di Simone Santini - 18 luglio 2009
Doveva essere la crisi finale del capitalismo ma i colossi di Wall Street, dopo alcuni scossoni, tornano a fare la voce grossa.
I dati del secondo trimestre del 2009 dicono che la banca (ex) d'affari Goldman Sachs, una delle regine del mercato che ha superato indenne l'anno terribile, incamera ora profitti record e promette bonus milionari a dipendenti e dirigenti: forse la crisi finanziaria non è ancora finita, ma per alcuni banchieri pare proprio di sì.
Sembrano lontani i tempi in cui i risparmiatori britannici facevano le file agli sportelli della Northern Rock, del tracollo di Bear Stearns, del crack di Lehman Brothers, dell'acquisizione di una boccheggiante Merrill Lynch da parte di Bank of America. E come dimenticare le decisioni di Morgan Stanley e proprio Goldman Sachs di cambiare statuto e trasformarsi da banche d'affari in banche commerciali (cosa avvenuta lo scorso autunno), sottostando così alla regolamentazione della Fed (la Banca Centrale americana) ma potendo anche accedere ai ricchi fondi statali, dunque pubblici, destinati agli enti finanziari in crisi.
A giudicare dai risultati fu una mossa brillante. Grazie a quella boccata d'ossigeno (tra l'altro più che sostanziosa, 10 miliardi di dollari) Goldman Sachs poteva continuare, dietro la foglia di fico di essere anche una banca commerciale, tutte quelle operazioni finanziarie che sole possono dare rendimenti stratosferici. I numeri parlano chiaro. Le attività di trading (ovvero la speculazione su indici azionari, materie prime, cambi valutari e quant'altro) hanno rappresentato per questo 2009 la gran parte (70-80%) degli utili della compagnia (più 33% rispetto lo scorso anno), mentre il nuovo settore, l'attività strettamente bancaria, per questo secondo trimestre ha segnato una perdita del 15% rispetto al precedente.
In termini economici significa che il capo dell'ufficio finanziario, David Viniar, ha potuto annunciare che ben 6,65 miliardi, in soli tre mesi, sono stati accantonati per distribuire gratifiche e bonus ai dipendenti (anche se saranno i dirigenti ad avere le fette più grosse, si calcola che ogni dipendente potrà portare a casa qualcosa come 200mila dollari extra). In termini politici significa che la Goldman ha potuto consolidare le proprie posizioni, continuando come e meglio di prima le sue attività di trading praticamente senza più concorrenti (come le già citate Lehman Brothers, Bear Stearns, Merrill Lynch), stabilizzandosi come un centro di potere politico, oltre che economico, elemento che rappresenta il volano delle sue fortune e di cui la capacità di fiutare il vento nelle attività di speculazione è una diretta conseguenza (1).
La compagnia sembra essere uscita dalla tempesta forse più forte di prima, traendo vantaggi dalle situazioni critiche e permettendosi ora il lusso di poter restituire in anticipo le sovvenzioni statali, così che i controllori designati da Obama non avranno più nemmeno voce in capitolo nel determinare un tetto a quei guadagni dei manager che tante polemiche hanno suscitato in America (nel 2007, quando la crisi era già cominciata, fece scalpore il bonus da 100 milioni tondi che si era auto-assegnato il presidente e amministratore delegato di Goldman Sachs, Larry Blankfein) (2).
Quanto delineato riguarda solo le capacità, le fortune, la preveggenza di una singola compagnia (pur particolare e paradigmatica in quel panorama) oppure si possono trarre indicazioni per valutazioni di carattere generale valide addirittura a livello geopolitico?
Come fatto rilevare da Giulietto Chiesa (3), questa crisi che avrebbe dovuto rivoluzionare il pianeta, al punto che nulla sarebbe più stato come prima, qualcosa l'ha effettivamente cambiato. Comparando la classifica delle venti maggiori compagnie finanziarie a livello globale da dieci anni fa ad oggi, si può notare come nel 1999 ben 11 fossero anglosassoni, ovvero sette americane e 4 britanniche (prima assoluta Citygroup con 151 miliardi di dollari di capitalizzazione). Prima non anglosassone la svizzera UBS all'ottavo posto seguita dalla nipponica Bank of Tokio-Mitsubishi. Per avere un'altra europea non anglosassone si doveva arrivare al 18° posto con la spagnola Banco di Santander.
Oggi sembra di vivere letteralmente in un'altra epoca. Le prime tre banche del mondo per capitalizzazione sono cinesi: Industrial & Commercial Bank of China; China Construction Bank; Bank of China. La prima americana è JP Morgan Chase (quarta) e poi la nostra Goldman Sachs (ottava) e Wells Fargo (nona). E' rimasto un solo istituto britannico, HSBC, al quinto posto.
In concomitanza con la seconda guerra mondiale, si notò un poderoso spostamento di capitali dal Regno Unito (la culla della finanza dell'epoca) verso la costa orientale degli Stati Uniti. Questo annunciò (anticipandolo o determinandolo?) un momento geopolitico storico, ovvero il passaggio dall'Impero britannico all'Impero nord-atlantico. L'odierna rivoluzione finanziaria potrebbe dunque designare il declino americano-atlantico verso un nuovo centro di potere globale, asiatico?
Negli anni '80 si pensò che il Giappone potesse sopravanzare gli Stati Uniti dal punto di vista economico. Poi la crisi finanziaria, la cosiddetta "sindrome dello yen", portò il Paese del Sol levante in un limbo da cui non è più sembrato scuotersi. Gli analisti faticano ad identificare il male oscuro nipponico, a noi sembra evidente. I giapponesi erano diventati i grandi produttori di quegli anni ed avevano investito i proventi dell'export in titoli del debito pubblico, soprattutto americano. In questo modo avevano legato il proprio destino a quello di un grande debitore, gli Stati Uniti, verso cui non avevano nessuna possibilità di influenza. La moneta di riferimento per l'acquisto delle risorse primarie (di cui il Giappone è privo) rimaneva il dollaro, non lo yen; una scarsa potenza demografica e in declino (i nipponici sono il popolo più vecchio del mondo); nessuna capacità di espansione in termini di dominio, non avendo un vero esercito dalla fine della guerra mondiale. Queste debolezze strutturali hanno definito quindi il Giappone come una entità pur di primo piano ma sottoposta ai ritmi voluti dal padrone della locomotiva, gli stessi Stati Uniti. Insomma, da possibili competitori al rango pur di lusso di vassalli dell'Impero.
Ci pare che gli Usa stiano facendo tutto quanto è necessario per inoculare alla Cina lo stesso virus nipponico. L'operazione va condotta con termini di grandezza ben diversi, essendo chiaro che la Cina non è il Giappone. Tutt'altra demografia, tutt'altra capacità di proiezione e influenza verso altri continenti e popoli.
All'inizio del secolo gli analisti americani prevedevano una finestra temporale di 15-20 anni per imbrigliare la Cina altrimenti la sua politica di espansione (qualcuno ha detto che quel paese/continente non ha una politica estera ma per sua natura può avere solo una politica imperiale) sarebbe necessariamente entrata in collisione con la potenza americana con un impatto deflagrante. Si sta arrivando velocemente alla resa dei conti, ma la strategia approntata è a buon punto di attuazione.
Oggi sono i cinesi ad essere i grandi detentori del debito americano. Al tempo stesso l'occupazione militare delle principali aree energetiche del pianeta (che si concluderà con la prossima normalizzazione dell'Iran) impediscono al Dragone un accesso sicuro e soprattutto indipendente alle vitali e fondamentali risorse primarie.
Anche la crisi finanziaria ha svolto la sua determinante funzione, questa infatti non ha colpito solo l'occidente.
I dati dicono che la Cina si trova in uno stato assoluto di debolezza a livello macroeconomico. Se, ufficialmente, il tasso di crescita è stato del 6,1% nel primo trimestre dell'anno, questo appare irrealistico secondo alcuni analisti (4). Ad esempio, nello stesso periodo il consumo di energia elettrica è calato del 3,2%, mentre l'export navale ha avuto un crollo del 26%. Il rapporto debito/Pil viaggia ormai oltre il 50% (taluni lo vedono verso il 70%) e il sistema bancario ha una esposizione debitoria di 4.200 miliardi di dollari.
Un piccolo segnale, apparentemente contro tendenza ed inusuale, ma molto significativo, è il seguente. Un consorzio anglo-cinese composto da British Petroleum e China National Petroleum si è aggiudicato il primo appalto post-guerra per lo sfruttamento del giacimento di Rumalia, in Iraq. In pole-position per i giacimenti di Zubair e Nassiriya appare un altro consorzio, stavolta italo-cinese, con l'Eni e la Sinopec.
Ricapitolando, ci sentiamo di enucleare una ipotesi di lavoro che in questa sede abbozziamo soltanto nelle sue linee principali. La crisi finanziaria non ha sradicato il sistema bancario statunitense, allo stato sembra averlo fortificato, eliminando dal contesto gli attori più deboli e consolidando i più forti. Se taluni indicano la crisi come ormai superata nella sua fase più pericolosa, altri vedono per la fine estate - inizio autunno nuove fortissime turbolenze. Se questo avverrà bisognerà verificare chi saranno i soggetti colpiti. Potrebbero verificarsi ulteriori opportunità a vantaggio dei detentori di grossi capitali per acquistare a costi stracciati pezzi di economia reale (come aziende in crisi) se non addirittura vaste aree di territori coltivabili come sta accadendo in Africa, Asia, America Latina.
L'attuale leadership cinese (identificabile ai vertici col presidente Hu Jintao ed il premier Wen Jiabao), dopo aver liquidato la cosiddetta "cricca di Shanghai" (l'ala riformista del partito comunista) sta tentando una politica egemonica con forti caratteri nazionalistici e militaristi. La crisi mondiale sta intaccando il loro potere attraverso i punti deboli del sistema, finanza ed economia. Si sta infatti riscontrando il tentativo di costituire una classe dirigente finanziaria ed economica che, seppur cinese, possa essere cooptata nel sistema di potere occidentale. Se le più grandi banche del mondo sono oggi cinesi, le leve del capitalismo finanziario sono ancora occidentali; se le compagnie petrolifere vogliono fare affari in Iraq, devono passare attraverso alleanze con gli occidentali. Ben presto queste realtà, "occidentalizzate" perché poste sotto controllo, entreranno in contrasto con la guida politica del paese e si determinerà uno scontro di potere decisivo. A quel punto la Cina sarà stata destabilizzata al suo interno sia dal punto di vista sociale che etnico (come si sta già verificando nelle fondamentali regioni orientali del Tibet e dello Xinjiang) e sarà stata circondata nei suoi centri di approvvigionamento vitali (5).
La prospettiva strategica non ci pare quella di giungere ad uno scontro finale occidente/oriente quanto piuttosto di porre le condizione affinché il colosso cinese possa arrendersi al potere occidentale ed adeguarsi ad esso, secondo le regole del suo modello di sviluppo. Un cambiamento epocale avverrà, ma non nel senso del passaggio di dominio occidente/oriente, quanto piuttosto come spostamento del baricentro del potere. Se il XX è stato il secolo Atlantico, il XXI dovrà essere il secolo Pacifico. Cina e Stati Uniti dovranno infatti integrarsi, l'Asia sarà il grande produttore (e progressivamente diverrà anche un grande consumatore), gli Stati Uniti avranno ancora la guida politico/militare e scientifico/tecnologica. Questo colosso a due gambe sarà ancora plasmato secondo i dettami, le regole, i rapporti di potere derivanti dai detentori del capitale finanziario transnazionale, in ultima analisi la vera forza dominante della modernità.
Non sappiamo se, riuscendo questa strategia, ci troveremo a fronte di una sorta di "fine della storia", di certo sarà un ordine mondiale che potrà durare almeno molti decenni. Al momento le forze attuative ci sembrano avere un grande vantaggio sulle possibili forze resistenti. Ci sembra, insomma, che l'Impero stia vincendo.
lunedì 20 luglio 2009
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