà, cioè, educare i lavoratori a partecipare all’amministrazione, a rendersi conto dei costi e dei redditi, ad esercitare lo spirito di controllo e dell’autogoverno, attraverso ogni plausibile forma di consigli di fabbrica, di associazioni sindacali, di organizzazioni cooperative, sempre basate sul fondamento della libertà e del rispetto della legalità, incompatibile con lo scatenarsi incomposto degli egoismi di classe e di categoria.
11. In tema di politica estera, principio direttivo del liberalsocialismo è ovviamente quello stesso su cui si basa la sua politica interna. E’ il principio della pacifica ed armonica convivenza delle individualità nazionali, secondo il diritto della giustizia e della libertà.
Il liberalsocialismo respinge con ciò nel modo più reciso non solo ogni forma di imperialismo, di nazionalismo e di razzismo, ma anche il principio dell’ indipendenza della politica dall’etica, della mera ragion di Stato a cui il reggitore deve ispirarsi nella lotta per la sua nazione. La sola forma non volgare in cui possa concretizzarsi questo concetto, è quella del “sacro egoismo”, di cui lo statista dovrebbe necessariamente investirsi quando impersona e difende gli interessi dei suoi concittadini contro gli interessi dei cittadini delle altre nazioni. Ma neppure in questa forma esso regge alla critica. A nessuno è lecito interessarsi tanto della propria famiglia da disinteressarsi del tutto dalle famiglie altrui; a nessuno è lecito abnegarsi così esclusivamente per la propria città, da considerare come male tutto ciò che giovi alle altre città; a nessuno è lecito investirsi a tal segno del bene della sua nazione, da diventare cieco per il bene l’umanità. In nessun ambito l’ideale della forza, della potenza, del predominio ha una sfera di legittimità, in cui esso appaia giustificato di fronte al superiore ideale del diritto, della giustizia e della morale.
D’altronde, il rifiuto dell’ideale della guerra, e di tutto ciò che esso coinvolge (autarchia, protezionismo, isolamento economico e spirituale) non è soltanto un’esigenza etica: risponde anche al più evidente imperativo economico. In altri tempi, in cui combattevano gli eserciti e non le nazioni, il costo della guerra, a paragone di quello odierno, era irrisorio, ed era dato sperare che i vantaggi economici di una vittoria o di una conquista potessero compensarlo. Oggi la tecnica moderna ha portato le cose a tal punto, che solo la menzogna organizzata della propaganda può far credere ai popoli che la guerra sia un’impresa remunerativa. L’avvento della guerra totale segna veramente, in questo senso, una svolta nella storia: la fine dell’età della convenienza economica della guerra. E quindi chi continua a ripetere che la politica estera è sempre stata un gioco di forza e di predominio, e che non c’è ragione di credere ad una possibile conversione dei popoli e degli stati all’ideale di una ordinata e pacifica comunità di nazioni libere, manifesta con ciò non soltanto la sua grettezza morale, ma anche la sua incomprensione di quanto di nuovo la storia e l’economia gli pongono avanti.
Il liberalsocialismo ispirerà di conseguenza la sua politica estera agli ideali della solidarietà internazionale, propugnando il rafforzamento e l’instaurazione di tutto ciò che possa contribuire a rinvigorirla ( disarmo, federazione europea, organismi giurisdizionali e mezzi di coercizione per l’attuazione del diritto internazionale). Nello stesso tempo, farà tutto ciò che sarà in suo potere, nel campo dell’opera politica e della propaganda, affinché la comunità delle nazioni si configuri non soltanto nel senso di liberalismo internazionale, che garantisca le indipendenze degli stati e le soluzioni arbitrali e giurisdizionali delle controversie, ma anche in quello di un socialismo internazionale, che garantisca la parità dei diritti anche sul piano economico. Esso propugnerà, in tal senso, l’abolizione, o la massima riduzione possibile, delle barriere doganali, con eventuali disposizioni di compenso, ispirate al criterio di una giustizia comune, per gli stati che ne risultassero realmente danneggiati; l’internazionalizzazione delle colonie e delle grandi fonti di materie prime; la progressiva estensione dei diritti di cittadinanza al di là dei confini delle singole nazioni.
12. Sia per tale orientamento internazionalistico della sua concezione dei problemi della politica estera, sia per la sostanziale indipendenza della sua complessiva dottrina etico-politica da ogni limite strettamente nazionale, il liberalsocialismo non si considera ristretto entro i confini del proprio stato. Esso auspica quindi la formazione di una comunità internazionale, composta di tutti coloro che, in qualsiasi nazione, ne condividano la teoria e gli ideali. Questa Internazionale, che, sulla pianta della libertà che non deve morire negli animi e nelle attuazioni, inserisce un rinnovamento morale ed un rinnovamento sociale, tende a realizzare una civiltà la quale, svolgendosi, dà origine nel suo ambito a varie correnti e a vari atteggiamenti, e prova così la propria complessità e fecondità storica.
D’altra parte, se in tal modo il liberalsocialismo si appella all’uomo in quanto cittadino del mondo, e tende a far coincidere le soluzioni dei problemi di politica interna e di politica esterna nel senso di un sempre maggiore avvento dei principi di libertà, di giustizia e di eguaglianza nell’universale ordinamento giuridico degli uomini, sul piano propriamente interno esso si presenta ad un tempo come programma di partito e come generale concezione costituzionale della convivenza dei partiti. Al primo aspetto corrisponde il suo complessivo programma liberalsocialista; al secondo, quando in esso si è definito come più propriamente liberale.
In questo secondo aspetto, il liberalsocialismo si presenta perciò quale comune base d’intesa per tutti i partiti e per tutte le tendenze, che accettino la fondamentale regola del giuoco: la regola della lealtà, la regola della libertà che non deve uccidere se stessa. Esso auspica in tal modo la formazione di un Fronte della libertà, a cui partecipano tutti coloro che pur divergendo, in qualsiasi senso e misura, dal resto del programma liberalsocialista, ne accolgano la teoria delle libertà costituzionali e la concezione degli istituti necessari per il loro ordinato funzionamento.
Chiunque ha il senso della convivenza civile e dell’onestà politica deve potere, almeno, appartenere a questo fronte. Esso è il fronte comune della libertà e della lealtà.
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