di Nicola Biondo - 25 luglio 2009
Il patto tra stato e mafia? Chi ha lavorato come me da magistrato in Sicilia lo ha visto nel corso degli anni. Si è estrinsecato in mille modi... Io ne sono stato una delle vittime». Alfonso Sabella, 46 anni, ex pm della Procura di Palermo negli anni ’90, ha arrestato decine di boss latitanti di Cosa nostra: da Giovanni Brusca a Leoluca Bagarella da Pietro Aglieri a Vito Vitale.
Il cacciatore di mafiosi, il giudice-sbirro, come si autodefinisce, dal suo ufficio al tribunale di Roma segue con enorme interesse le indagini dei suoi colleghi siciliani. Con un rimpianto: «Tutto quello che sta avvenendo oggi potevamo scoprirlo 10 anni fa. Abbiamo perso un occasione ma sono fiducioso».
Dottor Sabella perché questo rimpianto?
«Perché che ci fu una trattativa a cavallo delle stragi di Capaci e via D’Amelio lo avevano capito anche i sassi. Ma precise volontà che hanno creato un tappo alle indagini».
Si riferisce al papello a quella lista che Riina secondo alcuni testimoni avrebbe inviato allo Stato?
«Anche. Questa vicenda che adesso sembra una spy-story è fatta di sangue e trattative, di cui qualcuno dovrebbe sentire il peso morale».
Si riferisce al generale Mori o all’ex ministro Mancino che solo oggi ammette che la mafia provò a trattare?
«Posso solo dire che avviare una trattativa embrionale dopo la strage di Capaci con i corleonesi significava mandare automaticamente un messaggio: che il metodo stragista è pagante. Anche se mi rimane un dubbio. Mi sono sempre chiesto se uomini dello stato non abbiano avvicinato emissari della mafia subito dopo il delitto Lima, due mesi prima della strage di Capaci. Quella morte è davvero uno spartiacque. Quel delitto presuppone la fine di un patto e l’avvio di una trattativa».
E arriviamo a Capaci.
«A via D’Amelio. Perché vede Capaci ha di eclatante solo la modalità. Tutti i mafiosi dicono che nelle riunioni preparatorie si parlava di Falcone e di uccidere i politici che avevano tradito. Ma non parlano di Borsellino come di un obiettivo preciso. È la strage del 19 luglio ad essere completamente anomala. Apparentemente il peggior affare di Cosa nostra. Riina dai colloqui che Ciancimino intratteneva aveva capito che il sangue era il mezzo con il quale arrivare ad un patto. E per favore non si dica più che fu una vendetta perché il governo aveva emanato il 41bis. Quel decreto non aveva i numeri per poter essere convertito in legge. E invece con la strage cambia tutto e si apre il carcere duro per i mafiosi».
Qual è la sua idea allora?
«Brusca e altri ci dicono che la fissazione di Riina era ottenere la revisione del maxiprocesso che aveva condannato all’ergastolo proprio Riina. Dal carcere davanti ai giornalisti nel 1994 il boss dice: “Perchè quando esco che ho la moglie ancora giovane”. Borsellino non avrebbe mai accettato nulla del genere. Ma vorrei aggiungere una cosa».
Prego.
«Con le norme attuali oggi quel processo voluto fortissimamente da Falcone e Borsellino e pochi altri si risolverebbe in una pioggia di assoluzioni. Se si fosse arrivati alla revisione con le norme attuali Riina sarebbe stato assolto».
Cosa pensa dell’uscita di Riina su fatto che la strage di via D’Amelio non è cosa sua?
«Forse ha capito, o qualcuno gli ha suggerito, che questo è il momento di intorbidare le acque. Non ho mai avuto dubbi che la strage sia stata messa in piedi dagli uomini più fidati di Riina. Tutto si basa sul racconto di Scarantino ma chi lo ha indotto a mettersi in mezzo? L’ho interrogato a lungo. Non gli ho dato credito nemmeno quando si accusava di omicidi. Quella strage è ideata e attuata da uomini di Riina: i Graviano e i Madonia. E serviva ad alzare il prezzo della trattativa».
Poi però Riina finisce nella rete.
«Certo è il sacrificio umano che Provenzano compie. È lui che dopo via D’Amelio si intesta la trattativa ma su altre basi. Basta con il sangue – dice al popolo di cosa nostra - e non impedisce al Ros, che ha ricevuto la soffiata giusta da persone legate a lui, l’arresto del suo compare Riina».
È anche strano che Di Maggio, quello che ha fisicamente indicato Riina al Ros dica che Provenzano è morto e quindi è inutile cercarlo.
«Mi limito a rivelare che il RoS di Mori e Subranni dall’arresto di Riina in poi non fa più un’operazione degna di questo nome».
Il nuovo patto si consolida con l’arresto di Riina?
«È un passaggio fondamentale ma non è l’unico. Il primo aprile 1993 c’è una riunione di tutti i capi per decidere le stragi. Provenzano ha già fatto sapere che non le vuole in Sicilia e non partecipa. La risposta di Bagarella è chiara: perché il mio paesano non se ne va in giro con un cartello al collo e ci scrive pure che lui con le stragi non c’entra”….»
Si dissocia insomma.
«Ecco, la parola dissociazione va di pari passo con la trattativa. E intanto Provenzano conquista la leadership e macina ricchezza. Poi nel 1997 c’è un altro indizio di questo accordo».
Quale?
«Il fatto che il pentito Di Maggio, gestito dal Ros, scatena una guerra contro i suoi nemici utilizzando come manovalanza mafiosi che risultano essere confidenti dello stesso Ros. E parte la polemica contro la nostra procura e i pentiti perché Di Maggio è proprio quello che ha raccontato il famoso bacio di Riina ad Andreotti. E mentre noi indaghiamo su queste vicende la Procura di Caltanissetta affida in esclusiva allo stesso Ros di Mori le indagini sui mandanti esterni delle stragi».
E anche qui c’è un filo che lega molte cose. E si arriva all’altro obiettivo della trattativa. Quale?
«La dissociazione di cui il capo della procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra, tra i tanti, è convinto assertore».
Di cosa si tratta?
«È una vecchia idea che viene suggerita a Provenzano. I mafiosi devono fare una dichiarazione in cui si arrendono ma non sono costretti a fare i nomi dei loro complici. In compenso escono dal 41 bis ed evitano qualche ergastolo».
Chi e quando la propone?
«Ne aveva parlato Ilardo per primo nel 1994. Poi nel 2000 otto boss fanno sapere che vogliono dissociarsi e chiedono un legge ad hoc. Io sono al Dap. Mi oppongo a questa soluzione e con me ci sono Caselli e il ministro di allora Fassino».
E finisce li?
«No, perché la cosa si ripropone di nuovo nel 2001 quando scopro che questa volta sono coinvolte tutte le mafie italiane a chiedere la dissociazione e che l’ambasciatore è salvatore Biondino legatissimo a Riina. Solo che stavolta pago la mia opposizione e il mio ufficio viene soppresso proprio da Tinebra che intanto aveva sostituito al Dap Caselli. Molto tempo dopo si scopre ed è tutt’ora oggetto di un’inchiesta della procura di Roma che il magistrato che Tinebra ha messo al mio posto al Dap collaborava proprio con il Sisde di Mori nella gestione definita anomala di alcuni detenuti e aspiranti collaboratori di giustizia».
In che modo ha pagato?
«Sono passato alla storia non come quello che ha arrestato Brusca e gli altri ma come il torturatore di Bolzaneto.... Questa macchia mi è rimasta e il Csm, guarda caso diretto da Mancino, occulta i documenti che provavano la mia estraneità ai fatti di Genova ed emette nei miei confronti un provvedimento infamante. E fa di più: quando mi lamento di tutto questo dal Csm viene comunicata all’Ansa la notizia che mi sarei candidato nelle liste di AN. Una falsità.
Quando inizia a capire di stare pagando quel no alla trattativa?
«Quando vengo a sapere che i servizi, con Pio Pompa legato alla Telecom, aprono un fascicolo su di me. Era parte di un operazione che coinvolgeva anche politici e altri colleghi. Ho chiesto di essere tutelato dal Csm. Ma sono stato lasciato solo».
Lei dice di essere una vittima di questo patto che Provenzano avrebbe sottoscritto con uomini dello stato in cambio di una nuova pace e molto silenzio. Secondo lei si riusciranno a trovare delle prove?
«Non credo che Provenzano abbia lasciato prove. Credo che ci siano responsabilità morali in questa storia e una serie di vicende ancora da chiarire. Ma una cosa la so: con la mafia non si tratta perché nel migliore dei casi, come il messaggio di Riina dimostra, ci si pone sotto ricatto».
domenica 26 luglio 2009
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